Una vita con Karol
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Una vita con Karol

  1. 224 pagine
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Una vita con Karol

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Informazioni sul libro

Il Papa che ha cambiato il mondo nell'appassionato ricordo di chi gli è stato a lungo più vicino. 'L'ho accompagnato per quasi quarant'anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui. Ora, nel momento della morte, lui è andato da solo. […] E ora? Dall'altra parte, chi lo accompagna?'

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858600627

SECONDA PARTE


Gli anni del pontificato

11

«Aprite le porte a Cristo»

Era il 22 ottobre 1978, una domenica. Il nuovo Papa, il primo Papa slavo della storia, cominciava ufficialmente il suo ministero pontificale. E nell’omelia, durante il solenne rito d’inizio, lanciò quell’indimenticabile grido: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo».
Era un appello rivolto non solo ai cattolici, non solo ai cristiani. La sfida a cui si doveva rispondere era senza precedenti, perché la tentazione dell’uomo di rifiutare Dio in nome della propria libertà, della propria autonomia, aveva ormai assunto una dimensione planetaria. Aveva ormai superato ogni distinzione tra religioni.
Appena lessi il discorso, ne rimasi colpito. Perché in quel discorso il Santo Padre esprimeva il suo spirito, il suo pensiero e il suo programma. Era il suo programma di vita, il programma del suo cuore, della sua pietà e, nello stesso tempo, il programma del servizio pastorale che, come successore di Pietro, stava iniziando nella Chiesa universale.
Penso perciò che quelle parole «Aprite!», «Non abbiate paura!» – siano state il motto della sua vita e le linee-guida del suo pontificato. Quelle parole volevano infondere forza e coraggio, in modo particolare alle nazioni ridotte in schiavitù e alle quali lui annunciava la libertà.
In piazza San Pietro, presenti alla cerimonia, c’erano anche l’ambasciatore sovietico in Italia e, accanto a lui, il presidente del Consiglio di Stato della Polonia, Henryk Jablonski. A un certo punto, il diplomatico si era voltato verso il vicino, e con un tono sprezzante gli aveva sibilato: «La più grande impresa della Repubblica popolare polacca è stata quella di regalare al mondo un Papa». Voleva dire: un Papa venuto dall’Est. Un Papa che conosceva bene il mondo comunista, che sapeva come affrontarlo. E, dunque, bisognava cominciare a pensare a come neutralizzare l’azione di questo Papa…
Ma forse l’ambasciatore dimenticava che quel «Non abbiate paura!» veniva, a Giovanni Paolo II, non da una ideologia, non da una strategia politica, bensì dalla pratica del Vangelo, dall’imitazione di Cristo. Era la sua forza! Con quelle parole cominciò a camminare per le vie del mondo e, ritengo, a trasformarlo.
Anzi, Karol Wojtyla cominciò a farlo immediatamente, già alla fine di quella solenne celebrazione. Impugnò la croce pastorale quasi fosse un vessillo, una bandiera, e con passo deciso scese giù lungo il sagrato di San Pietro. Come se volesse andare incontro al mondo intero per scuoterlo, per obbligarlo a uscire dalla passività, dalla rassegnazione, dalle sue angosce, dai suoi falsi miti, dall’illusione di poter fare a meno di Dio.
Il Santo Padre lo aveva detto, appena eletto, che non voleva la sedia gestatoria. Lo aveva detto subito, proprio per evitare che gliela proponessero. Aveva le gambe buone, le gambe di un montanaro, preferiva camminare…
Allo stesso modo rifiutò il triregno. Non per via del legame simbolico con un potere temporale ormai finito, questo no. Ma molto più semplicemente perché c’era stato un Concilio, e c’era ora una Chiesa più evangelica, più spirituale.
Del resto, anche il suo predecessore, Papa Luciani, aveva cominciato così, rinunciando alla cosiddetta «incoronazione». E a lui, Wojtyla, piaceva quello stile pastorale. Lo considerava più adatto ai nuovi tempi e più consono alla missione di Pastore universale, che deve essere vicino alla gente. Anzi, deve andare tra la gente.
Più tardi lo stesso Giovanni Paolo II confiderà di essersene reso pienamente conto solo in un secondo momento. Ma quelle parole pronunciate in piazza San Pietro erano parole che, nel loro contenuto più profondo, Wojtyla serbava dentro di sé, dentro il suo cuore, da molto tempo.
E infatti lo aveva scritto di getto, quel discorso. Tutto da solo, a mano, con pochissime correzioni, e naturalmente in polacco. Poi però, una volta tradotto in italiano, aveva voluto fare, per così dire, le prove. Lo aveva letto ad Angelo Gugel, il suo aiutante di camera; e Angelo era molto preciso, severo, se sbagliava gli accenti lo correggeva.
Ma è vero. Ciò che il Papa disse quella domenica d’ottobre faceva parte della sua memoria, della sua storia, del patrimonio di fede e di cultura che si era portato dietro dalla sua Patria, fin sulla cattedra di Pietro.
Da lì, appunto, scaturiva la visione che Giovanni Paolo II aveva del rapporto tra il mistero della Redenzione e la verità sull’uomo. E che fu poi al centro della sua prima enciclica, Redemptor hominis. «Con la sua Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo a ogni uomo.» Cioè, Cristo svela progressivamente all’uomo – uomo che è la «prima e fondamentale via» della Chiesa – la dimensione costitutiva del suo stesso essere, il suo destino, la sua singolarità unica e irripetibile come persona, in possesso di una propria originale dignità.
Si trattava di una verità evangelica che era stata riscoperta e riproposta dal Vaticano II, in particolare dalla costituzione pastorale Gaudium et spes. E, insieme, era l’approdo finale delle riflessioni, dei pensieri e delle esperienze che Karol Wojtyla aveva maturato durante gli anni del suo ministero sacerdotale, del suo insegnamento e del suo episcopato. Dunque, l’enciclica programmatica rappresentava la sintesi tra Concilio e retaggio polacco. Sintesi tradotta poi dal Papa nell’impegno di unire la missione della Chiesa con il servizio a tutti gli uomini. Uomini considerati non astrattamente, non solo simbolicamente, ma nella loro concretezza reale, storica, sul piano individuale e insieme comunitario e sociale.
Forse, a quel tempo, quando uscì la Redemptor hominis, il problema non venne tanto alla superficie, non se ne parlò molto sui giornali. Ma quella «scelta per l’uomo» non fu accolta pacificamente in tutti gli ambienti ecclesiastici, e neppure nei circoli teologici. Qualcuno arrivò addirittura a scandalizzarsi per quella affermazione dell’uomo come «via» della Chiesa. Quasi che il nuovo Papa, impostando l’attenzione sulla centralità del soggetto umano, avesse in qualche modo scalfito il primato di Dio.
Bisogna sempre risalire a quel «Non abbiate paura!», perché da lì venne a Giovanni Paolo II l’ispirazione per individuare l’idea centrale della Redemptor hominis: l’uomo, in quanto redento da Cristo, è la «via» della Chiesa, l’uomo nella sua completezza di anima e di corpo, nella sua costante tensione tra verità e libertà.
Sì, forse, almeno in quel momento, almeno in certi ambienti, in una situazione ecclesiale sulla quale pesavano ancora certe paure del passato, quella frase avrà anche potuto stupire, far arricciare il naso. Ma poi è divenuta il programma di tutta la Chiesa, il programma del pontificato, e ancora oggi non ha perduto nulla della sua attualità. Fa parte integrante del magistero, della missione della comunità ecclesiale.
Insomma, quella che per alcuni sembrò allora una mezza eresia, ha contribuito non poco a far superare l’antica contrapposizione fra teocentrismo e antropocentrismo, congiungendoli nella storia stessa dell’uomo. E ha anticipato quella che, per la Chiesa e per l’umanità, sarebbe diventata la questione principale nel XXI secolo, la questione antropologica.
Come sarà l’uomo di domani? Quale sarà la sua realtà? Quali saranno i suoi valori, i suoi punti di riferimento etici, i suoi modelli, i suoi stili di vita? E dunque, come pensare di poter comprendere e, più ancora, di risolvere la questione dell’uomo, prescindendo dalla questione di Dio?

12

Nel Messico anticlericale

Il nuovo Papa si trovò sul tavolo una lettera: era l’invito a recarsi in Messico, a Puebla, per la III Conferenza generale dell’episcopato latino-americano.
Non era una decisione facile da prendere.
A quel tempo, nel 1979, il Messico era ancora un Paese ufficialmente anticlericale. Nel governo, in parlamento e fra i padroni dell’economia c’erano molti massoni. Inoltre, per andare in terra messicana, il capo della Chiesa cattolica avrebbe dovuto richiedere il visto, e non gli sarebbe stato permesso di benedire all’aperto, nelle piazze.
Ma, anzitutto, c’era la preoccupazione per come affrontare il discorso sulla teologia della liberazione. Questa teologia era riuscita a esprimere l’anima profonda del cattolicesimo latino-americano; ma, «inquinata» dalle correnti più radicali, portatrici di deviazioni dottrinali e pastorali, aveva finito con l’identificare la missione evangelizzatrice con una azione rivoluzionaria.
E, infine, c’era da tener conto che nel continente predominavano ormai i regimi della cosiddetta «sicurezza nazionale». Si opponevano al marxismo, mostravano una (falsa) facciata di cristianesimo, ma in realtà perpetuavano condizioni oppressive della libertà e dei diritti umani.
Si erano levate voci che invitavano alla prudenza, o almeno a un rinvio del viaggio. Ma il Santo Padre decise per il sì. Diceva: l’episcopato mi ha invitato, e io non posso non andare. Devo approfondire con i vescovi i drammatici problemi di quel continente, a cominciare dalla teologia della liberazione. Perché bisogna chiederselo: quale sarà il futuro di questa teologia? Dovrà sfociare nel marxismo, nella lotta di classe, o invece nella liberazione cristiana, che è amore, solidarietà, scelta fondamentale per i poveri?
E poi, aggiungeva il Santo Padre, se adesso mi accolgono in un Paese anticlericale, come potranno dopo negarmi di tornare in Polonia? Potranno dirmi di no le autorità comuniste?
Così, il primo viaggio del nuovo Papa fuori dall’Italia si svolse in Messico. E fu un bene. Per la straordinaria risposta dei cattolici messicani, che in quel modo uscirono finalmente da un lungo e penoso stato di minorità. Ma anche perché Giovanni Paolo II, potendo conoscere da vicino la realtà dell’America Latina, imparò lui stesso il «linguaggio» della liberazione e le sue motivazioni più autentiche. Tanto che da lì, da quell’esperienza, uscirono le grandi linee «sociali» del suo pontificato.
Dunque, tutto cominciò da quell’incredibile festa che esplose appena il Papa mise piede a Città del Messico. Una folla immensa si riversò per le strade. Per la prima volta si sentì quel saluto ritmato, che diventerà famoso dappertutto: «Juan Pablo segundo, te quiere todo el mundo». Karol Wojtyla, sorpreso, felice, si abbandonò a quell’abbraccio che quasi lo soffocava. E, contagiato dalla spontaneità del popolo, cominciò a improvvisare, a dialogare con la gente, in una lingua che non era la sua.
Al Collegio San Michele era programmato l’incontro con gli studenti delle sole scuole cattoliche, mentre invece arrivarono decine di migliaia di ragazzi. Nel vedere quella massa, il Santo Padre diede una rapida scorsa al testo che doveva pronunciare, e capì che non era più adeguato per un tale uditorio. Non si fidava neppure del suo spagnolo, che aveva ripreso a studiare solo da un paio di mesi. Disse a monsignor Santos Abril, della Segreteria di Stato: «Io parlerò in italiano, e lei tradurrà». Invece poi, di fronte all’entusiasmo dei giovani, si mise a parlare direttamente in spagnolo. E fu un discorso che ricordano ancora oggi.
Il momento più significativo fu naturalmente quello del discorso che il Papa, a Puebla, rivolse all’intero episcopato dell’America Latina. Un discorso severo nelle riaffermazioni dottrinali sulla figura di Cristo (non è il «sovversivo di Nazareth») e sulla Chiesa (non può essere ridotta a supporto di una prassi socio-politica di origine «popolare»), ma estremamente aperto sul fronte sociale. «La Chiesa vuole mantenersi libera di fronte agli opposti sistemi, così da optare solo per l’uomo.»
Erano – e per primi le giudicarono così i vescovi e molti teologi – parole importanti, e forse anche, per certi aspetti, parole nuove. Il Santo Padre difendeva la dignità della Chiesa, la sua indipendenza dai sistemi politico-economici, dai governi. E non per semplice equidistanza, non perché aspirasse a rappresentare una «terza via» tra l’ideologia marxista e quella liberista. Ma perché la Chiesa, in forza del Vangelo, rivendicava il diritto di giudicare se i vari progetti politici fossero o no compatibili con il disegno di Dio per l’umanità.
Insomma, la Chiesa voleva rimanere al servizio dell’uomo; voleva che l’uomo fosse libero da ogni forma di costrizione, di sopraffazione, di ingiustizia, e libero di poter professare la propria fede in Dio. Appunto, la «scelta per l’uomo»!
Tutto questo riemerse a Oaxaca e Monterrey. A Cuilapan, nello Stato di Oaxaca, il Papa incontrò gli indios e i campesinos. Avendo letto la sera prima il saluto che gli avrebbe rivolto il rappresentante degli indigeni, accentuò nel suo discorso l’accusa contro quanti negavano il pane a tante famiglie: «Non è giusto, non è umano, non è cristiano…». A Monterrey, una sosta decisa in Messico, il discorso venne scritto all’ultimo. E, di fronte al mondo operaio, il Pontefice pronunciò parole pesanti contro i grandi industriali che sfruttavano i lavoratori e contro le politiche economiche del governo.
Ebbene, proprio quei due discorsi furono usati da giornalisti e commentatori per contrapporre il Papa «terzomondista» a quello «integralista» di Puebla. E, più in generale, per presentare il viaggio in Messico come l’inizio di una svolta restauratrice, anzi, di una «polonizzazione» della Chiesa universale.
Dico subito che il Santo Padre, né allora né in seguito, si fece mai condizionare dalle critiche, a maggior ragione da critiche così preconcette e strumentali. Attingeva tutto dalla preghiera, dall’incontro con il Signore; e, seguendo il Vangelo, sapeva anche quale cammino intraprendere, e su quale strada condurre la Chiesa, tirando dritto senza guardare né a destra né a sinistra. Sempre, e in tutto, imitava Cristo, e cercava di essere il buon pastore del gregge. Era un uomo libero, interiormente libero, e questo gli dava tranquillità.
Conservatore? Tradizionalista?
Quelle critiche partivano dal presupposto che un Papa che veniva dalla Polonia dovesse essere per forza così. Che assurde semplificazioni! Che giudizi sommari, offensivi! Allora è vero che, in un certo mondo occidentale, allignava qualcosa che si potrebbe chiamare «complesso di superiorità». E cioè, secondo alcuni, dall’Est non poteva venire niente di buono; là c’erano cittadini di seconda categoria.
Conservatore? Tradizionalista? Ma che significa?!
Giovanni Paolo II era un tradizionalista nelle questioni che andavano impostate in modo tradizionale. Nella Chiesa la Tradizione è una cosa molto importante. Abbiamo due fonti della Rivelazione: la Sacra Scrittura e la Tradizione. Oltre a queste, c’è la tradizione teologica, ci sono le tradizioni nazionali, la cultura, la Chiesa. Una nazione che non avesse le sue radici perirebbe, come un albero. E infatti, il Santo Padre cercò di coltivare molto e di difendere le radici dell’Europa cristiana.
Conservatore? Tradizionalista?
Bisognerebbe dire la stessa cosa in riferimento al campo morale. Karol Wojtyla, in questo, era molto moderno. Lo era già da molti anni, da quando nel suo primo libro, Amore e responsabilità, aveva proposto una concezione personalistica dell’amore, trattando della sessualità e dei suoi aspetti più scottanti, come il reciproco scambio di piacere tra marito e moglie nel rapporto sessuale, la vergogna del nudo, la frigidità femminile, non di rado conseguenza dell’egoismo maschile; e ne aveva scritto con parole sicuramente audaci per un vescovo, e comunque nuove, sul piano scientifico, per quei tempi.
E poi continuò a esserlo, molto moderno, anche da Papa: lo era nell’argomentazione, nell’affrontare le questioni, e specialmente lo era per il nuovo sguardo che gettava sulla dottrina sociale. Ove occorreva, era un progressista; e, là dove era necessario, rimaneva un tradizionalista, e nel senso giusto.
Ecco perché era un Papa che non diede mai per scontata alcuna delle cosiddette «verità» che allora dominavano il mondo e la storia. Per esempio, che l’uomo...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Una Vita con Karol
  3. Frontespizio
  4. Citazione
  5. Prefazione: Quel velo sul suo volto…
  6. Prima Parte: Gli anni polacchi
  7. Seconda Parte: Gli anni del pontificato
  8. Indice