Lo stato canaglia
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Lo stato canaglia

Come la cattiva politica continua a soffocare l'Italia

  1. 252 pagine
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Lo stato canaglia

Come la cattiva politica continua a soffocare l'Italia

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Viviamo, si dice, in un Paese libero. Nulla di più falso: oggi in Italia tutto è vietato tranne ciò che è esplicitamente consentito. Da Nord a Sud, i cittadini si trovano ostaggio di uno Stato potentissimo, a cui un'infi nità di regolamenti e decreti, imposte e balzelli permette di infi ltrarsi in ogni recesso della vita quotidiana: dalle leggi sulla procreazione a quelle sulla prostituzione, dai meandri della giustizia all'autovelox. Un'Entità che governa, senza averne delega, la nostra esistenza ma che è nel contempo abbastanza debole da trovarsi nelle mani di una oligarchia incolta e becera, seppure voracissima. Intanto, nell'economia gravata dalla crisi, dilagano le distorsioni del mercato, dal canone televisivo alla vicenda Alitalia, passando per "liberalizzazioni" che sono solo una cortina di fumo di dirigismo e demagogia. A fare le spese di provvedimenti di salvataggio che a stento nascondono le eterne logiche di interesse, al solito, è il cittadino tassato e vessato, inibito nelle sue libere iniziative. E costretto a guardarsi continuamente le spalle, perché inseguito da un potere occhiuto quanto incapace di gestire le risorse e di produrre efficienza e innovazione. In questa spietata analisi del declino culturale, politico ed economico italiano, Piero Ostellino presenta una preoccupante carrellata di nomi, fatti e dati. Denuncia la latitanza del pensiero liberale, asfissiato da collettivismo e corporativismo. Torneranno mai in Italia le idee, e le prassi, dell'autonomia, della responsabilità individuale, della certezza della pena? La risposta non è consolante, anzi è un durissimo j'accuse rivolto alla pessima politica cui permettiamo di governarci. Ma prendere atto del disastro in corso è un'occasione per riflettere e provare a salvare quel che resta della nostra democrazia. PIERO OSTELLINO si è laureato in Scienze politiche all'Università di Torino con Alessandro Passerin d'Entrèves e Norberto Bobbio. Giornalista, è stato corrispondente da Pechino e da Mosca e direttore del "Corriere della Sera", giornale del quale oggi è uno dei più apprezzati opinionisti. Il suo libro più recente uscito per Rizzoli è Il dubbio (2003).

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858601402
Argomento
History
Lo Stato canaglia
Introduzione
Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione, pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell’Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l’Italia oggi.
C’è l’Italia degli italiani e c’è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c’è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato. Per l’individualismo metodologico, i soggetti collettivi – le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera – non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l’interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l’utilità sociale, l’interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica, la quale altro non è, in una società chiusa e illiberale, che il nome che si dà alla volontà di dominio di uomini su altri uomini.
Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch’io che l’individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell’Italia in due – l’Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l’Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data – è, dunque, solamente un artificio retorico per spiegare il senso di questo libro.
Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell’autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l’Italia al plurale. Che «si arrangia», che – barcamenandosi di volta in volta fra le macerie dell’Italia come soggetto collettivo – se la cava. Questi italiani sono il paradigma schizofrenico – che essi hanno ritagliato su se stessi, a volte vergognandosene, altre facendosene vanto, come un abito mentale e sociale su misura, unico nel suo genere al mondo – di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l’ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco.
La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici – ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l’(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese – sono l’Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l’ideologia come falsa coscienza – fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista – hanno imposto agli italiani.
Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca – che cambia qualcosa per restare sempre la stessa – è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato. Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l’ambigua pretesa che sia rispettato; dall’altro, c’è la tacita esenzione da ogni vincolo d’obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l’8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l’armistizio.
È di questa Italia incasinata e un po’ cialtrona, intimamente illiberale, che il libro parla. Non per fare l’elogio degli italiani come singoli individui – che non sono migliori dell’Italia come soggetto collettivo, bensì ne rappresentano, al tempo stesso, l’antitesi privata e la manifestazione pubblica – ma per spiegare l’incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell’Occidente capitalista.
Intendiamoci. Il libro non è l’elogio dell’antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell’invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia».
L’eccessiva estensione della sfera pubblica – che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale – è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell’individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione.
Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in libera competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto – mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione – che si sostanzia la società aperta.
Il liberalismo non è una dottrina chiusa – che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti – ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all’interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia, alla sola condizione di non impedire ad altri di fare altrettanto. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c’è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci.
1
Democrazia e liberalismo
Il dispotismo democratico
Con la Rivoluzione francese per la prima volta ha fatto irruzione sulla scena politica mondiale la democrazia in un grande Paese, la cosiddetta «democrazia di massa», che si concreta istituzionalmente nella democrazia rappresentativa. È l’inizio della democrazia moderna.
Democrazia significa «potere del popolo». Tuttavia nella democrazia moderna non governa tutto il popolo, bensì la maggioranza. Nella democrazia rappresentativa, il popolo ha il potere di governare, ne ha la titolarità, il diritto; ma l’effettivo potere – che nella democrazia degli antichi era diretto – è dei suoi rappresentanti, che ne hanno l’esercizio. Il passaggio dal diritto di governare al potere effettivo di governare è sancito dalle elezioni (che si tengono secondo le procedure previste dalla legge).
Qui si chiude il primo cerchio della democrazia. Governa chi ha vinto le elezioni. Il solo modo di evitare di essere governati da chi non ci piace è non votarlo. Dopo le elezioni, infatti, i governanti sono i rappresentanti del popolo tutto intero, anche di chi non ha fatto parte della maggioranza che li ha espressi. È la democrazia come è, non come si vorrebbe che fosse. Qui sta tutta la differenza fra la realtà «effettuale e perfettibile» e la sua negazione in nome di una società immaginaria, che proietta sempre più lontano, nell’utopia, l’impossibile realizzazione della società perfetta. Per dirla con Winston Churchill, la democrazia è «il male minore»; non è, come ha scritto realisticamente Norberto Bobbio, «il bene assoluto» ma solo quello «possibile».
Chi ha vinto le elezioni non ha il diritto di governare come vuole. È qui che l’attributo «liberale» si rivela più importante del sostantivo «democrazia», grazie a quel marchingegno che si chiama costituzionalismo: le regole del gioco, vincolanti per tutti, a garanzia della/delle minoranze.
Da noi, a vigilare che ciò avvenga ci sono i «pesi e contrappesi» delle altre istituzioni. Il Parlamento, che può votare contro le leggi volute dal governo; il presidente della Repubblica, che le può rinviare alle Camere per vizio di costituzionalità; la Corte costituzionale (detta Suprema, in altri Paesi), che le può dichiarare nulle perché, a suo motivato giudizio, incostituzionali; l’ordine giudiziario (che applica le leggi ordinarie). La separazione dei poteri è il meccanismo costituzionale che limita i singoli poteri dello Stato grazie alla loro contrapposizione.
E qui si chiude il secondo cerchio della democrazia. Se le istituzioni preposte al vaglio del rispetto delle regole del gioco tacciono, le leggi promosse dal governo e approvate dal Parlamento restano criticabili quanto si vuole, ma sono legittime. È lo Stato come è nella Costituzione scritta; non come si vorrebbe che fosse secondo la «Costituzione materiale» e valutazioni extra e pregiuridiche (morali). Fa tutta la differenza fra lo Stato di diritto e lo Stato etico. Secondo Machiavelli, la morale è distinta dalla politica, che gode di un suo statuto autonomo; confonderle è convinzione diffusa, ancorché sbagliata, fra la gente comune. L’uomo politico e l’intellettuale che ne teorizzino la commistione sono già nell’anticamera del totalitarismo.
È, però, a completamento del secondo cerchio della democrazia rappresentativa che emerge una contraddizione. I rivoluzionari del 1789 (diciamo meglio ancora, i giacobini) hanno commesso l’errore di credere che le libertà dei governati sarebbero state meglio garantite aumentando il potere dei governanti attraverso la cessione di gran parte dei diritti individuali al titolare del monopolio della forza (e della sanzione) legittima, lo Stato. Il successo delle dottrine socialistiche, che hanno a proprio fondamento valutazioni morali, extra e pregiuridiche, e il contemporaneo arretramento del liberalismo classico hanno trasformato i rappresentanti del popolo in una sorta di nuova aristocrazia che si identifica con lo Stato stesso, che «si fa Stato», e ha esteso a dismisura i propri poteri.
Col passaggio dal liberalismo classico, il liberalismo forte, della libertà «da» come non impedimento, al liberalismo debole, della libertà «di» come proliferazione dei diritti collettivi – versione concorrenziale della socialdemocrazia, che non è una brutta parola, ma è pur sempre altra cosa rispetto al liberalismo classico – le libertà si sono considerevolmente ridotte, l’individuo è oggi meno libero. Dal punto di vista marxista, questa limitazione continua a essere percepita come violenza di una classe sociale su un’altra; dal punto di vista liberale, è violenza dello Stato sull’individuo.
È (anche) il risultato della transizione dallo Stato garante dei diritti individuali, lo Stato liberale, allo Stato sociale, tutore dei diritti collettivi, lo Stato democratico. Ciò che Alexis de Tocqueville e Benjamin Constant hanno chiamato «dittatura della maggioranza».
Queste sono, in modo molto schematico, le ragioni teoriche e le cause sociali e politiche della crisi che, oggi, la democrazia rappresentativa attraversa un po’ ovunque.
La Casta come alibi
Da noi la situazione è più seria. Con una di quelle acrobazie concettuali che caratterizzano la nostra cultura po...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Lo stato canaglia
  4. Elenco delle opere citate
  5. Indice dei nomi e delle opere
  6. Indice