Tre domande/1
Polo escluso o polo occulto?
Ma davvero «sdoganati»? Davvero gli uomini del partito che Gianfranco Fini ha ereditato da Giorgio Almirante erano il «polo escluso» della politica italiana (come dice il titolo di un ottimo saggio sul Msi scritto da Pietro Ignazi per Il Mulino nel 1989), rimesso in gioco da Berlusconi dopo cinquant’anni di attesa? A osservare la storia (visibile e sotterranea) degli ultimi decenni e a leggere molte pagine di carte processuali che di quella storia hanno dovuto occuparsi, si direbbe proprio di no. Altro che «polo escluso»: gli uomini del Msi-An sono semmai, fin dai primi anni del dopoguerra, il «polo occulto» della politica italiana.
L’opposizione di destra, per cinque decenni tenuta lontana quasi del tutto dal «potere visibile», ha in realtà sempre cogestito una larga fetta di «potere invisibile». Il Msi è stato coinvolto infatti fin dalla sua nascita nella gestione del potere dello Stato, in particolar modo nella conduzione dei suoi apparati più segreti e delle operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini.
È esistito dunque in Italia anche un consociativismo di destra. Se quello di sinistra ha accettato di spartire piccole quote di potere, quello di destra ha addirittura gestito parte importante di delicatissimi apparati dello Stato e si è assunto l’onere di compiere i «lavori sporchi» del sistema. Dunque il primo problema per Alleanza nazionale, che ha portato gli uomini provenienti dall’esperienza del Msi entro la soglia del gioco democratico e fin dentro il Pdl, non è la sua eredità storica e ideologica, il rapporto con il fascismo, il regime di Mussolini e la Repubblica sociale.
Questo è certo un problema, ma non il più rilevante. Nell’anomalia italiana, di quest’Italia fino a ieri terra di confine e di scontro tra l’Occidente e il blocco sovietico, è un’altro il nodo più drammatico: sciogliere il grumo ancora oscuro costituito dai rapporti tra gli uomini della destra missina – di cui oggi Alleanza nazionale, ormai componente del nuovo partito del centrodestra, il Popolo della libertà, è l’erede politica e storica – e gli apparati statuali, italiani e stranieri, che hanno scritto la «storia segreta», occulta e sotterranea, del Paese. Una storia fatta di finanziamenti illegali, di apparati sottratti al controllo democratico, di manovre eversive, di stragi, di centinaia di morti senza colpevoli, di patti inconfessabili con formazioni criminali, di doppi giuramenti e doppie fedeltà: una storia, in sostanza, di negazione della democrazia e della sua trasparenza, in nome di un «bene superiore», di un assetto di potere da garantire a ogni costo.
Dunque non è innanzitutto il passato remoto, dal sansepolcrismo a Salò, a interrogare oggi il Pdl che ha inglobato gli uomini e la storia di Alleanza nazionale. Ma il passato recente, dagli accordi segreti Nato del dopoguerra fino al presente. Se sui rapporti con il fascismo alcuni uomini di An hanno almeno provato a fare i conti, sul rapporto con la storia segreta d’Italia nessuno di loro ha neppure tentato di aprire una riflessione che vada al di là delle negazioni e dei luoghi comuni.
È una questione di democrazia che resta aperta nel Paese. Amnesie e rimozioni, silenzi, bugie e scheletri lasciati negli armadi sono destinati a pesare irrimediabilmente non già sul destino di un partito o di uno schieramento, ma sulle sorti dell’intero gioco democratico.
Sono ormai molteplici le testimonianze che raccontano lo scenario della «guerra non ortodossa» teorizzata dalle centrali politico-militari occidentali e combattuta contro il comunismo, senza esclusione di colpi, a partire dal dopoguerra, con le punte più drammatiche tra gli anni Sessanta e i Settanta, ma trascinata fino (almeno) all’esaurimento degli anni Ottanta. Sono stati decenni di illegalità diffusa, manovre eversive, depistaggi, stragi impunite, in un quadro di sovranità limitata: ferite profonde alla democrazia.
A combattere questa guerra segreta sono strutture miste, militari-civili, sottratte al controllo degli istituti democratici e dotate di licenza d’uccidere. Gran parte del personale politico e militare di queste complesse strutture, sia sul fronte legale-visibile, sia su quello illegale-occulto, fa riferimento agli ambienti della destra e, seppur spesso in maniera ambivalente e conflittuale, al Movimento sociale italiano.
Guardano al Msi i generali più importanti delle Forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloja, Capo di stato maggiore dell’esercito. È lui a istituire i «corsi d’ardimento» che formano «migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva», secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti e Guido Giannettini, riportata nella requisitoria firmata dal pm di Bologna Paolo Giovagnoli nel 1994.
Un uomo-chiave dei servizi segreti italiani, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale. Miceli fu capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973).
Quanti generali e altissimi ufficiali approdano alle file del Msi: da Giovanni De Lorenzo (quello del piano Solo) a Gino Birindelli, fino (in tutt’altra situazione) ad Ambrogio Viviani e Luigi Ramponi. E quanti uomini della destra hanno lavorato (apertamente o in maniera «coperta») per i servizi segreti, da Miceli a Rauti, da Giannettini a Stefano Delle Chiaie, da Giano Accame a Piero Buscaroli.
Ma andiamo con ordine. La vocazione eversiva della destra, non contro lo Stato, ma dentro questo Stato, viene da lontano. È quanto sostiene, portando più d’un esempio, Vincenzo Vinciguerra. «Il Msi, fin dalla sua fondazione» sostiene Vinciguerra nel suo scritto inedito L’Organizzazione «nasce come forza politica dalla quale reclutare, all’occorrenza, giovani provenienti dall’esperienza militare della Repubblica sociale italiana, in grado di impugnare le armi in difesa, stavolta, dell’ordine americano. Il suo inserimento organico, come partito che conta migliaia di aderenti, nei piani segreti degli stati maggiori alleati, approntati in funzione anticomunista, può farsi risalire al 1947.» È proprio Vinciguerra che per primo, criticando la formula di Ignazi, afferma che i missini non sono il «polo escluso» della politica italiana, ma semmai il «polo occulto».
Il 18 aprile 1948, rivela Vinciguerra nel suo libro Camerati addio, «nella sede centrale del Msi campeggiava una mitragliatrice Breda 37, dotata di adeguato munizionamento». L’arma non «usciva dai depositi clandestini dei “Fasci di azione rivoluzionaria” o di altre formazioni paramilitari “neofasciste”, ma era stata, molto più semplicemente, fornita dall’esercito italiano sulla base dei piani di difesa (e di offesa) previsti per quel giorno», in caso di vittoria elettorale del Fronte popolare.
Poi giovani missini ben addestrati sono impiegati in «missioni speciali» e «operazioni coperte» durante il periodo del terrorismo altoatesino, «prova generale» della successiva strategia della tensione. Rivela Vinciguerra che il neofascista Tazio Poltronieri partecipa ad azioni in Alto Adige e in Austria dietro esplicito ordine impartito dal segretario del Msi del tempo, Arturo Michelini. Ed Enzo Maria Dantini, mandato dal Sifar a piazzare bombe a Innsbruck, riceve il via libera «politico» da Almirante in persona.
«Sotto la facciata di Ordine nuovo» racconta Vinciguerra «si nascondeva una struttura occulta all’interno della quale operavano personaggi come Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Paolo Signorelli e, in posizione di vertice, lo stesso Pino Rauti.» Vi sono rapporti operativi e catene di comando che coinvolgono questi «irregolari» nazifascisti, ma partono da uomini degli apparati dello Stato e dei servizi di sicurezza americani.
«Avanguardia nazionale, braccio armato del Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, e Delle Chiaie, suo responsabile militare nazionale, non erano espressione di velleitari nostalgici, ma agivano in pieno accordo con forze della Cia, servizi ed esponenti politici italiani» scrive Vinciguerra. Il principe Borghese, ex generale della X Mas passato alla Repubblica di Salò, è stato poi presidente del Msi.
Ma le sigle utilizzate dai gruppi di destra, specialmente negli anni Settanta, sono innumerevoli. I Comitati di resistenza democratica pronti per il golpe bianco di Edgardo Sogno e il Fronte nazionale protagonista del golpe Borghese (che dovevano scattare in reazione agli attentati neri fatti passare per «stragi rosse») – si legge nella requisitoria Giovagnoli che conclude nel 1994 l’ultima inchiesta sulle stragi dell’Italicus e di Bologna – sono «miscugli di civili e militari armati contro ogni ipotesi di accesso delle sinistre alla direzione del Paese. Hanno operato sotto la direzione di uomini del ministero dell’Interno, di ufficiali dell’Arma dei carabinieri e dei servizi segreti».
Gli esempi concreti non mancano. Armando Degni è un personaggio che nel 1967 «firma su un documento classificato “segretissimo” una dichiarazione d’impegno, ricevendo il mandato di assolvere i compiti militari speciali nell’ambito dell’organizzazione militare speciale dipendente dallo Stato maggiore della Difesa collegata alla Nato». Ebbene Degni, scrive Giovagnoli, «è un perfetto neofascista, militante contemporaneamente nel Msi di Giorgio Almirante e nella formazione eversiva e terroristica di Ordine nuovo».
Non è un caso isolato. Anche a Milano, secondo la testimonianza di Vinciguerra, i capi del partito Franco Servello e Gastone Nencioni, elementi di spicco del gruppo dirigente nazionale del Msi, sono sempre perfettamente informati delle attività del gruppo La Fenice di Giancarlo Rognoni, che operava invece sul fronte illegale e terroristico. Già nel 1968, alla vigilia della strategia della tensione, i parlamentari missini Servello e Giorgio Pisanò si occupano di reperire denaro per le formazioni di estrema destra. In particolare Servello partecipa a riunioni con industriali dell’area milanese – scrive il giudice Salvini – per convincerli a finanziare i gruppi fascisti, «i soli che potessero salvaguardare i loro interessi anche con sabotaggi da addossare alle sinistre».
Ma il gioco di Tedeschi non è un’eccezione. Anche Giorgio Almirante, per decenni guida indiscussa del Movimento sociale, teorico della «destra in doppiopetto», gioca in realtà su più tavoli: da una parte ha rapporti con gli uomini di destra dentro l’esercito e gli apparati statuali, dall’altra mantiene contatti con i personaggi dell’ala estrema, anche quando questi sono ufficialmente latitanti e ricercati.
Capita con Delle Chiaie. Gaetano Orlando, braccio destro di Carlo Fumagalli (il comandante del gruppo terroristico di destra Mar), rivela ai magistrati di Bologna che Almirante, da segretario del Msi, incontra più volte, segretamente, Delle Chiaie: gli incontri avvengono nel 1973, a Roma, «per discutere questioni strategiche». Delle Chiaie, del resto, latitante in Spagna, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977 incontra anche Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno. Secondo quanto racconta Orlando, la visita di Cossiga serve per pattuire scambi di favori tra servizi italiani e servizi spagnoli, di cui si fa garante Delle Chiaie. (Quei «favori» comprendevano forse anche forniture di armi e azioni militari degli irregolari italiani contro i baschi.)
«Ho partecipato ad altre riunioni in Spagna» ricorda Orlando. «A una di queste mi venne presentato Federico Umberto D’Amato», il prefetto-gourmet anima nera dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno fin da...