Il revisionista
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Il revisionista

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Il revisionista

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"Siete voi giovani che dovete tirare i sassi nei vetri. Così, quando i vetri si rompono, noi vecchi ci rendiamo conto che era il momento di cambiarli. Per ringraziarti, mio caro spaccavetri, ti darò una borsa di studio." Così, nel maggio 1959, Ferruccio Parri si rivolgeva a un giovane di ventitré anni, non ancora laureato: quel giovane era Giampaolo Pansa. In questo libro il giornalista racconta la sua avventura umana e intellettuale, nata nel segno della nonna, Caterina Zaffiro vedova Pansa, che con il suo fastidio per comunisti, democristiani e fascisti è stata, senza saperlo, un esempio di revisionismo anarchico imposto dalla povertà. Dalle stregonerie di nonna Caterina si passa all'infanzia nella guerra civile. Giampaolo aveva otto anni, e con la memoria dei bambini ha fotografato quel tempo: i partigiani fucilati, i fascisti ammazzati, ma anche le ragazze che ballavano nude ai festini dei tedeschi e poi alle baldorie degli americani. Il destino di Pansa si compie quando, dopo le mille pagine della tesi sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, viene assunto alla "Stampa". Decenni di lavoro nei grandi giornali, di incontri con i big politici e i direttori famosi, che l'autore narra nei loro lati nascosti: Giulio De Benedetti, Italo Pietra, Alberto Ronchey, Piero Ottone, Eugenio Scalfari e Claudio Rinaldi. A colpire sono i personaggi inattesi: Gianna, la fascista rapata dai partigiani, la saggezza di Borghese, comandante della X Mas, Almirante dagli occhi magnetici, il doppio Fortebraccio dell'"Unità". Ma a dominare è il maledetto Pansa. Inviso alla sinistra ottusa per i suoi libri sulla guerra civile e amato da chi ha infranto il silenzio imposto dai vincitori. Ecco un settantenne che ci dà un libro scritto con la schiettezza allegra del giovane spaccavetri di un tempo. GIAMPAOLO PANSA, nato a Casale Monferrato nel 1935, scrive per "Il Riformista". Ha pubblicato numerosi saggi e romanzi di grande successo. Tra questi ricordiamo: Il sangue dei vinti, La Grande Bugia, I Gendarmi della Memoria e I tre inverni della paura.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858601426
Argomento
Geschichte
Il revisionista

Al lettore

Un giorno un amico mi ha chiesto: «Non ti irriti quando ti danno del revisionista?». Gli ho risposto: «All’inizio lo ritenevo un mezzo insulto. Negli incontri con il pubblico mi definivo un completista. Per spiegare che volevo scrivere della guerra civile senza le omissioni imposte dalla retorica sulla Resistenza e dagli storici di sinistra. Poi, libro dopo libro, la parola revisionista ha cominciato a piacermi. E ho iniziato a usarla. Anzi a rivendicarla con orgoglio. Se qualcuno oggi mi domanda se sono un revisionista, rispondo: sì, lo sono, e vorrei diventarlo sempre di più».
Essere revisionista vuol dire cercare la verità su un’epoca della storia, nel mio caso la guerra civile italiana fra il 1943 e il 1948. Ma se penso a tempi più lontani, per esempio alla Rivoluzione francese, vedo una schiera di revisionisti ben più agguerriti e ferrati di me. Tuttavia, da dilettante della revisione storiografica, ho avuto la faccia tosta di lavorare su terreni che l’egemonia culturale del Pci aveva sempre dichiarato intoccabili: la Resistenza, l’antifascismo, lo scontro fra il movimento partigiano e la Repubblica sociale italiana.
È da anni che mi muovo su questo campo minato dai divieti di tanti parrucconi rossi. Il racconto che qui comincia rievoca il mio percorso controcorrente. Nel descriverlo, sono partito da quando ero un bambino della guerra, all’inizio degli anni Quaranta. Sino ad arrivare ai giorni d’oggi. La Rizzoli mi aveva proposto di scrivere un’autobiografia. Però mi sembrava un progetto troppo ambizioso. Mi sono tenuto più basso e ho costruito Il revisionista.
In questo libro c’è anche il mio ritratto. Un rompiscatole, un bastian contrario, uno spaccavetri. Ho tirato sassi contro i padroni postcomunisti della storia italiana. Ho provato a scrivere le pagine che loro avevano lasciato bianche. Li ho sbugiardati. Mi sono fatto dei nemici. Ma ho scoperto molti amici: italiani per bene, stanchi di troppe menzogne e pure loro alla ricerca della verità.
I lettori che mi seguono da tempo troveranno nel Revisionista l’eco di qualche mio libro precedente. Non poteva che essere così. Le pagine che scrivi ti restano dentro, perché fanno parte della tua vita. Sono loro che mi hanno spinto a raccontare tante cose che non avevo ancora narrato. Ho tentato di metterle in ordine, sperando di creare un libro diverso e, al tempo stesso, fedele alla mia vicenda di italiano estraneo ai clan politici di ogni colore. E con il passare degli anni sempre più solitario.
Il revisionista racconta le mie esperienze e le persone che ho conosciuto nel lavoro di autore e nella professione di giornalista. È un libro affollato di esseri umani, a volte famosi, a volte ignoti ai media. Li ho incontrati in anni di ricerche, nelle vicende che ho ricostruito, nelle migliaia di lettere che ho ricevuto, nelle redazioni dove ho lavorato, nella politica che ho descritto.
Ho cercato di essere schietto soprattutto con gli eccellenti, le star, i big. Anche a costo di passare per irriverente. Del resto, mi sono sempre comportato così: mai da cortigiano e sempre da guastafeste. A pensarci bene, non è stato difficile. Non ci è voluto neppure un gran coraggio. Mi è bastato essere dignitoso. E avere un po’ di fortuna.
Insomma, la mia vita non è un romanzo. Tuttavia pure un’esistenza normale può riservare qualche sorpresa. Spero che i lettori del Revisionista non restino delusi. E ritrovino in queste pagine anche la loro storia. Soprattutto la storia di chi è stato costretto a tacere per anni dall’arroganza dei vincitori della guerra civile.
G.P.

Parte prima

1
Stregonerie

Mia nonna Caterina non era comunista. E canticchiava, beffarda: «Bandiera rossa la trionferà / sui cessi pubblici della città».
La nonna non era neppure democristiana. I preti non le piacevano, andava d’accordo soltanto con i frati francescani di un convento vicino. Li vedeva girare in sandali e senza calze, anche d’inverno. E questo li faceva sembrare poveri, com’era stata sempre lei.
Ma la Dc non era il partito dei frati, bensì dei preti. Dunque, per Caterina, andavano bocciati anche i democristi. Insieme a tutte le altre parrocchie politiche che, a suo giudizio, erano piene di mangiapane a tradimento.
«Volete sapere di che partito sono?» domandava. «Di quello della miseria.» Infatti la nonna era vissuta nella povertà più nera. Il marito, Giovanni Eusebio Pansa, bracciante agricolo, aveva avuto l’infelice idea di morire a trentotto anni, mentre zappava il campo di un padrone. E lei, Caterina Zaffiro, si era ritrovata vedova a trentatré anni, con sei bambini da tirare su senza l’aiuto di nessuno. Il penultimo era mio padre Ernesto, tre anni e mezzo. L’ultimo, mio zio Francesco, aveva appena un anno.
Giovanni e Caterina erano vercellesi, lui di Pezzana, lei di Caresana. Avevano trascorso la prima giovinezza in un mondo di risaie, di cascinali isolati, di nebbia spessa ’na curtlà, da non riuscire a tagliarla neanche con il coltello. Un mondo di contadini senza terra, inchiodato a una miseria oggi non immaginabile. Figlio dopo figlio, si erano spostati verso il Monferrato, spinti dalla fame di lavoro. Sino a fermarsi a Santa Maria del Tempio, frazione di Casale. E fu lì che Giovanni morì.
Anche per questo Caterina non amava il Monferrato. Lo considerava il posto delle sue disgrazie. Non le piacevano neppure quelli che c’erano nati. La rammento ripetere, sprezzante: «Dui munfrin, tre ladar e ’n asasin». Ogni due monferrini, tre facevano i ladri e il quarto era un assassino. Ma ho sempre pensato che anche lei sarebbe stata capace di regolarsi nello stesso modo, pur di trovar da mangiare per i sei bambini.
Rimasta vedova, non aveva voluto affidarli alla carità pubblica. Dopo aver preso atto di essere quella delle mille disgrazie, strinse i denti e si diede da fare. Cominciò a girare per i campi e a rubare quel che trovava. Si sentiva la coscienza a posto. In base al detto: “La roba dei campi è di Dio e dei santi”. Lavorò alla monda del riso. Zappò nelle vigne. Allevò i bachi da seta. E digiunò un miliardo di volte.
L’unico mestiere che non affrontò fu quello di minatore nelle cave di marna. Ma soltanto perché lì non volevano donne. A sfiancarsi in quell’inferno erano contadini poveri quanto Caterina. Monferrini onesti che, invece di fare i ladri e gli assassini, consumavano la vita sottoterra. Rischiando di morire ammazzati dal grisou. Mangiando poco o niente. Bevendo acquaccia con qualche goccia di anice.
Ritornavano a casa di notte, facendosi luce con le lampade ad acetilene. Disfatti, terrei, senza altro orizzonte che ridiscendere nel buio il giorno dopo. “I sepolti vivi” li avrebbe chiamati nel 1913 “La Fiaccola”, il settimanale socialista di Casale.
Caterina era del 1869 e alla mia nascita aveva sessantasei anni. Visse per altri undici, ma nella memoria mi è rimasto il suo aspetto di quando ero piccolo. Una donnina di ferro, secca, sempre in moto, con il carattere deciso della comandante. Vestiva di nero, con abiti lunghi sino ai piedi. Come molte donne della sua epoca e di ceto povero, nell’inverno portava mutandoni di lana fatti a mano. Ma d’estate, sotto la gonna, non aveva niente.
Ricordo la prima volta che la vidi fare pipì in piedi, sopra un tombino. Stavamo in piazza San Francesco, dove aveva condotto a giocare mia sorella e me. Stupito, le chiesi: «Che cosa succede, nonna?». Lei mi replicò, ruvida: «Non impicciarti dei miei affari!».
Caterina era la numero uno del plotoncino di donne che mi hanno cresciuto. La numero due era sua nuora, ossia mia madre Giovanna. Nata nel 1903, era una signora alta, bella, formosa, sempre elegante come le imponeva il negozio di mode che possedeva, sulla via centrale della città.
Il carattere d’oro la rendeva ottimista, espansiva, generosa. Non sapeva che cosa fosse la gnagnera, la svogliatezza malinconica. Era sempre indaffarata, anzi faragginata. Passava la giornata in negozio, il suo regno. Diceva: «Le donne comandano soltanto l’ultimo giorno dell’anno. Ma nel mio atelier io comando tutti i giorni».
Mio padre Ernesto, classe 1898, faceva il guardafili del telegrafo ed era sempre in giro a controllare e a riparare le linee telegrafiche della provincia. Ragion per cui la mia educazione era stata appaltata alla nonna. E di riflesso a un trio di donne che l’affiancavano in subordine.
La prima era una zia paterna, Erminia: ancora giovane, sposata con un particular, un coltivatore diretto come diremmo oggi. Non erano riusciti ad avere dei figli. Anche per questo lei veniva spesso in città, a casa nostra, dove di bambini ce n’erano due.
Il suo arrivo era sempre una festa. Come la mamma Giovanna, pure l’Erminia aveva un bel deuit, un garbo speciale, e un sorriso che ti faceva volare. Il volto, davvero grazioso, era cotto dal sole che le accendeva la pelle ambrata.
Siccome era piccola di statura e si manteneva fresca come una ventenne, le donne di casa dicevano di lei: «Gallina piccinina pare sempre una pollastrina». Ma la pollastrina sapeva il fatto suo. Di questa figlia, Caterina spiegava: «L’Erminietta è una furbona. Quella lì non la frega proprio nessuno. Guarda un po’ come si è fatta su il marito. Lui lavora più di un mulo e lei viene in gironda da noi».
La seconda era una vicina di casa, la Giacoma, detta Giacomina o Mina. Poco dopo le nozze, aveva perso il marito, un tizio anziano e malmostoso. Era sembrata una disgrazia a tutti, ma non a lei. La Mina aveva ereditato il giusto: soldi, due alloggi in città, cascinotta con terra in collina. In più, si manteneva bene facendo la sarta da uomo.
Lavorava in casa, da sola. E siccome era una formosetta mica male, doveva spesso respingere qualche cliente troppo voglioso di metterle le mani addosso. Ci riusciva perché di carattere era guregna, dura da masticare. Poi ringhiava: «Non sono mica una vedova allegra. E comunque lo decido io quando ho bisogno di allegria!».
Secondo la nonna, la Mina «aveva in testa più balle di una mula». A volte era una mutargnona, di poche parole, sversa, nera come un cappello. Ma adorava la nonna. E con noi bambini tornava bambina anche lei, sempre disposta a scherzare. Caterina la scrutava, scuotendo la testa: «Se quella non si prende uno che la metta in riga, con gli anni sembrerà una vecchia pazza».
La terza era una zitella sui trenta appena passati. Possedeva un negozio di chincaglierie che andava avanti da solo. Aveva un nome che diceva tutto: Regina. Era la più piaciosa del trio: alta, magra, mora, gambe da perderci la testa, capelli neri portati allo schiaffo, una bocca sensuale, sempre ben pitturata col rossetto. Era anche la più misteriosa. Poi si scoprì che aveva un paio di amanti danarosi che venivano da Alessandria, mandrogni fuori di sentimento per lei, tanto da accettare di spartirsela.
A me la Regina piaceva davvero molto. Si crede che i maschi, da piccoli, non guardino mai le donne. Ma non è sempre così. Le fotografano con gli occhi e le desiderano, senza sapere il perché. Tra le tante che vedono, in casa e fuori, ce n’è una che li manda in cimbali. Soltanto molto più tardi, la memoria gli spiegherà il segreto di quell’attrazione.
Se ci rifletto oggi, scopro che la Regina mi piaceva perché lei voleva piacermi. Si rendeva conto che la scrutavo di continuo. E si comportava come se non avessi sei, sette anni, ma diciotto o venti. Mi sorrideva in modo speciale. Mi baciava sulle guance con trasporto, lasciandomi impastato di rossetto. Senza genarsi della mia presenza, si sistemava le calze tirandosi su la gonna già corta. Con un’occhiata tutta per me, che voleva dire: hai visto che gambe?, guardale e godi.
La Regina mi attraeva anche per la voce: filenta, tagliente, da donna decisa. Non aveva paura di niente: «Sono una donna sola e devo tenermi calma, se no perdo l’orizzonte. Metto da parte i sagrin, i dispiaceri. Se una zitella non fa così, s’incammina verso l’ospizio». Sembrava disprezzare i maschi che le ronzavano intorno. Li considerava quasi tutti ruffiani, gente doppia e tripla come le cipolle. Compresi i due mandrogni che lei comandava a bacchetta.
Per la nonna aveva una vera passione. Si rivolgeva a Caterina sempre con rispetto: «Gioia mia, hai bisogno di qualcosa? Tu ordina che io faccio». Anche in casa era sempre abbigliata di tutto punto, come se aspettasse l’arrivo di uno dei morosi. Spiegava: «Mi curo perché non mi va di assomigliare alla madre del bagatto! E ho imparato che devo sempre farmi trovare pronta, sopra e sotto».
A ripensarci dopo tanti anni, mi rendo conto che Caterina e le sue tre ancelle sono state le mie maestre di vita. E mi hanno introdotto subito nei misteri dell’universo, come streghe bonarie. Avevano una cultura contadina e le ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Il revisionista
  5. Indice dei nomi
  6. Indice