I tre inverni della paura
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I tre inverni della paura

  1. 557 pagine
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I tre inverni della paura

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Nevica sangue nei tre inverni della paura. Sono le stagioni più dure della guerra civile italiana e dell'interminabile dopoguerra. Tedeschi, fascisti e partigiani combattono con obiettivi diversi, ma compiono le stesse atrocità. È questo disordine crudele a travolgere Nora Conforti. Diciotto anni, ragazza di famiglia ricca, Nora si rifugia con il padre sulle colline fra Reggio Emilia e Parma. Non immagina che proprio lì incontrerà il primo amore e subito dopo orrori in grado di sconvolgere la sua esistenza. Giampaolo Pansa ci racconta una storia che nasce da lunghi anni di ricerche e narra il duello brutale fra due totalitarismi. Quello fascista che cerca di sopravvivere con l'aiuto dei nazisti. E quello comunista che prolunga ben oltre il 25 aprile una spietata strategia del delitto. Accanto a figure che appartengono alla storia, come Togliatti, De Gasperi, i capi delle bande rosse e nere, il vescovo Socche, si muove la gente comune di quegli anni. Vittime che emergono dalle fosse segrete, fantasmi capaci di turbarci ancora oggi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858601433

Parte quarta

1

Era la metà del maggio 1944 e, all’improvviso, Nora si ritrovò davanti Paolo. Non si vedevano dalla fine di gennaio, quando il ragazzo era andato a salutarla prima di partire per Genova. Lei stava nel piccolo studio alle prese con i conti di casa. Mentre brontolava per le spese eccessive, sentì la Jacma strillare: «Signora, c’è qui il signor Morini che vuole vedervi!».
Nora buttò i registri all’aria e si precipitò verso l’ingresso, con il cuore in gola. Quando lo scorse tra le lacrime che le annebbiavano la vista, quasi gli cadde addosso. Lo abbracciò, gridando di gioia: «Sciagurato, sei vivo, vivo!». Cominciò a sbaciucchiarlo come non aveva mai fatto. E lui si lasciò baciare sulla fronte, sugli occhi, sul naso, sulle guance, sulle mani.
Erano baci di gioia e di rabbia. Nora, più lo baciava e più lo insultava: «Brutto figlio di cane! Te ne vai lontano per quasi quattro mesi e mai una notizia, una lettera, mai niente di niente! Sei un maledetto bestione che si è dimenticato di me e, per quanto ne so, anche di tuo padre».
Poi Nora lo scrutò per bene e si sentì afferrare dalla paura. Paolo sembrava un altro. Non era più il bel ragazzo cresciuto insieme a lei. Lo trovò invecchiato, smagrito, con due occhiaie da spavento. Il corpo gli ballava dentro il vestito come se l’avesse ottenuto in prestito da qualcuno assai più grosso di lui. Infine, aveva l’aria di stare sul chi va là, con un fare guardingo e insieme insicuro.
Sentendosi esaminato, Paolo borbottò, cercando di apparire quello di sempre: «Ti ringrazio dell’accoglienza, non potevo aspettarmi di meglio».
Fu in quel momento che Nora si rese conto che anche la voce era cambiata. Gli era diventata rauca e per di più Paolo incespicava sulle parole, preso da una balbuzie che non lo aveva mai afflitto.
Nora lo trascinò nel salotto e lo scaraventò sul sofà. Poi ordinò alla Jacma: «Portaci del caffè e lasciaci soli. Non voglio vedere nessuno!». Lo guardò bere con la mano che tremava. La tazzina tintinnava, ballando sul piattino. E un po’ di caffè gli cadde sulla giacca.
Nora si spaventò. «Ma stai bene?» chiese a Paolo. «Non sei malato?»
Lui scosse la testa: «No. Adesso che sono a casa tua e ti vedo, mi sento a posto».
Nora lo scrutò con attenzione, per capire se era davvero così. Rassicurata, gli disse severa: «Eccolo, il giovanotto beneducato che ci aveva lasciato per andare con i ribelli. E adesso, raccontami quel che ti è successo. Ce la fai a dirmi tutto?».
Paolo aprì la bocca due, tre volte, senza riuscire a trovare le parole. Gli ci volle un respiro profondo. E allora cominciò con un filo di voce.
«Sono partito da Parma la mattina del 30 gennaio, una giornata limpida e molto fredda, su un treno diretto a Milano. Mi ero vestito pesante, con una giacca a vento e gli scarponi da montagna. Portavo con me soltanto uno zaino con degli altri panni. Ci avevo messo anche il libretto universitario e un dizionario di italiano. Se qualcuno della Milizia mi avesse perquisito sul treno, avrei detto che andavo a Genova per studiare con un compagno di facoltà.
«Avrei voluto portare la mia rivoltella, ma ho rinunciato sempre per paura di una perquisizione. Mi sentivo in pace con me stesso, di una tranquillità totale. Avevo fatto una scelta e le andavo incontro. Adesso riconosco che ero un incosciente, perché non mi curavo di quello che poteva aspettarmi.
«Il viaggio per Genova è stato lungo e accidentato. Il treno si fermava di continuo. A ogni sosta, vedevo i pochi passeggeri scrutare il cielo dai finestrini per il timore di essere bombardati. A Piacenza ho preso il primo convoglio per Alessandria. E qui sono salito su un trasporto diretto in Liguria. Fra lunghe attese nelle stazioni e ritardi enormi, il viaggio è durato un giorno e una notte. Finalmente sono arrivato a Genova la mattina del 31 gennaio.
«Pioveva e la città mi è sembrata deserta, tranne la stazione di Porta Principe dove c’era un gran via vai di gente. Penso che molti di quei viaggiatori facessero il mercato nero. Venivano da Torino e da Milano per comprare e vendere la loro merce. In stazione ho notato una pattuglia di militi della Gnr, però sembravano occupati soltanto a scaldarsi accanto alle stufe delle sale d’aspetto.
«Non ho perso tempo. Mi sono diretto a casa di Giorgio, l’amico che mi aspettava. Abitava nel centro di Genova, in un alloggio grande e molto confortevole, da borghesi benestanti, vicino a via Assarotti. C’ero già stato quando avevamo fatto insieme delle gare di atletica leggera. Con lui ho trovato i suoi genitori. Ho capito subito che il mio arrivo non lo gradivano per niente. Il padre mi ha salutato appena. La madre si è lasciata scappare, a denti stretti: ecco un altro matto come nostro figlio, si sono messi in testa di combattere i tedeschi!
«Siamo andati a chiuderci nella stanza di Giorgio e lui mi ha raccontato quel che stava accadendo a Genova. Anche qui era già cominciata un po’ di guerriglia in città, sempre per mano dei comunisti, gli unici che si erano subito dati da fare. A muoversi erano i Gap, comandati da due universitari. Uno era Giacomo Buranello, uno studente d’Ingegneria, di ventidue anni come me. L’altro si chiamava Walter Fillak, un anno di più, iscritto a Chimica industriale. Con loro stava un ex confinato a Ventotene, un sardo, Andrea Scano, che aveva combattuto in Spagna nelle Brigate Internazionali.»
«Tre persone in tutto?» domandò Nora, stupita, interrompendo per la prima volta Paolo.
«Sì. A Genova, la guerriglia l’hanno cominciata in tre. Poi si sono aggregati altri cinque o sei giovani, pure loro comunisti. In tutto, meno di dieci uomini. Giorgio mi ha spiegato che avevano già ammazzato tre fascisti, uno alla fine di ottobre e due in dicembre. Sempre in dicembre, ci sono anche stati degli scioperi nelle fabbriche. La reazione dei fascisti non si è fatta attendere. Nello stesso mese, hanno fucilato due operai, sorpresi mentre tentavano di sabotare un tram.»
«Dimmi la verità» gli chiese Nora, «tu e Giorgio dovevate prendere il loro posto?»
«No. Lasciami continuare. Pensando che la polizia li avesse individuati, il partito ha ordinato a Buranello, a Fillak e allo Spagnolo di salire in montagna, sull’Appennino alle spalle di Genova. Dopo poche settimane, verso la metà di gennaio il Pci li ha richiamati in città, con l’ordine di colpire qualche tedesco. E così, la sera del 13 gennaio, hanno sparato a due ufficiali sotto i portici di via XX Settembre, la strada principale di Genova. Uno è restato a terra ucciso, l’altro soltanto ferito.»
«Qualcuno li ha visti scappare?»
«Sì, Buranello e Fillak c’è stato chi li ha descritti alla polizia. I fascisti hanno messo una taglia sulla loro testa. Una taglia enorme: un milione di lire. Poi è stata decisa la rappresaglia: dopo aver prelevato dal carcere otto detenuti politici, li hanno fucilati la stessa notte dell’attentato. Però ai tedeschi non bastava ancora. Due giorni dopo, durante una retata, sono stati catturati quarantadue antifascisti, subito deportati in Germania.»
Nora guardò Paolo costernata: «Otto fucilati e quarantadue mandati in un lager per un ufficiale tedesco ucciso e uno ferito! È un prezzo assurdo. Chi ha deciso l’attentato non aveva previsto quel che sarebbe successo? O lo aveva messo in conto?».
Paolo rimase assorto per lunghi istanti. Quindi le rispose: «Qualche mese fa ti avrei detto con sicurezza che nella guerra partigiana questi sono i rischi da correre. Però dopo gli orrori che ho visto nel frattempo, sarei più incerto nella risposta».
«Ma che cosa hai visto di tanto terribile?»
«Lasciami raccontare con ordine… Giorgio e io abbiamo lasciato Genova nei primissimi giorni di febbraio, in bicicletta. Guidati da un operaio più anziano di noi e diretti verso l’Appennino. Dopo qualche ora, siamo arrivati a una base partigiana sulle falde di un monte, il Tobbio. In quella zona era nata una formazione garibaldina, organizzata sempre dal Pci genovese: la 3ª Brigata Liguria. C’era anche un’altra banda, autonoma, più piccola, in seguito chiamata Brigata autonoma militare Alessandria. Ho capito subito che i rapporti fra i due gruppi non erano molto buoni. E ben presto, a farli peggiorare sono spuntate delle questioni politiche.
«Noi eravamo destinati alla banda comunista. Il comando era affidato a un ragioniere genovese, capitano di complemento negli alpini: Edmondo Tosi, chiamato Ettore. Il commissario politico era un meccanico comunista, anche lui di Genova: Rino Mandoli, un uomo sulla trentina che era già stato in carcere per antifascismo.»
«Fammi capire, Paolo: avevate due comandanti?»
«In un certo senso, sì. In tutte le formazioni garibaldine c’è il commissario comunista, una specie di controllore per conto del partito. Comunque, Giorgio e io siamo stati assegnati all’8° Distaccamento, l’ultimo, sistemato in una cascina chiamata la Lombarda. Il nostro comandante era Scano, lo spagnolo, e il commissario proprio Buranello. Tanto lui che Fillak erano risaliti sull’Appennino, dopo aver sparato ai due ufficiali tedeschi.
«Qualche settimana dopo il nostro arrivo» proseguì Paolo, «il Pci ha ordinato di nuovo a Buranello e a Fillak di rientrare in città. Questa volta per appoggiare lo sciopero proclamato per il 1° marzo nelle fabbriche di Genova, Torino e Milano. A Genova lo sciopero è fallito. Mentre Fillak riprendeva la strada verso il Tobbio, Buranello ha deciso di restare: voleva tentare qualche colpo per dare coraggio agli operai.
«Il 2 marzo, mentre si trovava in un bar, Buranello è stato riconosciuto da tre poliziotti della squadra politica che gli hanno chiesto i documenti. Lui ha reagito sparando e li ha feriti. Purtroppo non è riuscito a fuggire ed è stato catturato da quattro militi della Gnr. Lo hanno portato in questura e torturato in modo barbaro, anche con la corrente elettrica nei testicoli. Infine lo hanno fucilato la mattina del 3 marzo, in uno dei forti che circondano Genova.
«Qualcuno ci ha raccontato che in realtà, per non parlare sotto le torture, Buranello si era ucciso, gettandosi da una finestra della questura. Non so dirti quale sia la verità. Ma quando sul Tobbio è arrivata la notizia della sua fine, ne siamo rimasti sconvolti. Però nessuno ha deciso di andarsene.»
«Forse era meglio se almeno tu ritornavi a casa» osservò Nora.
Paolo la scrutò, risentito: «Come avrei potuto? Non eravamo saliti sul Tobbio per una gita in montagna. Quella era la guerra che volevamo combattere ed era inevitabile che ne scoprissimo la brutalità. Non ce ne siamo andati neppure quando, diciotto giorni dopo la morte di Buranello, la Brigata Liguria ha perso il commissario politico.
«In uno scontro con una pattuglia della Gnr nei pressi di un piccolo lago, quello del Gorzente, Mandoli è stato ferito e catturato. I fascisti lo hanno portato ad Alessandria e poi a Genova, dove è stato consegnato alla polizia tedesca. Non conosco che fine abbia fatto. So soltanto che i due partigiani arrestati con lui sono stati giustiziati subito dopo la cattura, sul ponte di Lerma, un paese sopra Ovada.
«Per noi sono state perdite pesanti. Ma la brigata aveva problemi ben più grandi. Gli uomini erano troppi: un centinaio alla fine di gennaio. Alla fine di febbraio siamo diventati duecento. E alla metà di marzo ci siamo ritrovati in più di cinquecento. Era l’effetto del bando di Graziani, la chiamata alla leva decisa dai fascisti. Ne avrai sentito parlare anche tu.»
«Sì. I ragazzi di tutti i paesi qui intorno li sono venuti a cercare casa per casa» disse Nora. «E parecchie famiglie hanno passato dei brutti quarti d’ora, perché i loro figli avevano già preso la strada dell’Appennino. Quelli che hanno risposto al bando non sono stati molti.»
«È accaduta la stessa cosa nella zona in cui mi trovavo io» proseguì Paolo. «I ragazzi del versante alessandrino che non volevano arruolarsi con la Repubblica sociale salivano sul Tobbio. Al punto che, in pochissimo tempo, dentro un’area ristretta, a un passo da Genova e dalle due città di Ovada e Novi Ligure, si sono raccolti più di settecento giovani, se teniamo conto anche dell’afflusso alla Brigata autonoma, che ne aveva quasi duecento. Il nostro distaccamento si è ingrandito: eravamo una sessantina. E quasi nessuno aveva un’esperienza militare.»
«Un esercito di pazzi!» esclamò lei.
«Forse sì. Raggrupparsi in tanti dentro una zona così limitata è stata un’imprudenza grave. Ma che cosa dovevano fare i comandanti e i commissari politici? Rimandare a casa quei ragazzi? Dirgli: tornate in pianura e nascondetevi o arruolatevi nell’esercito fascista?»
Nora osservò: «Sarebbe bastato che qualcuno dei vostri capi si comportasse con un po’ di prudenza».
«Dopo quello che è successo, ho riflettuto a lungo e ne ho parlato anche con Giorgio» continuò Paolo. «Sono stati i comunisti genovesi a volere l’arruolamento in massa, invece di formare tante piccole bande. Dicevano: tutti i renitenti alla leva fascista devono salire in montagna e unirsi a noi! Era un chiodo fisso, sul quale battevano di continuo. Più i numeri delle bande attorno al Tobbio s’ingrandivano, più i comunisti prevalevano sugli altri gruppi antifascisti. Si sono mossi come se avessero dovuto fondare un partito e non creare delle bande partigiane. Quello è stato il primo errore.
«Considera poi che molti si illudevano sulle vere intenzioni dei tedeschi. Erano convinti che non avrebbero mai osato uscire da Genova e spingersi sull’Appennino. Si sentiva dire: ci vorrebbero troppe forze e loro non le hanno! Purtroppo, però, i tedeschi sapevano tutto di noi. Eravamo noi a non sapere niente di loro. Ma se anche avessimo saputo quel che stavano preparando, che cosa avremmo potuto fare?»
«Non so quello che stessero preparando e adesso me lo dirai» lo assalì Nora. «Ma una cosa potevate farla: lasciare la montagna, spostarvi da un’altra parte e mandare i comunisti al diavolo.»
«Impossibile. Ormai eravamo in troppi. Te lo ripeto: settecento persone, forse di più. Un numero enorme» le rispose Paolo, all’improvviso rabbioso.
«Immagino il caos» osservò Nora.
«Hai usato la parola giusta: un caos. Mancavano le armi. Avevamo appena trecento fucili. Anche per le mitragliette Sten, lanciate dagli inglesi, c’erano pochissime munizioni. Aggiungi che di cibo se ne vedeva ben poco: riso, polenta e castagnaccio. In compenso, l’euforia era alle stelle. Quasi tutti erano convinti che inglesi e americani sarebbero sbarcati presto in Liguria. Nessuno immaginava il rischio che stavamo correndo. E i nostri comandanti, se si ponevano il problema, non lo davano a vedere. Anche per questo era faticoso obbligare le reclute a un minimo di disciplina. Del resto, una formazione partigiana di quelle proporzioni non s’improvvisa in un paio di mesi.»
«Ma i vostri capi che cosa facevano?»
«Quello che potevano. L’attività militare era scarsa. C’è stato un assalto a un posto di avvistamento aereo della Gnr sul monte Zuccaro, dove abbiamo giustiziato otto militi fascisti che si erano rifiutati di passare con noi. Una crudeltà inutile, bastava disarmarli e farli sloggiare. In marzo sono stati uccisi i segretari del fascio di Tagliolo Belforte e di Casaleggio Boiro, due paesi dell’Ovadese. Persino l’istruzione all’uso delle armi era inesistente. Aggiungi un ultimo fatto: i comandanti che non appartenevano al Pci, primo fra tutti Ettore, si trovavano in conflitto continuo con i commissari comunisti.
«I commissari erano quasi tutti degli operai, sulla trentina o più anziani: militanti formati nell’emigrazione, in carcere o al confino. L’idea che mi sono fatto è ch...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Parte quarta
  9. Parte quinta
  10. Parte sesta
  11. Parte settima
  12. Parte ottava
  13. Parte nona
  14. Ringraziamenti
  15. Sommario