L'altra verità
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L'altra verità

  1. 160 pagine
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L'altra verità

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Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del "sentire". Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un'onda che alterna la lucidità all'incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo "sperdimento", ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l'abitudine, l'indifferenza e la paura del mondo che c'è "fuori".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858644355

PREFAZIONE

Il Diario di una diversa di Alda Merini non è un documento, né una testimonianza sui dieci anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio. È una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio – non un luogo – in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale numinoso dell’essere umano.
Dentro il manicomio tutto è sacro, ogni oggetto è alacre e vivo, può essere tormentoso o amoroso, ma in ogni modo reca in sé una sconvolgente volontà di significato, è ustionato e consacrato da un destino. Quello spazio è insieme chiuso e spalancato; esclude il “mondo” ma penetra in una profondità vertiginosa, donde sale una intollerabile dolcezza di fiamme e di luce. In quello spazio il tempo stesso viene meno, le notti si dilatano, i giorni non hanno limite né scansione, gli eventi, mossi unicamente dalla violenza del nume, continuamente accadono, lo stesso gesto, l’accadimento ripete se medesimo in una sorta di sublime balbuzie.
Nello spazio che gli uomini sentenziano “malato” nulla accade che non sia apparizione, che non porti seco una dimensione enorme di bagliore, e non venga avvolto in una gigantesca, e mostruosa vestizione d’ombra. Questo libro, nato da una esperienza da cui non pare lecito salvarsi, ha in sé una elastica, fantastica, selvatica irruenza; la forza ilare e minatoria delle parole, delle frasi, del “loro destino di fiori” ininterrottamente propone un disegno di gioia, una nitidezza amorosa che non solo non paventa, ma sembra scegliere lo spazio infernale come luogo fatale della propria nascita e letizia.
Incredibilmente, lo scatto, la lattile consistenza verbale, offrono una sorta di sconvolgente letizia, quale è possibile solo nel luogo retto e posseduto dalle parole. Credo che di rado sia stata più fermamente sperimentata la qualità empirea della parola impegnata nella ricognizione dell’inferno; la felicità di questo testo di Alda Merini non è altro che l’incontro con la perfezione del dolore; la salvezza è il battesimo verbale della disperazione.
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Grazie alla parola, chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta, ed anzi non è mai stata esclusa dal colloquio con ciò che apparentemente è muto e sordo e cieco; la vocazione salvifica della parola fa sì che il deforme sia, insieme, se stesso e la più mite, indifesa e inattaccabile perfezione della forma. Solo angeli e dèmoni parlano lo stesso linguaggio, da sempre.
GIORGIO MANGANELLI
da «Alfabeta», Milano, settembre 1983
Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, sempre in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figliole e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano a scuola e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose. Insomma ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò, e morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire.
Improvvisamente, come nelle favole, tutti i parenti scomparvero.
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Ma, non era forse la mia una ribellione umana? non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione?
Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Dopo qualche giorno mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla. E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione.


Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
La Z. era una bonacciona. L’avevano messa lì dentro perché era stata ragazza madre e volevano disfarsene, ma non aveva nulla di folle, era quieta, e a volte persino serena. Solo quando pensava al suo piccolo si metteva a piangere e piangeva in silenzio certa che nessuno l’avrebbe compresa. Ma io la comprendevo bene. Sapevo che l’essere madre in un posto come quello diventa una cosa atroce. Perciò cercavo di distrarla.


Un giorno in giardino incontrai un prete. Ero sola e gli chiesi in che concetto Dio tenesse i poveri pazzi.
«Mah» rispose quello, «che volete, figliola. I pazzi non sono responsabili.»
«Mah», proseguii io, «se Dio ha dato il libero arbitrio perché scegliessimo il bene ed il male, perché ce l’ha tolto con la pazzia?»
Il prete rimase confuso e se ne andò borbottando, ma a me quel concetto mi rodeva dentro: perché un folle non può più essere padrone della sua volontà?
Mi chetavo solo quando pensavo a quanto fossi ignorante su questa materia.


Recentemente ho trovato in una libreria il libro dell’Adalgisa Conti, fatta ricoverare in circostanze analoghe alle mie, dove sta scritto un passo che qui voglio riportare e che mi pare molto indicativo ai fini dei delitti perpetrati nei manicomi.

Vi si legge:
D’altronde l’internamento rappresenta già di per sé una violenza enorme per la donna che, identificandosi come persona nel ruolo coperto in famiglia, sottratta a questo perde ogni punto di riferimento e ogni possibilità di essere e di riconoscersi come individuo. Il ruolo di Casalinga-moglie-madre è il solo ruolo possibile per la donna ipotizzato come naturale, come l’essenza stessa del vivere femminile.
È necessario quindi perché la donna possa ricoprire questo ruolo il rapporto con quell’uomo che scegliendola le ha consentito di realizzarsi.
Se non si rivela capace di rispondere alle sue aspettative, la vittima non è lei, che è anzi colpevole di inadeguatezza, ma il marito che ha socialmente riconosciuto il diritto di rifiutarla o di sostituirla. Esso condanna la donna alla perdita di ogni suo spazio privato e ad una vita collettiva, a violazioni continue di quella riservatezza e di quel pudore cui come “matta” non ha più alcun diritto e che pur tuttavia le vengono continuamente indicati come elementi indispensabili della sua normalità.
La vita del manicomio faciliterà la degradazione del suo corpo, divenuto strumento di una esistenza puramente vegetativa e oggetto offerto alla manipolazione e allo sfruttamento che la istituzione ne farà, impegnandolo in attività servili e degradanti.

Questo passo del libro dell’Adalgisa mi pare molto eloquente tanto più che io stessa una volta che venni sorpresa a masturbarmi fui severamente punita, in quanto le degenti non dovevano e non potevano avere istanze sessuali.


Così, per cinque lunghi anni mi adattai a quel ménage veramente pazzesco.
Ci svegliavano di buon’ora alle cinque del mattino e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che preludeva alla stanza degli elettroshock: così ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato.
Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano né sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare.
D’altra parte, trattandosi tutte di forme schizofreniche e paranoidee, ben poco ci sarebbe stato da dire con le altre malate. Ma io inspiegabilmente rimanevo lucida e attenta; io avevo voglia di qualche cosa di buono, di ancora sensibilmente umano, avevo voglia di innamorarmi: ma di chi?
I padiglioni erano ben divisi. Gli uomini stavano da una parte e le donne dall’altra, ma un giorno nel nostro padiglione entrò Pierre, un malato con un gran mazzo di rose bianche per l’infermiera, mandate dal capo, ed io mi innamorai subito di quell’ometto schivo e semplice che faceva il pittore, lì, dentro il manicomio. Cominciò così il nostro idillio ottocentesco fatto di sorrisi da dietro i vetri, di frasi approssimative, di piccoli, piccolissimi incontri ma senza alcun desiderio di amplesso amoroso. Dice Freud che l’uomo normale nel suo atto sessuale si sente continuamente “spiato” come se si ripetesse l’incesto della sua infanzia: e noi eravamo regrediti fino al complesso edipico per cui una stretta di mano equivaleva ad una aberrazione mentale. Purtuttavia io Pierre l’amavo e a lungo andare l’amore generò il suo frutto, il sano desiderio del possesso fisico.


Le notti, per noi malati, erano particolarmente dolorose. Grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe. I farmaci che ci propinavano erano o troppo tenui o sbagliati, per cui pochissime di noi riuscivano a dormire. D’altra parte, di giorno non facevamo nulla e, se la sera si era tentati di rimanere alzati un po’, subito venivamo redarguiti aspramente e mandati a letto con le “fascette”. Che cosa erano le fascette? Nient’altro che delle corde di grossa canapa, dentro le quali ci infilavano i piedi e le mani perché non potessimo scendere dai lettucci. Urlare sì, potevamo; nessuno ce lo impediva, tanto che qualche volta un malato a furia di urlare finiva col ricadere esangue sul proprio letto. Ricordo di una paziente che rimase immersa nelle proprie feci urlando a squarciagola per giorni e giorni finché non venne slegata e rimandata in libertà. La poveretta, ovviamente, non sopportava quel genere di umiliazione.

Ma finalmente qualcosa mutò dentro a quel grave inferno che era il Paolo Pini, qualcosa finì, e si apersero i padiglioni e ci venne concesso di parlare con gli uomini, e gli uomini erano contenti, e così pure le donne, perché così la vita ci pareva più varia e un po’ più verosimile.
Cominciammo a passeggiare per i giardini finché un giorno scoprii che sul braccio di una adolescente erano evidenti i segni di ripetute rasoiate.
«Ma perché tenti il suicidio?», le chiesi. La poverina non sapeva rispondermi, ma era evidente che mancava di amore e che lì certamente non l’avrebbe trovato.


In manicomio incontrai Pierre; era un uomo buono, un malato muto. Si innamorò di me e lo capii dai suoi sguardi dolci, dalle margheritine che mi regalava ogni giorno. Un giorno mi portò Giulietta e Romeo, e me lo indicava col dito sottolineando la parola Romeo. Con Pierre fui affettuosissima, capii tutti i suoi problemi e mi presi cura di lui. Pierre dipingeva bene ma non aveva materiale e perciò passavamo ore ed ore a dipingere sulla polvere dell’unico tavolo dell’istituto. E poi ci guardavamo negli occhi e mai due esseri umani furono così fratelli e si vollero così bene come Pierre ed io.
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Dopo un po’ di tempo cominciai ad accettare quell’ambiente come buono, non mi rendevo conto che andavo incontro a quello strano fenomeno che gli psichiatri chiamano “spedalizzazione” per cui rifiuti il mondo esterno e cresci unicamente in un mondo estraneo a te e a tutto il resto del mondo; mi ero fatta un concetto molto dolce e cioè che io fossi un fiore e che crescessi in un’aiuola deserta. Ma di questo non ne parlai mai a nessuno, tanto più che mi pareva un processo psicologico del tutto naturale, ma non sapevo e non mi immaginavo quanto sarebbe stato poi oneroso portare in società questo “concetto”. Di fatto la società per me era morta. Dal momento che mi aveva rifiutata e insediata tra quei rifiuti sociali non poteva e non doveva più esistere; e l’amore poi e la famiglia erano concetti che consideravo superati e triti. Tutto ciò era mera follia ma io non potevo rendermene conto, né, d’altra parte, mi si dava spazio perché io potessi modificare le mie idee.


Quel giorno, dicevo, che uscii con Pierre avvenne la prima scissione della mia mente. Mi trovai improvvisamente di fronte un uomo, un uomo nella sua interezza anche se malato e mi trovavo di fronte lo spazio della antica libertà. Entrambi sentimmo fortemente questo shock tanto che non riuscimmo a far nulla e solo ci riposammo sull’erba carezzandoci teneramente la mano e parlando di quell’ipotetico bimbo che avremmo potuto avere.
In manicomio come ho detto, il sesso è bandito come sconcezza, quasi come portatore di microbi patogeni e noi per l’appunto eravamo asessuati ma non per questo il nostro sguardo era meno carico di intesa e di sessuali domande.

Pierre

L’indomani ripresi a camminare nel parco. Ero felice, pensavo in tutta sicurezza che quel giorno avrei trovato l’amore. Ma l’amore che io immaginavo apparteneva a qualche cosa di inconsistente, qualche cosa che forse stava solo nella mia immaginazione. Invece ad un tratto un uomo piccolo dai tratti delicatissimi dalla pelle diafana mi si avvicinò e sorridendomi mi allungò la mano.
«Chi sei?», gli chiesi.
«Sono Piero» rispose, «semplicemente Piero e sono malato, come te.» Gli sorrisi, capii subito che Pierre non domandava nulla, non avrebbe voluto nulla.
«Vuoi che facciamo una corsa?»
«Oh, sì! mi sento ancora ragazzo; sai, qui non abbiamo problemi, possiamo mangiare bere e dormire, siamo soli con noi stessi...»
«Allora» dissi io, «perché mi cerchi?»
«Così, perché mi sei simpatica.»
E ripensai ad un tratto ad un vecchio amore infantile, un amore che avevo quando ero in età di sette anni e lui si chiamava Roberto ed era estremamente timido. Così come allora, ora con Pierre l’amore poteva essere un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. NOTA ALLA NUOVA EDIZIONE
  6. PREFAZIONE
  7. LETTERE A PIERRE
  8. CONCLUSIONE
  9. AGGIUNTE IN MARGINE
  10. IL TESTIMONE
  11. PER L’EDIZIONE 1997
  12. NOTIZIE BIOBLIOGRAFICHE