La sinistra è di destra
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La sinistra è di destra

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La sinistra è di destra

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La sinistra attiva ormai è seppellita. Seppellita da questi sessant'anni di stalinismo e da alcuni decenni di giustizialismo. Di attesa del podestà straniero che le risolva tutti i problemi. Stalin, i giudici, il governo dei migliori… Quali sono oggi le idee e i principi identitari della sinistra? Una domanda alla quale è diventato impossibile rispondere: nessuna idea espressa negli ultimi anni sembra diversa da quelle della destra. Secondo Piero Sansonetti, però, non si tratta di una generale caduta delle ideologie: è un problema solo italiano, frutto di cinquant'anni in cui la sinistra si è disinteressata della riflessione politica dedicandosi a una "stalinista" quanto inutile corsa al potere, alleandosi con entità esterne alla propria vocazione - da Moro alle Brigate rosse, da Blair alla magistratura - per nascondere il proprio vuoto di idee e scegliendo di affidarsi a leader destinati a regalare il Paese a Berlusconi. Attraverso retroscena inediti, riflessioni provocatorie e perfidi ritratti dei dirigenti degli ultimi cinquant'anni, Sansonetti, dopo aver vissuto in prima persona la delusione di questa deriva, porta alla luce i mali storici del nostro riformismo: l'incapacità di governare, l'inadeguatezza nell'elaborare una nuova visione politica, il rifiuto di misurarsi con la propria storia. E spiegando le ragioni di una crisi d'identità mai così grave come oggi, mostra da dove ripartire per costruire una nuova sinistra, finalmente in grado di rispondere alle sfide della modernità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642276

Capitolo 1
Il Pci cambia nome

Tangentopoli esplode nel febbraio del 1992 (e si estende in modo clamoroso nell’estate di quell’anno). Prima di Tangentopoli – che segna una svolta nella storia della Repubblica e anche degli schieramenti politici – c’è il 1989. Cioè la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo.
Questi due grandi fatti – Berlino e Tangentopoli – nella politica italiana sono strettamente connessi. In parte hanno addirittura una relazione di causa-effetto. Con ogni probabilità, non sarebbe mai stata possibile Tangentopoli se prima non fosse finito il comunismo e non fosse scomparsa, in Europa e in Italia, la paura per l’Unione Sovietica, che del comunismo era il santuario. Perché? Perché nell’Italia che va dal 1947 al 1992 c’è una particolarità che non è presente nelle altre democrazie occidentali: l’immobilità dei rapporti tra maggioranza e opposizione. Cioè il fatto che governo e opposizione sono sempre stati in mano agli stessi partiti (rispettivamente la Dc e il Pci). Questa situazione bloccata – per via di quello che fu chiamato il fattore K, e cioè la conseguenza della divisione dell’Europa in due blocchi, uno filoamericano e democratico e uno filosovietico e comunista – rendeva inamovibile la Dc dal centro del potere e impossibile il dilagare di un grande scandalo che la travolgesse. Sarebbe stato disastroso per «il sistema», e «il sistema» si difendeva e lo impediva. La fine del comunismo sbloccò il sistema politico. E di conseguenza mise in libera uscita corporazioni e anche poteri che fino a quel momento erano rimasti disciplinati nelle retrovie. Subalterni alla politica. Per esempio, come vedremo più avanti, la magistratura e l’informazione. La «liberazione» di questi due poteri, il loro assumere un ruolo da protagonisti, determina un corto circuito che incendia e poi annienta gli equilibri politici precedenti e rade al suolo la prima Repubblica.
Ma, appunto, prima che questo avvenga c’è l’Ottantanove. È difficile un’analisi seria di Tangentopoli se non si considera che cosa l’Ottantanove produsse in Italia. Naturalmente né Tangentopoli né l’Ottantanove furono «avvenimenti». Furono piuttosto dei «processi». Gli «avvenimenti», di solito, hanno una data di inizio. Tangentopoli e l’Ottantanove hanno una data di inizio e poi durano molti mesi. Anzi: anni.
L’Ottantanove, in tutto il mondo, inizia il 9 novembre del 1989, cioè con la caduta del muro di Berlino. E dura più o meno fino alla fine del 1991 (il 31 dicembre viene definitivamente sciolta l’Unione Sovietica, nata il 7 novembre del 1917 dalla Rivoluzione russa). In Italia, la fine del Ottantanove coincide con l’inizio di Tangentopoli. Coincide con tempismo quasi perfetto: l’arresto di Mario Chiesa (cioè la scintilla che innescherà l’indagine Mani pulite e in pochi mesi brucerà la prima Repubblica) è del 17 febbraio 1992. Appena sette settimane dopo la fine dell’Urss.
Il muro di Berlino, eretto nel 1961, divideva, come è noto, in due la città: a Ovest la Berlino democratica, a Est la Berlino comunista. Era controllato dalle feroci pattuglie della polizia dell’Est, e chi si avvicinava al muro per tentare la fuga verso l’Ovest veniva abbattuto a colpi di mitraglia. Nei ventotto anni in cui è rimasto in piedi, il muro ha provocato centinaia di morti.
Poi, quel 9 novembre del 1989, il nuovo primo ministro tedesco, Hans Modrow (che era stato nominato appena ventiquattr’ore prima) decide di aprire la frontiera. Chi vuole andare da Berlino Est a Berlino Ovest, e viceversa, può farlo. È un segnale clamoroso, improvviso. È l’annuncio della libertà. Quella notte stessa, migliaia di giovani prendono d’assalto il muro, che viene abbattuto a picconate.
La caduta del muro, sicuramente, coglie impreparato il Pci. Il corpo del partito, in gran parte, è ancora amico dell’Unione Sovietica. E nessuno, fino a quel momento, si è posto il quesito più importante: il comunismo è fallito? Oppure: il comunismo è finito?
Non è un elemento secondario, l’impreparazione del Pci. Perché è esattamente la stessa impreparazione che lo coglierà al momento dello scatenarsi di Tangentopoli. Il Pci vivrà questi due grandi fatti (il 1989 e il 1992) non da protagonista. Si farà trascinare, sarà subalterno.
La caduta del muro di Berlino aveva avuto vari annunci. In Russia Gorbaciov era al potere da quattro anni e aveva avviato una politica di riforme e di democratizzazione della società sovietica. Le due parole magiche erano Glasnost’ e Perestroika. Glasnost’ significa, in russo, trasparenza (il contrario della segretezza e dell’assenza di controllo che aveva caratterizzato fino a quel momento la storia comunista), mentre Perestroika vuol dire riforma, e le riforme di Gorbaciov puntavano alla liberalizzazione. La Glasnost’ e la Perestroika stavano cambiando non solo la società russa, ma anche le società degli altri Paesi del blocco sovietico, compresa la Germania dell’Est. E stavano cambiando i rapporti tra Mosca e il mondo occidentale. Basta dire che in quegli anni nacque un sentimento di amicizia personale tra Gorbaciov e Ronald Reagan, presidente repubblicano degli Stati Uniti. L’amicizia tra i due si rinsaldò dopo un famosissimo discorso pronunciato da Reagan proprio a Berlino. Era il 12 giugno 1987: «Mister Gorbaciov, tear down this wall!» (Signor Gorbaciov, butta giù questo muro!) gridò Reagan parlando ai tedeschi davanti alla porta di Brandeburgo, e la sua invettiva non restò inascoltata.
Insomma, la caduta del muro non fu un fulmine a ciel sereno. Ma tutte le avvisaglie erano state quasi unanimemente ignorate.
In quel periodo lavoravo all’«Unità». I direttori del giornale, negli anni precedenti, erano stati Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte e poi, dal 1988, Massimo D’Alema. Macaluso e Chiaromonte facevano parte della corrente «migliorista» del Pci, quella moderata e filosocialista diretta prima da Amendola e poi da Napolitano. D’Alema – di venticinque anni più giovane rispetto ai suoi predecessori – era berlingueriano. Questi direttori – tutti e tre membri della direzione del partito – che rapporti avevano col comunismo e con Mosca?
Macaluso sicuramente era un laico. Il suo modo di fare politica era disincantato, e lo è anche adesso. Però non dovete pensare che, a metà degli anni Ottanta, non avesse ancora ben saldo il cordone ombelicale con l’Unione Sovietica. Mi ricordo un episodio della fine del 1984. Si tenne a Roma una conferenza stampa di giovani intellettuali dissidenti della Rdt, cioè della Germania comunista. Fu mandata a seguirla una giovane cronista, Nanni Riccobono, che conoscevo molto bene e qualche anno più tardi sposai. Lei tornò al giornale e fece l’articolo, nel quale, a un certo punto, scrisse queste parole: «Quel che avviene oltrecortina…».
Cosa vuol dire oltrecortina? È un’espressione attribuita a Winston Churchill, che nel 1946 definì cortina di ferro il confine tra l’Europa democratica e l’Europa comunista. Oltrecortina voleva dire comunismo, Europa dell’Est. E in quel termine c’era qualcosa che evocava il regime, la blindatura. Il Pci considerava dunque quell’espressione anticomunista. In quel caso, però, era stata usata dagli intellettuali tedeschi, e Nanni Riccobono si era limitata a riferirne.
Il giorno dopo all’«Unità» scoppiò il putiferio. Un gruppetto di redattori – alcuni dei quali oggi lavorano in Rai o nei grandi giornali nazionali – insorse. Chiesero che la collega fosse processata per anticomunismo e, possibilmente, che fosse allontanata dal partito e dal giornale. Macaluso mediò. Chiamò la reproba e le disse che bisognava stare attenti a come si scrive, che la tradizione comunista aveva una sua importanza e che forse era meglio se per un po’ si fosse allontanata da Roma. Una punizione era comunque necessaria, perché il reato era grave. Per evitare il licenziamento decisero di spedirla a Catania a fare da corrispondente. Ci rimase, ma un po’ più di un anno.
Chiaromonte, invece, fu sicuramente il più liberal. Tra l’altro permise a Renzo Foa – che era il vicedirettore – di andare clandestinamente a Praga per intervistare, sempre clandestinamente, Alexander Dubček, il leader del Partito comunista cecoslovacco, che nella primavera del 1968 (la cosiddetta Primavera di Praga) aveva liberalizzato il partito e lo Stato. Aveva tentato di dare un volto umano e democratico al socialismo. Ottenendo prima la condanna di Mosca («imborghesimento», «assoggettamento ai costumi dell’imperialismo») e poi l’invasione da parte dell’esercito sovietico, l’arresto, e infine il divieto di svolgere qualsiasi attività pubblica e un piccolo incarico al servizio giardini della capitale. Foa incontrò Dubček nella stazione della metropolitana nel gennaio del 1988, e ne raccolse una lunga confessione che fu pubblicata il 10 gennaio in prima pagina sull’«Unità», suscitando un enorme clamore.1
Negli anni della direzione Chiaromonte ero caporedattore. Combinai parecchie birichinate, alcune alle spalle dello stesso direttore e del condirettore, Fabio Mussi. Una la ricordo benissimo. E risale ad alcune settimane dopo l’intervista a Dubček. Fu la pubblicazione di un articolo di un dirigente del Pci sardo, Umberto Cardia – storico di mestiere – il quale esprimeva dubbi sui rapporti tra Gramsci e Togliatti, all’epoca del carcere di Gramsci, e – seppur velatamente – avanzava l’ipotesi che Gramsci potesse essere rilasciato, con uno scambio di prigionieri tra Roma e Mosca, ma che Togliatti si oppose perché non lo voleva libero.
Noi – all’insaputa dei direttori – non solo pubblicammo l’articolo, ma gli demmo un titolo molto esplicito: Per Gramsci fu fatto tutto?2 Un titolo così, nel 1988, era una bomba atomica. Anche perché a quell’epoca tutto si poteva toccare meno che Togliatti. La difesa di Togliatti unificava l’intera vecchia guardia del partito, che su altri temi si accapigliava: da Ingrao a Bufalini, a Pajetta e Napolitano.
E infatti la bomba esplose. Il giorno dopo non andai al giornale, ero di riposo, ma di prima mattina mi arrivò una telefonata furente di Mussi: «Sei un pazzo! Hai pubblicato quell’articolo senza avvertire nessuno! Nel partito sono furibondi, Pajetta è scatenato, vuole la testa mia o quella di Chiaromonte! Dovremmo dargli la tua…».
Non saltò nessuna testa. Anche perché Chiaromonte, sebbene fosse effettivamente all’oscuro di tutto, ci difese. Devo dire che anche privatamente non mi criticò. Penso che in fondo fosse contento.
Comunque nel partito scoppiò davvero il putiferio. Una intera riunione della direzione fu dedicata all’incidente. Ecco come ne riferì, sulla «Repubblica», Alberto Stabile:3
Convocata per discutere di tutt’altro argomento, la Direzione comunista ha finito con l’impegnare la maggior parte del tempo ad analizzare con occhio ferocemente critico gli effetti della clamorosa polemica sulla solitudine di Gramsci, innescata con l’articolo di Umberto Cardia apparso mercoledì scorso sul quotidiano del Pci. Partendo dal caso Gramsci-Togliatti, alcuni dei dirigenti intervenuti hanno finito con il contestare il modo in cui il giornale del Pci è andato affermando la propria autonomia dal vertice di Botteghe oscure. Ne è venuta fuori una durissima nota dell’ufficio stampa che dà conto in termini estremamente perentori dei giudizi durissimi espressi dalla Direzione su tutta quanta la vicenda, sull’articolo incriminato (è sorprendente e deplorevole…) ma anche sulla parte svolta nella polemica dai socialisti. È stata una Direzione-fiume durata un giorno e mezzo. […] Quando a riunione appena iniziata il vecchio Giancarlo Pajetta ha sferrato il suo attacco, s’è capito subito che quella sarebbe stata una discussione in qualche modo storica. Pajetta ha criticato con tono indignato l’articolo di Cardia. Il dubbio che il partito non abbia fatto tutto il possibile per salvare Gramsci dal carcere fascista è per l’anziano dirigente inaccettabile. È un coro di proteste quello che, stando alle indiscrezioni che vengono lasciate filtrare, si leva dal tavolo della Direzione. Una contestazione di cui l’articolo di Cardia è soltanto un momento. Mentre la polemica più forte sembra indirettamente rivolta al Psi, Bufalini e Ingrao si dichiarano preoccupati della campagna in atto contro il Pci. Parlano di attacco premeditato. Temono le conseguenze che potrebbero esserci nel corpo del partito. Napolitano, che pure su «l’Unità» ha criticato le reticenze di Togliatti nel por mano alla destalinizzazione, dichiara che vanno messi dei paletti di fronte ad una assolutamente strumentale e pesante aggressione. Più tardi, incontrando i giornalisti, il capo dell’ufficio stampa di Botteghe oscure, Igino Ariemma, confermerà queste indiscrezioni: «Unanime» dice «è stato lo sdegno per l’articolo in sé di Umberto Cardia». Aggiungendo altresì che c’è stata una reazione nei confronti de «l’Unità» sull’opportunità politica di pubblicarlo […].
Chiaromonte, il direttore de «l’Unità», è sotto accusa. Si difende cercando di delimitare l’episodio-Cardia nell’ambito di un infortunio sul lavoro. Pare che non fosse a Roma, quando è stato dato alle stampe. Mussi, il vice, avrebbe detto di averlo letto di sfuggita.
Il giorno dopo fummo tutti convocati a Botteghe oscure, nella sede centrale del Pci. Un processo in piena regola. C’erano Alessandro Natta, che era il segretario, Claudio Petruccioli, giovane emergente e membro della segreteria, e poi i grandi dirigenti come Napolitano, Pajetta e forse qualcun altro, ma non sono sicuro. Poi c’erano Chiaromonte e Mussi, Renzo Foa e io.
Noi adottammo una semplice linea di difesa, che ebbe successo perché fu fortemente sostenuta da Chiaromonte: «Il giornale è autonomo. Il giornalismo non può esistere se non si basa sull’autonomia. Passi indietro sul piano dell’autonomia sono antistorici e quindi impensabili».
Detto oggi, in un clima nel quale l’autonomia del giornalismo è in gran parte scomparsa, può sembrare una follia che i redattori dell’organo del Partito comunista rivendicassero autonomia. Ma quelli erano altri tempi, e anche il giornalismo era altro giornalismo. E infatti la spuntammo. Probabilmente i dirigenti del Pci non si aspettavano questo contrattacco. I loro argomenti erano tutti volti a difendere Togliatti, ma avevano pochi argomenti contro l’autonomia del giornalismo. E così, alla fine, persino Pajetta – che era letteralmente furente per quell’oltraggio al Migliore – fu costretto ad accettare la tesi dell’autonomia del giornalismo; e si decise che non sarebbe stato preso nessun provvedimento.
Noi giornalisti ci ringalluzzimmo un po’ per quella vittoria. E l’estate dell’anno successivo tornammo alla carica.
Il direttore a quel punto era D’Alema, Chiaromonte era stato allontanato in giugno (e probabilmente nella decisione di allontanarlo, che fu presa da Occhetto – che nel frattempo era diventato segretario del partito – e dai colonnelli, cioè Veltroni, Fassino, Petruccioli e gli altri, pesò un po’ l’infortunio sul caso Gramsci-Togliatti). Il 20 agosto cadeva l’anniversario della morte di Togliatti e per l’occasione – solitamente celebrativa all’interno del Pci e dell’«Unità» – Renzo Foa e io decidemmo a sorpresa di sferrare un nuovo colpo contro l’ex leader del Pci, e dunque contro tutto il vecchio gruppo dirigente del partito. Chiacchierammo a lungo, nella sua stanza al terzo piano della sede dell’«Unità» (che allora si trovava in via dei Taurini, nel quartiere san Lorenzo) e alla fine decidemmo un titolo che avremmo pubblicato in prima pagina: C’era una volta Togliatti, propose Renzo. Io apportai una modifica, non so se migliorativa o peggiorativa: C’erano una volta Togliatti e il Comunismo reale.
Fatto il titolo ci mettemmo alla ricerca del possibile autore dell’articolo. Lo trovammo in fretta: il filosofo napoletano – e comunista – Biagio De Giovanni. Membro del comitato centrale del partito. Professore illustre all’Orientale. Lui accettò. Scrisse un articolo bellissimo, ancora oggi molto attuale. Lo pubblicammo in prima pagina, in basso a sette colonne. Non avvertimmo D’Alema. Non potevamo: era in vacanza, e si sa che D’Alema va in vacanza in barca, e nel 1988 non esistevano ancora i cellulari. Diciamo che tenerlo all’oscuro fu un fatto di forza maggiore.
Però il giorno dopo – anche se non c’erano i cellulari – qualcuno avvertì D’Alema. I centralini dell’«Unità» impazzirono. Per le proteste. Renzo e io fummo letteralmente travolti. L’intero stato maggiore del partito era fuori di sé. Non solo i vecchi, anche i giovani: ricordo i rimbrotti feroci di gente come Fabio Mussi e Walter Veltroni.
D’Alema? D’Alema mantenne la sua calma serafica. Non saprei dire se si arrabbiò con noi. Con Foa forse sì, con me non mi pare. Non credo che pensò a un tranello contro di lui, a un tentativo di metterlo in difficoltà. E di fatto noi non ce l’avevamo per niente con lui. Quella volta non ci fu un processo pubblico. Però ricordo di avere partecipato alla festa nazionale dell’«Unità» – a Firenze – circa un mese dopo l’«incidente» e di essere stato subissato dalle critiche e dalle proteste. Al partito non andava più bene l’autonomia dell’«Unità». Il corpo del Pci, ma anche grandissima parte del suo vertice, era ancora assolutamente stalinista. E la scomparsa di Berlinguer aveva probabilmente avuto un rimbalzo di inasprimento dello stalinismo. La direzione di Berlinguer aveva introdotto degli elementi «liberali» dentro il partito. Sicuramente Berlinguer non sopportava i sovietici e non ne era sopportato. E questo fatto aveva provocato un allentamento dei legami «ideali», fortissimi, tra la base del partito e la Russia, e quindi tra Pci e stalinismo, perché la Russia era il simbolo e l’incarnazione dell’ideologia staliniana e dell’esaltazione totalitaria. Berlinguer non solo era carismatico, ma era anche molto amato umanamente dal popolo comunista. L’urto tra l’amore per Berlinguer e l’amore per l’Unione Sovietica aveva finito per attenuare il sovietismo del Pci. Ma questa attenuazione non si fondava su un «processo» di ripensamento, su una «evoluzione politica», ma soltanto sull’amore per il capo, cioè su un nuovo fenomeno di liderismo. La scomparsa di quel capo (visto che il suo successore, Alessandro Natta, non possedeva neanche un decimo del suo carisma) provocò un contraccolpo staliniano. E così, con il gruppo dirigente del partito che rivendicava il suo togliattismo e quindi le proprie radici nella Terza internazionale (quella di Lenin ma anche di Stalin), si arriva all’aprile del 1989.
Quando i giovani cinesi iniziano la loro grande protesta in piazza Tien An Men a Pechino, rivendicano una democratizzazione del Partito comunista cinese. Hanno creduto soprattutto all’ex segretario generale del partito, Hu Yaobang, un vero riformista che due anni prima era stato rimosso ed emarginato dal successore di Mao, Deng Xiaoping. Il 15 aprile del 1989 Hu muore improvvisamente per un attacco cardiaco. Tre giorni dopo gli studenti occupano piazza Tien An Men per ricordare Hu. Chiedono liberalizzazioni, inneggiano al leader scomparso e protestano contro Deng e contro il primo ministro Li Peng. Ricevono invece qualche incoraggiamento dal successore di Hu, e cioè Zhao Ziyang.
Ricordo perfettamente che quel 18 aprile ci riunimmo, nel mio ufficio, con i capiservizio del giornale per decidere la prima pagina, proprio come facevamo tutte le sere, intorno alle se...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 1. Il Pci cambia nome
  6. 2. Walter Veltroni
  7. 3. La stagione di Mani pulite
  8. 4. Bettino Craxi
  9. 5. Il paradosso di Tangentopoli
  10. 6. Antonio Di Pietro
  11. 7. Lo spettro del Cavaliere
  12. 8. Silvio Berlusconi
  13. 9. La svolta a destra della sinistra
  14. 10. Massimo D’Alema
  15. 11. La politica in toga (rossa) Il giustizialismo della sinistra italiana
  16. 12. Matteo Renzi
  17. 13. Quale futuro?
  18. Sommario