Chi troppo chi niente
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Chi troppo chi niente

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Chi troppo chi niente

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Ormai sembrano tutti d'accordo: l'Italia deve cambiare. Eppure nessuna delle ricette proposte è ancora riuscita a curare lo Stivale dai suoi mali storici. All'ombra di parole d'ordine quali "austerity" e "taglio del debito" si ritrovano a pagare sempre gli stessi, mentre i soliti noti rafforzano i propri privilegi. La nostra penisola è marchiata da crescenti disuguaglianze che deprimono l'economia, esasperano lo scontro sociale, e soprattutto riducono l'efficienza del sistema-Paese. È questa la tesi, semplice ma esplosiva, di Emanuele Ferragina, giovane docente "espatriato" in Inghilterra ed esperto di politiche sociali: occorre ridurre le disuguaglianze, non per ragioni ideologiche, ma per rendere il sistema più funzionale. Proporre di ridurre la disuguaglianza significa, in ultima analisi, portare alla ribalta un'agenda ormai ignorata da tutti i partiti politici, anche quelli che ne avevano fatto una bandiera. Invocare, finalmente, la ridistribuzione non per scelta ideologica, ma per far funzionare meglio il nostro Paese. Il comportamento lobbistico degli ordini professionali; una spesa sociale sbilanciata verso il passato pensionistico e incurante del futuro lavorativo dei giovani precari; il crollo della coesione sociale dovuto alla disuguaglianza crescente; un federalismo ingiusto sbandierato come slogan. Una penetrante indagine sull'iniquità e l'inefficienza del nostro Paese, e una ricetta per cambiarlo. Una ricetta che converrebbe alla maggioranza degli italiani.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858642009
Argomento
Business

1

Le disuguaglianze in Italia

Spesso nel dibattito pubblico si tende a dare per scontato che la disuguaglianza sia primariamente di tipo economico (peraltro in rapida crescita, come vedremo). Ciò induce a ignorare pericolosamente quanto il fenomeno sia complesso, diffuso e bisognoso di risposte di ampio respiro. In realtà esistono svariate forme di disuguaglianza, e prima di discutere le politiche concrete che potrebbero contribuire a ridurle è necessario comprendere a fondo le molteplici sfumature del concetto. Le disuguaglianze si declinano su tre livelli: quello del trattamento, quello delle opportunità e quello della condizione. La disuguaglianza di trattamento si manifesta per esempio nell’assenza di condizioni paritarie di accesso alla giustizia, nelle relazioni asimmetriche di genere, nella mancanza di diritti per gli immigrati, nell’assenza di omogeneità dei servizi resi dalla pubblica amministrazione e nel controllo insufficiente dell’evasione fiscale. La disuguaglianza di opportunità si ritrova invece nella chiusura degli ordini professionali, nel percorso a ostacoli per accedere al mercato del lavoro, nelle difficoltà per ottenere un finanziamento per una nuova impresa e nello svantaggio cronico per chi nasce in alcune aree geografiche. La disuguaglianza di condizione, infine, si evidenzia nei diversi trattamenti che lo stato sociale riserva a cittadini che dovrebbero essere tutti uguali, e nell’eccessivo divario economico tra loro. Al momento l’Italia è sottoposta a una sorta di «tempesta perfetta» in cui le tre tipologie coesistono: la durezza della nostra crisi è dovuta proprio alle profonde disuguaglianze che ci troviamo di fronte; per questa ragione nel resto del libro ci focalizzeremo su cinque esempi situati ai tre diversi livelli descritti, fornendo potenziali suggerimenti di policy da attuare.
Le diseguaglianze deprimono il sistema e acuiscono lo scontro sociale, ma forniscono anche un’occasione storica: ridistribuire, per rendere il sistema più efficiente e accrescere la coesione sociale. La prevalenza di comportamenti individualistici su quelli collettivistici è cosa consueta nel nostro paese; in economia ciò si spiega molto semplicemente attraverso il cosiddetto «dilemma del prigioniero». Immaginate due prigionieri che si sottopongono a un interrogatorio della polizia. L’interrogatorio può avere tre esiti:
1) se entrambi si professano colpevoli, ciascuno riceve una pena di cinque anni di reclusione;
2) se un solo prigioniero confessa, esso sarà scarcerato, ma l’altro non reo confesso riceverà dieci anni di reclusione;
3) se entrambi i prigionieri non confessano, essi saranno reclusi solamente per un anno.
Se i due prigionieri conoscessero con sicurezza il comportamento dell’altro, logica vorrebbe che entrambi scegliessero di non confessare, ottenendo la pena collettiva più breve. Tuttavia, in assenza dell’aspettativa di comportamento cooperativo da parte dell’altro prigioniero, entrambi confesserebbero nella speranza che l’altro non lo faccia. Questo atteggiamento individualistico porterebbe a cinque anni di reclusione per ciascuno invece di uno solo. L’Italia vive un gigantesco «dilemma del prigioniero». Se tutti ci impegnassimo a ridurre l’incidenza delle disuguaglianze il sistema ne guadagnerebbe a livello complessivo, e con esso la maggioranza dei cittadini. Invece non lo facciamo perché ci aspettiamo che gli altri si comporteranno in modo non cooperativo, guardando solamente al loro interesse. Questo nel lungo periodo rafforza la posizione dei più privilegiati (il prigioniero scarcerato sulla base della sua confessione), rispetto al resto della popolazione (il prigioniero che non confessa e subisce la detenzione più lunga possibile). L’arroccamento dovuto alla mancanza di fiducia negli altri e la convinzione che difendere i propri interessi di categoria sia la migliore strategia hanno effetti negativi perniciosi. Ridurre le disuguaglianze servirebbe, allora, a mostrare i vantaggi del gioco di squadra, in cui «i cooperanti» guadagnano e «gli egoisti» vengono puniti severamente.
A questa situazione generale che non favorisce la cooperazione, si aggiunge l’atteggiamento dei partiti politici: da anni hanno ormai abbandonato l’idea di proporre una visione complessiva e innovativa di società. Così, con il crollo delle grandi ideologie, cittadini ed elettori si sono rintanati in una forma cronica di pessimismo, che ha come corollario l’individualismo più bieco. Si è persa insomma, assieme all’aspirazione globale dei partiti a cambiare il mondo, la voglia dei cittadini di stringersi attorno alla speranza condivisa di immaginare un futuro migliore basato su parametri diversi.
Eppure, in tutto questo, la gravità della situazione attuale fornisce una grande occasione per abbandonare le posizioni settarie e irrazionali attorno alle quali molti cittadini e partiti politici si sono arroccati. Perciò, se l’obiettivo della nostra classe dirigente è quello di far migliorare il paese, è necessario sottrarre il dibattito sull’uguaglianza alle secche della guerriglia ideologica in cui si è incagliato. E ciò perché, se a livello individuale disuguaglianza vuol dire differenza fra chi ha e chi non ha, fra chi ha accesso e chi non ce l’ha, a livello collettivo significa frammentazione sociale e, soprattutto, mancanza di efficienza. Un paese diseguale, ancora prima di essere ingiusto, è inefficiente.1

Le disuguaglianze continuano a crescere

Le disuguaglianze in Italia sono molto elevate e in continuo aumento (da almeno trent’anni a questa parte).2 Per misurarle si possono usare indicatori diversi; quello più comune, il coefficiente di Gini, guarda al livello complessivo di disuguaglianza economica in tutta la popolazione. Se per esempio tutto il reddito fosse in mano a una sola persona e niente in mano a tutti gli altri cittadini del paese – il livello massimo di disuguaglianza concepibile a livello teorico – il coefficiente di Gini sarebbe uno. Se invece il reddito fosse equamente suddiviso fra tutti – il livello massimo di uguaglianza concepibile a livello teorico – il coefficiente di Gini sarebbe zero. Sulla base di questo indice, l’Italia si piazza al quinto posto per il livello di disuguaglianza di reddito fra i trentaquattro paesi dell’Ocse, superata solamente da Messico, Turchia, Portogallo e Stati Uniti. Tutti gli altri paesi dell’Unione Europea hanno un livello di diseguaglianza economica più basso. Tanto per fare qualche esempio, i paesi scandinavi hanno un coefficiente di Gini compreso tra 0,22 e 0,23; paesi più simili al nostro per popolazione come la Francia e la Germania hanno un coefficiente di Gini compreso tra 0,27 e 0,29; l’Italia si attesta a 0,34.
Come se non bastasse, il nostro è anche un paese «immobile» a livello sociale: le differenze esistenti nello status socioeconomico di una generazione tendono a essere trasmesse inalterate a quella successiva. In parole povere, le diseguaglianze esistenti fra i genitori tendono a riprodursi in modo simile tra i loro figli. Una società con bassa mobilità intergenerazionale, con figli che occupano posizioni simili a quelle dei loro padri, non fa altro che sprecare continuamente talento, impedendo ai giovani provenienti da tutti i milieu sociali di esprimere il proprio potenziale. In Danimarca solamente il 15% delle differenze di reddito esistenti tra i genitori vengono trasmesse ai figli, mentre in Italia questa percentuale sale al 50%: un livello quasi tre volte e mezzo superiore. Alla luce di questi dati,3 l’Italia è assieme al Regno Unito il paese più immobile d’Europa. Ancora una volta, al di là delle differenze ideologiche e di ciò che riteniamo giusto ed equo, questo tipo di disuguaglianza comporta inefficienza. Il cognome, o meglio la famiglia dalla quale si proviene, è spesso più determinante delle competenze acquisite per ottenere un lavoro. Questo non è efficiente in un’economia di mercato, in cui le differenze dovrebbero essere prevalentemente create dalle diverse abilità, anziché dalla professione dei genitori.
Non è finita. Molti studi nel campo delle scienze sociali hanno dimostrato, sulla base di indagini campionarie, che esiste una percezione precisa dei livelli di disuguaglianza tollerabili in ogni società. Un sondaggio, commissionato dalla Bbc nel febbraio 2008, ha evidenziato come due terzi delle persone intervistate nei paesi più sviluppati del mondo pensino che la ricchezza negli ultimi anni non sia stata equamente suddivisa tra la popolazione. Nel nostro paese questa percentuale è tra le più alte (assieme a Corea del Sud, Portogallo, Giappone e Turchia) superando l’80% degli intervistati. Questo significa che il problema delle diseguaglianze, al di là della diatriba ideologica, è percepito come tangibile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Un altro elemento, spesso non adeguatamente considerato nel dibattito pubblico, è che la recente crisi economica ha colpito con maggiore forza i paesi che hanno adottato politiche di tassazione regressiva, ovvero sistemi che avvantaggiano chi ha un reddito più alto e un patrimonio più cospicuo rispetto a chi ha un reddito medio-basso. I paesi mediterranei, così come gli Stati Uniti e il Regno Unito, hanno adottato da molti decenni un sistema di tassazione fortemente regressivo. In più in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, alla tassazione regressiva si somma un’evasione fiscale elevatissima, che contribuisce a ridurre in maniera determinante il gettito fiscale che lo Stato può investire. Al contrario, nei paesi in cui le entrate provenienti dalla tassazione sono molto più elevate, la crisi si è avvertita con meno intensità. Questo perché l’investimento pubblico e la maggiore redistribuzione hanno un effetto stabilizzante sull’economia nei momenti di crisi. Il caso più estremo è la Svezia, dove il gettito fiscale rappresenta il 54% del prodotto interno lordo. Lì le tasse le pagano tutti, specie i più ricchi. La redistribuzione operata con la spesa pubblica permette a queste economie di essere più stabili di fronte alle fluttuazioni del mercato, senza gravare sul debito. Ciò succede perché in un’economia dove non c’è grande crescita, la redistribuzione favorisce il mantenimento di un livello sufficiente di consumi, che a loro volta sostengono il settore produttivo. La teoria economica illustra come una persona di ceto medio-basso tenda a spendere la maggior parte di qualunque reddito aggiuntivo, mentre una persona con reddito più elevato non ha la stessa propensione. Non è un caso che negli ultimi anni siano tornate in voga le teorie keynesiane, messe nel cassetto a partire dagli anni Ottanta. Questo punto, però, richiede una chiarificazione, dal momento che la figura di Keynes e le sue teorie sono da molti decenni al centro di un dibattito serrato tra i suoi sostenitori e i suoi detrattori.
I sostenitori affermano che la Teoria generale, pubblicata nel 1936,4 propone una diagnosi perfetta dei problemi e dei rimedi da perseguire nei momenti di grave crisi economica. Secondo Keynes le crisi economiche non sono un segnale decisivo del mancato funzionamento del sistema capitalistico, come sostenuto dai marxisti, ma delle depressioni passeggere che sorgono a causa di un’insufficienza di domanda aggregata. Per domanda aggregata in economia si intende la somma dei consumi di ogni singolo cittadino, che si tramuta in sostegno alla produzione delle imprese, capaci in condizioni normali di piazzare i loro prodotti e sostenere così l’economia. Le crisi più violente del sistema capitalistico, in questa prospettiva, si configurerebbero come degli shock dovuti all’abbassamento della domanda aggregata. Governi attenti, secondo Keynes, dovrebbero rispondere singolarmente e in concerto attraverso politiche fiscali espansive, per rimettere le cose a posto. Il che significa semplicemente immettere moneta nel sistema per accelerare la domanda. Questo può essere fatto per esempio lanciando un grande piano di opere pubbliche che sostenga l’impiego. Misure del genere furono adottate durante la Grande depressione da Franklin Delano Roosevelt.
I detrattori di Keynes sostengono che la sua teoria sia un tradimento dei principi di base dell’economia, che può portare a intraprendere strade pericolose. Le misure proposte da Keynes si configurerebbero come strumenti per rispondere a una fluttuazione momentanea della domanda, ma in realtà nel lungo periodo il mercato tenderebbe a trovare un equilibrio automatico tra domanda e offerta, non necessitando di una «mano pubblica». L’idea di usare in modo eccessivo la politica fiscale per risistemare le cose sarebbe, in tale contesto, dannosa perché sovvertirebbe la struttura «normale» di incentivi e disincentivi presenti sul mercato, avendo come sola conseguenza diretta la crescita dell’inflazione.
Oggi ci troviamo in una condizione di bassa domanda aggregata ma anche di debiti pubblici molto elevati. Sembra quindi improponibile l’idea di rilanciare la domanda aggregata sulla base delle politiche espansive suggerite dai keynesiani, ma al contempo aspettare il riaggiustamento automatico suggerito dai suoi detrattori pare altrettanto fuori luogo (come lo fu negli Stati Uniti subito dopo la Grande depressione). Per questa ragione molti macroeconomisti ritengono invece si debba seguire la strada dei paesi più egualitari, dove la redistribuzione aiuta in periodo di crisi a sostenere la domanda della popolazione con redditi medio-bassi (seguendo quindi l’esempio dei paesi scandinavi) senza gravare eccessivamente sul debito pubblico. Ridistribuire servirebbe dunque ad accrescere il reddito del ceto medio-basso, e questo sarebbe funzionale a sostenere la domanda aggregata.
A proposito di redistribuzione, nei paesi mediterranei un lavoratore dal reddito medio-basso paga circa il 70% delle tasse versate dal suo omologo svedese,5 mentre i più ricchi (l’1% più ricco della popolazione) pagano solamente il 20% dei loro cugini scandinavi.6 Allora è giusto scagliarsi contro lo strapotere della finanza quando si parla di crisi, ma occorre rendersi conto che veniamo duramente colpiti anche a causa della struttura regressiva del nostro sistema di tassazione. Ancora una volta le politiche redistributive e la lotta all’evasione fiscale non vengono proposte per ragioni ideologiche, ma per rendere il paese più solido rispetto agli shock esterni (come l’attuale crisi economica, appunto). In assenza di crescita, non ci salverà l’austerità (per quanto necessaria) ma la redistribuzione.
E, in tema di misure votate alla redistribuzione, non bisogna solamente pensare a quelle di tipo economico. Contrastare la crisi potrebbe essere per esempio una buona occasione per lanciare politiche volte a favorire l’integrazione della donna nel mondo del lavoro. L’Italia non è solo uno dei paesi più diseguali del mondo occidentale, è anche uno di quelli in cui le donne tendono a partecipare meno alla forza lavoro. Per questa ragione ridistribuire favorendo l’impiego femminile potrebbe rivestire una doppia funzione, integrare una parte della popolazione esclusa dalla forza lavoro e innalzare al contempo la produttività del sistema.
A questo va aggiunto che la riduzione delle disuguaglianze favorisce anche la partecipazione sociale e politica, e con essa la coesione. In particolare, nella Penisola le forti disuguaglianze sono accompagnate da una partecipazione debole dei cittadini alla vita pubblica e da una ridottissima fiducia nelle istituzioni e negli altri. Viviamo in un paese spaccato, diviso attorno a linee di demarcazione che impediscono di discutere in modo sereno su come applicare politiche pubbliche funzionali allo sviluppo economico e sociale. Queste linee di demarcazione non hanno più nulla a che vedere con l’ideologia, ma sono posizioni assunte sulla base di convenienze opportunistiche o a volte, più semplicemente, nascono perché i problemi non vengono discussi sulla base di dati empirici puntuali. Prendete la battaglia sull’articolo 18: dobbiamo urgentemente riformare il mercato del lavoro garantendo una fonte di reddito e un’adeguata formazione a chi perde il lavoro (cosa che la nuova riforma non fa). Invece siamo finiti ostaggio di un dibattito ideologico «senza ideologia», tra chi vede l’articolo 18 come un nemico della trasformazione del lavoro e chi lo concepisce coma una protezione essenziale. In realtà le imprese non sono per nulla condizionate nella loro crescita dall’articolo 18, e lo stesso protegge solo una piccola parte di lavoratori. Da ambo le parti, Confindustria e governo da un lato e sindacato dall’altro, l’articolo 18 è stato usato come uno strumento di mobilizzazione del consenso. Sarebbe stato molto più utile, per...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Premessa
  5. 1. Le disuguaglianze in Italia
  6. 2. Ordini professionali: corporazioni contro le nuove generazioni?
  7. 3. Il prezzo del passato
  8. 4. Investire sul futuro: lavoro tra protezione e sviluppo
  9. 5. Uguaglianza e storia collettiva per accrescere il capitale sociale
  10. 6. Per un federalismo solidale
  11. Conclusione: riflessioni a margine del Condominio Italia
  12. Indice