I segreti d'Italia (VINTAGE)
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I segreti d'Italia (VINTAGE)

Storie, luoghi, personaggi nel romanzo di una nazione

  1. 306 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I segreti d'Italia (VINTAGE)

Storie, luoghi, personaggi nel romanzo di una nazione

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"Non basta guardarla com'è oggi l'Italia; per cercare di capire bisogna ricordare anche le molte vicende del suo passato, la dimensione immaginaria degli eventi, le sue 'chimere'." Spaziando da Nord a Sud, lasciandosi incantare dai ricordi, dai luoghi, dalle pagine alte della nostra letteratura come dalle storie - esemplari o terribili - della cronaca, Augias racconta un paese ideale e paradossalmente, proprio per questo, più vero.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858645697
Argomento
Kunst
I segreti d’Italia
Una prefazione, a suo modo
Vorrei cominciare con un episodio che forse conserva un suo significato. È un ricordo lontano ma impresso nella memoria con la nettezza che hanno gli eventi della prima giovinezza, specie se verificatisi in un momento epico. Villa Celimontana a Roma è un luogo bellissimo e non molto frequentato. Ha ingiustamente minor fama di villa Borghese o del Gianicolo ed è un peccato perché i viali cosparsi di rovine romane, i boschetti, il piccolo obelisco nascosto, la palazzina che ospita la Società Geografica, l’affaccio che fronteggia i resti giganteschi delle Terme di Caracalla, tutto contribuisce a farne uno di quei luoghi incantati che la città offre a chi sa scovarli, uno di quei luoghi non infrequenti a Roma dove canoni neoclassici e romantici si confondono diventando indistinguibili.
La villa sorge, come dice il nome, alla sommità del Celio, colle un tempo coperto di vigneti che nel XVI secolo la famiglia Mattei trasformò in un’oasi di giardini e di pace agreste. L’entrata principale è adiacente alla basilica di santa Maria in Domnica (o santa Maria alla Navicella) una delle antiche basiliche protocristiane tanto più belle di quelle del fasto barocco che avrebbero finito col dare alla città il suo connotato prevalente. La raccomando.
A partire dal giugno 1944, gli americani avevano istallato nella villa uno dei loro accampamenti. Ben recintata, incombente con un robusto muraglione su via della Navicella, alta sulla strada dato il declinare del colle, era fatale che la villa venisse scelta come luogo per dare un quartiere alle truppe. Tende, baraccamenti, l’immancabile asta con la bandiera a stelle e strisce, segnali dati con la tromba, tutto ciò che fa un campo militare. Quella bandiera è tra l’altro la prima che ho visto sventolare a mezz’asta. Mia madre mi spiegò il perché: «È morto il loro presidente», disse. Dunque doveva essere l’aprile 1945, il 12 di quel mese era morto Franklin Delano Roosevelt, l’uomo che aveva retto il Paese durante l’interminabile guerra.
Il ricordo che volevo evocare però è precedente e diverso. Era di domenica con un tempo né fresco né caldo, diciamo verso l’autunno del 1944 quando, finita l’occupazione, la città cercava di ricominciare a vivere. Mia madre mi conduceva per mano verso casa dopo aver fatto visita ad un’amica. Dalla sommità del muraglione si sporgeva un gruppo festoso di soldati americani, nelle loro belle divise con le piegoline che la stiratura lasciava in rilievo sulla camicia. Ero abituato ai nostri fanti con le fasce gambiere spesso allentate o cadenti, le uniformi di panno ruvido inutilmente pesante. Quelle camicie fresche di stiratura, le belle cinture di robusta tela color cachi, l’odore di sapone, di tabacco, di brillantina, mi sembravano il massimo dell’eleganza, anzi della vera ricchezza. Affacciati lassù, i soldati avevano l’aria di divertirsi molto. Lanciavano in strada delle sigarette estraendole una ad una dai pacchetti. Una sigaretta, un’altra sigaretta, senza fretta tra un tiro e l’altro. Ai piedi del muro un folto gruppo di giovanotti italiani; ad ogni tiro si gettavano gridando e spintonandosi verso il luogo dove la sigaretta sarebbe atterrata. Un po’ gioco, un po’ rissa, un po’ contesa, tumulto. Mia madre attraversò la strada tirandomi via, forse mi voltai a guardare la scena; lasciandola poi giacere a lungo in qualche recesso della mente.
Molti anni dopo, sempre di domenica, portai mia figlia allo zoo. Davanti a una delle gabbie alcune persone anch’esse festose tiravano le noccioline alle scimmie. L’assonanza dei gesti fece emergere il ricordo lontano. Non che paragonassi in alcun modo i poveri giovanotti romani del ’44 alle scimmie. Il ricordo emerse perché la divisione dei ruoli poggiava su atteggiamenti simili: un misto di divertimento e complicità, gioco e contesa, da una parte e dall’altra.
Ancora più avanti negli anni, lavorando sulla storia di Roma, mi caddero sotto gli occhi alcuni versi magnifici contenuti nel libro VI dell’Eneide. Enea ha incontrato l’ombra di suo padre e tenta invano di abbracciarla. Anchise gli spiega la teoria dei cicli che regge l’universo, profetizza i grandi uomini che nasceranno dalla sua discendenza; aggiunge che altri popoli avranno gloria con le arti e le scienze. I romani invece governeranno il mondo grazie alla sapienza delle leggi: Tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos; tu, o Romano, ricorda di governare i popoli con il tuo imperio e che queste saranno le tue arti: imporre le usanze della pace, risparmiare i vinti, debellare i superbi.1
Gli americani sicuramente ci risparmiarono, dopo l’insensata guerra che gli avevamo mosso in un momento di sconsiderata demenza. Nel mio ricordo però, quegli spensierati militari, annoiati dal dover passare la domenica nell’accampamento invece che in giro per la città a cercare ragazze con le loro belle camicie fresche di stiratura, avevano trovato un modo forse nemmeno consapevole di far vedere con qualche sigaretta chi aveva davvero vinto la guerra e chi l’aveva persa nonostante l’ambigua posizione di «Alleati» dell’ultim’ora.
Parcere subiectis certo, ma con i «subiecti» ci si può anche divertire un po’.
«Segreti» è una parola impegnativa, «segreti d’Italia» poi non ne parliamo, con tutto quello che è successo in questo Paese in tanti secoli. Non basterebbe una biblioteca a raccontarli, basta pensare ai cento enigmi del solo Novecento quasi tutti insoluti. Nel nostro caso però la parola «segreti» va spogliata di una parte della sua enfasi e ridotta nelle dimensioni. Tra quelli, innumerevoli, della storia italiana se ne può scegliere uno, che è il segreto dei segreti e si può riassumere così: perché le cose sono andate come sono andate? Perché la storia della Penisola ha conosciuto così numerosi contorcimenti e passioni e sventure e occasioni mancate? E perché, al contrario, questo lembo di terra gettato di sghembo in mezzo al Mediterraneo lungo un confine pericoloso e ambiguo tra Balcani, Nordafrica, Europa, è stato popolato come pochi altri da una tale quantità di geni? Che cosa fa dell’Italia un Paese così speciale che da sempre ha attirato l’attenzione degli stranieri, talvolta ammirata talaltra ostile o irridente? Perché in altre parole il «romanzo della nazione» è così movimentato e controverso? La posizione dell’Italia nelle quotazioni internazionali fluttua come le Borse nei momenti difficili: può salire molto ma anche scendere molto.
I primi responsabili di queste incertezze sono gli italiani stessi che non sempre hanno ben chiaro il loro possibile ruolo. Chi sono gli italiani? Gli emigranti che sbarcavano in terre lontane con un sacco di stracci sulle spalle? Quelli che accettavano di fare, per quattro soldi, i lavori più umili e pericolosi? Oppure i brillanti architetti, i grandi stilisti, gli artisti sommi che si sono imposti all’ammirazione del pianeta? Non esiste un altro popolo – quanto meno non in Europa – che abbia toccato estremi così lontani. Questo è il nostro vero segreto che racchiude (quasi) tutti gli altri. C’è un metodo per tentare di descriverlo?
L’Italia è un Paese fatto di città. Grandi e piccole, gloriose o oscure, tutte però degne di attenzione se non altro per il carico di passato che custodiscono, qualcuno dice addirittura l’eccesso di passato. Se si toglie Parigi alla Francia e Londra alla Gran Bretagna, non resta granché. Se invece si toglie Roma all’Italia resta moltissimo. Infatti, all’interno del romanzo di un’intera nazione ci sono i cento romanzi delle sue cento città, romanzi non solo come metafora ma in senso proprio, cioè le storie raccontate attraverso vicende e personaggi della letteratura.
Il nostro viaggio comincia, anche per questo, con due libri eccezionali centrati su protagonisti che hanno profondamente segnato l’immaginario degli italiani. Sono pagine di storia? In senso tecnico no; ma forse sono ancora più importanti perché quei tipi umani sono eterne figure di italiani possibili; continuano ad aggirarsi tra noi ed è possibile incontrarli quasi ogni giorno, in autobus o nelle cronache dei giornali.
Su Roma e Milano, le due capitali, si è scritto molto; difficile dunque trovare un aspetto che non sia stato ampiamente esaminato. Non impossibile, però. Le grandi città sono immensi depositi di storie, posti dove anche i muri parlano. Roma sarà Giacomo Leopardi a raccontarla come la vide, lui che era ospite nella vasta e malandata dimora dei parenti di sua madre, in quegli anni tristi della Restaurazione, quando il governo del papa aveva ripreso fiato dopo le rivoluzioni di fine secolo e un grande poeta come Giuseppe Gioachino Belli, irridente e blasfemo, faceva per campare il censore pontificio. Milano, al contrario, è raccontata da una prospettiva che potrebbe sembrare marginale e non lo è, in un fermo-immagine subito dopo il 1945 quando i milanesi, e gli italiani in generale, furono capaci di far emergere, da lutti e rovine, uno slancio che avrebbe cambiato per sempre la fisionomia del Paese e un po’ anche il loro carattere. L’energia, la visione di quegli anni appaiono incredibili alla luce della mediocrità opaca, lo sguardo corto, la rassegnazione di questo inizio del XXI secolo. Invece ci furono, sia l’energia sia la visione. Con abiti logori indosso, magri da far paura, si ricostruì tutto insieme: le case, le fabbriche, la cultura, l’edificio civile con il miracolo della Costituzione.
Poi c’è l’esteso territorio che una volta si chiamava Regno delle Due Sicilie e che dopo il 1861 è diventato il Mezzogiorno. In quelle pagine è possibile che il lettore trovi alcune autentiche sorprese. Per esempio leggendo i resoconti, e le inchieste parlamentari successive all’unificazione, quando ufficiali e funzionari piemontesi, arrivati laggiù, si chiedevano, senza nascondere la loro angoscia, quale impegno ci sarebbe voluto, e quante risorse, per risollevare le disperate condizioni di quelle terre. In occasione del 150° anniversario dell’Unità nazionale, alcuni libri d’impostazione per dir così «sudista» hanno raccontato la storia che i piemontesi prelevarono l’ingente tesoro di Stato depositato nelle banche del Meridione per trasferirlo al Nord; così facendo condannarono quella parte del Paese al sottosviluppo. Se la vicenda è vera, certo è di eccezionale gravità. Ma la gravità c’è da qualunque parte la si guardi. Disporre di un ingente tesoro di Stato e mantenere la popolazione nelle condizioni terribili in cui si trovava all’arrivo di Garibaldi, con un analfabetismo che toccava punte dell’87 per cento, non è certo meno grave dell’eventuale trasferimento delle risorse a Torino.
Prendiamo una città come Parma che si direbbe baciata dalla fortuna per posizione geografica, reddito, qualità dei suoi prodotti. Invece è oscuramente minata dalle...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I segreti d’Italia
  4. Note
  5. Indice dei nomi e delle opere
  6. Referenze fotografiche
  7. Indice generale