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Storie di uomini e donne in fuga, e di come l'Italia li accoglie, tra paura e solidarietà

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Storie di uomini e donne in fuga, e di come l'Italia li accoglie, tra paura e solidarietà

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Laura Boldrini ha trascorso la maggior parte della sua vita in prima linea al servizio delle Agenzie delle Nazioni Unite, sia in Italia che nelle principali crisi umanitarie – dal Kosovo all'Afghanistan, dal Sudan all'Iraq. Ripercorrendo la sua esperienza, l'autrice narra le storie dei migranti e dei richiedenti asilo e descrive gli incontri con i rifugiati, i drammi delle famiglie spezzate e dei morti in mare, il dolore e la speranza di chi è costretto a scappare. Allo stesso tempo, Laura Boldrini porta alla luce quell'Italia della solidarietà spesso nascosta – dagli uomini che rischiano la propria vita per salvare i naufraghi in mare alle tante persone che nel rapporto quotidiano con gli immigrati e i rifugiati realizzano un'integrazione vera e spontanea – e ci mostra così quali siano le basi per costruire la società italiana del futuro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858644881
Categoria
Sociologia

L’universo dei rifugiati

In questi anni l’interesse dell’opinione pubblica e del mondo politico nei confronti dei rifugiati è aumentato sia in proporzione al dato numerico sia perché la materia è divenuta nel tempo oggetto di cronaca. Ma quella dei richiedenti asilo è sempre stata considerata una questione secondaria rispetto al fenomeno più ampio dell’immigrazione. Partecipando da anni a conferenze in ambito universitario, a dibattiti e incontri pubblici su queste tematiche e ricevendo costantemente centinaia di mail che affrontano questo argomento, ho potuto notare che anche persone istruite, interessate e sensibili a certi temi hanno dei rifugiati un quadro confuso. Ugualmente poco chiaro è quanto emerge dalla lettura dei quotidiani o dalle notizie riportate dai telegiornali: comunemente avviene che in un pezzo sull’immigrazione il giornalista usi termini diversi come se, invece, fossero sinonimi – clandestino, profugo, rifugiato, immigrato, extracomunitario, richiedente asilo –, annullando le differenze e mettendo tutti nello stesso calderone.
Clandestino è sicuramente la definizione più inflazionata sia nei mezzi di informazione sia, di conseguenza, nell’immaginario collettivo italiano. Clandestino viene usato per chi ha un permesso di soggiorno scaduto, come per chi arriva dal mare e fa richiesta d’asilo. Nel secondo caso si tratta di persone che chiedono protezione in un altro Paese, e per le quali è veramente improprio l’utilizzo di un termine che evoca paura. Chi tra i richiedenti asilo viene poi effettivamente ritenuto bisognoso di protezione da un’apposita commissione ottiene lo status di rifugiato, una definizione che stenta a entrare nell’uso nel sistema mediatico italiano, come se fosse troppo tecnica e quindi non utilizzabile nel linguaggio corrente.
I rifugiati vengono spesso etichettati come extracomunitari, profughi, immigrati o, appunto, come clandestini, negando così la loro specifica condizione di persone perseguitate, in fuga dalle guerre e impossibilitate a rientrare nel proprio Paese d’origine. Va anche ricordato che vi sono nel mondo milioni di persone fuggite dalle loro case per mettersi in salvo, ma rimaste all’interno dei confini nazionali, e che si definiscono sfollati.
La differenza tra chi lascia il proprio Paese per cercare di migliorare le proprie condizioni economiche – gli immigrati – e chi invece se ne va perché è in pericolo – i rifugiati – sta proprio nella volontarietà della scelta. I primi decidono di compiere un percorso migratorio che, anche se doloroso, è comunque frutto di una scelta. Gli altri invece non hanno questa facoltà, sono costretti a scappare per sopravvivere. Proprio per questa particolare condizione di vulnerabilità i rifugiati sono protetti da una Convenzione internazionale ad hoc, la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951, incentrata sul principio del non respingimento.
Secondo l’articolo 1A il rifugiato è colui che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».
E chi fugge dalla guerra, è un rifugiato? Se una persona è sopravvissuta a un bombardamento che ha raso al suolo la sua casa, se scappa «solamente» da un conflitto, se cerca di salvarsi dal caos e dalla violenza che dilagano nel suo Paese non avrà, secondo la normativa europea, molte possibilità di diventare rifugiato in senso stretto. Ma un somalo che scappa dall’anarchia violenta che da circa vent’anni regna nel suo Paese o un sudanese che fugge dal massacro in atto nel Darfur dal 2003 non può essere rimandato indietro perché sussiste per lui il rischio di subire un grave danno. Ed è per tutelare queste persone che è stata introdotta a livello europeo la protezione sussidiaria, grazie alla quale anche chi non è soggetto a persecuzione individuale secondo la Convenzione del 1951 può vivere legalmente in un altro Paese ed essere protetto.

Storia di un pregiudizio

Una delle convinzioni più consolidate e diffuse nel Paese è che la gran parte degli immigrati e dei rifugiati venga in Italia. Ugualmente si ritiene che l’Italia sia lasciata sola dall’Europa e che sia l’unico Paese a farsi carico di questa vera e propria invasione. Ogni volta che devo trattare questo tema comincio elencando alcuni dati, per rimettere le cose in ordine. E aggiungo che l’Italia non è invasa da immigrati né tantomeno da rifugiati. Poiché è un’affermazione che smonta un pregiudizio non piace neanche quando sono le cifre a provarlo. Non piace perché contraddice ciò che si legge sui giornali o quello che si dice in tv.
Prima di passare a una comparazione in ambito europeo, è importante sottolineare un altro concetto, fondamentale per sfatare il mito che l’intero eldorado Europa sia soggetto a invasione, ricordando che ben l’80 per cento dei rifugiati si trova nei Paesi in via di sviluppo. Tra Siria e Giordania vivono circa 2 milioni di iracheni. Tra Pakistan e Iran si dividono circa 3 milioni di afgani. Nei 27 Paesi dell’Unione Europea vi sono 1,5 milioni di rifugiati. I dati sono eloquenti e non parlano di assedio, eppure molte persone oppongono resistenza a valutarli lucidamente. Nei Paesi europei la distribuzione dei rifugiati non è certo omogenea. Si passa dai 600 mila nella sola Germania ai 300 mila nel Regno Unito all’Italia dove si stima vi siano circa 47 mila rifugiati, pari a 0,7 rifugiati ogni 1000 residenti. Se in Italia siamo invasi, che dovrebbero dire in Svezia dove vi sono 7 rifugiati ogni 1000 abitanti?
Per capire come mai vi siano rifugiati che si dirigono verso l’Italia bisogna rivolgere l’attenzione ai focolai di instabilità e di tensione in Paesi geograficamente o storicamente legati a quello di destinazione. Nel mondo globalizzato nessuno può sottrarsi alla concatenazione degli eventi, e anche ciò che accade lontano da noi finisce comunque per riguardarci. Alla fine degli anni Novanta in Kosovo la maggioranza albanese scappava dalla pulizia etnica e migliaia di persone arrivavano attraverso il Montenegro e l’Albania sulle coste pugliesi e calabresi. Non c’è quindi da meravigliarsi se più recentemente sulle coste siciliane sono arrivati somali, eritrei, afgani e iracheni. Qualcuno però in modo quantomeno anacronistico ritiene che per risolvere il problema sia sufficiente aumentare i mezzi di contrasto e respingere tutti indietro. Altri invece, con più buon senso, ritengono che se non si trattano seriamente le cause alla base della fuga, il problema non si risolve anzi, se possibile, si peggiora.

Basta «alzare un dito» per diventare rifugiato?

Ma come si diventa rifugiato? I più prevenuti credono che diventare rifugiato sia facile e alla portata di tutti. O che sia sufficiente saper mentire per ottenere questo riconoscimento. A muovere tali obiezioni sono persone che non hanno alcuna conoscenza della procedura per la richiesta d’asilo e delle garanzie introdotte dalla legge allo scopo di impedire un utilizzo strumentale di questo diritto. È vero, possono fare domanda anche coloro che non hanno un reale bisogno di protezione. Possono tentare di farla franca, visto che per chiedere asilo è sufficiente esprimere la volontà di volerlo fare. Ma certamente non basta questo per ottenere lo status di rifugiato o altre forme di protezione.
Nonostante in Italia non esista una legge organica che regoli la materia d’asilo, vi è però una procedura strutturata introdotta nel 2002 dalla cosiddetta Legge Bossi-Fini ed entrata in vigore nel 2004. Questa legge sull’immigrazione con soli due articoli cambia completamente la procedura d’asilo in Italia e introduce sette Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato dislocate su tutto il territorio nazionale, da Trapani a Milano passando per Siracusa, Foggia, Roma, Crotone e Gorizia (poi salite a dieci con Bari, Caserta e Torino). Prima del 2004 tutti i richiedenti asilo venivano convocati a Roma di fronte a un’unica Commissione centrale perennemente in arretrato; questo implicava quindi tempi d’attesa di circa due anni, nessuna assistenza e l’impossibilità di lavorare. Con la Bossi-Fini cambia anche la composizione delle Commissioni che prevedono un prefetto come presidente, un funzionario di polizia, un rappresentante dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) e uno dell’Unhcr. Tutti con diritto di voto.
Ho sempre trovato il lavoro delle Commissioni particolarmente difficile e di grande responsabilità. Non invidio i colleghi che lo fanno, né Helèna Behr che oltre a rappresentare l’Unhcr nella Commissione nazionale per il diritto d’asilo, ha anche il compito non semplice di coordinare il lavoro dei nostri rappresentanti nelle Commissioni e, quando necessario, di discutere i casi più complessi. Un lavoro che ti lascia dubbi e che ti segue per tutto il giorno, ben oltre le otto ore. Da un esito positivo o negativo dipende la sorte e l’avvenire delle persone. Tale responsabilità pesa su coloro che fanno questo mestiere. Poi, ognuno reagisce in modo diverso: c’è chi riesce a prendere le distanze, c’è invece chi continua a pensarci.
A me, quando è capitato di sostituire un collega, è accaduto di persistere nella ricostruzione di una storia, di rivedere i volti ansiosi delle persone, di avere dei dubbi. Si comincia a fare audizioni la mattina alle nove e spesso si finisce tardi la sera. In una giornata tipo ci si può trovare davanti un uomo, magari senza documenti, che proviene da un Paese in cui vige la dittatura e in cui non è ammessa alcuna forma di dissenso. Una persona che mostra come prova i segni delle torture subìte durante la prigionia, che spiega in maniera credibile la sua situazione e quanto gli è accaduto, che esibisce la tessera di un movimento d’opposizione in cui ha militato e le circostanze che l’hanno indotto a scappare. Dirà la verità o si è solo preparato bene seguendo i consigli di qualcun altro che c’è già passato prima di lui? Oppure, una donna sopraffatta dall’emozione di ricostruire quanto le è successo, che piange durante l’audizione senza riuscire a fornire abbastanza elementi per arrivare a una valutazione. È a causa del trauma o cerca solo di commuovere chi le fa le domande? Ogni giorno i colleghi si trovano di fronte situazioni analoghe e devono prendere decisioni insieme con gli altri membri delle Commissioni.
Oltre alla credibilità della persona contano anche i riscontri effettuati nei Paesi d’origine attraverso le informazioni in possesso degli uffici dell’Unhcr, dei rapporti di organismi che si occupano di diritti umani e delle ambasciate italiane. Se gli elementi a disposizione non sono sufficienti si rinvia la decisione.
La Commissione ha di fronte varie possibilità: riconoscere lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra; concedere la protezione sussidiaria; raccomandare la protezione umanitaria; dare il diniego. Nel primo caso, verrà rilasciato un permesso di soggiorno di cinque anni e un titolo di viaggio della stessa durata. Inoltre la famiglia potrà ricongiungersi senza dover dimostrare di avere un reddito sufficiente e i requisiti di agibilità per l’alloggio, come invece è previsto dalla legge per gli immigrati. La protezione sussidiaria invece prevede il rilascio del permesso di soggiorno per tre anni, un titolo di viaggio per lo stesso periodo e il diritto al ricongiungimento familiare, ma solo se ci sono i requisiti di reddito e di alloggio. Con la protezione umanitaria, infine, la persona ha diritto al permesso di soggiorno per un solo anno, al titolo di viaggio sempre per un anno, ma non al ricongiungimento familiare.

Rifugiati, non parassiti

In molti sono pronti a scommettere che queste persone vivano alle spalle di chi paga le tasse, che abbiano una casa e dei privilegi che i disoccupati italiani si sognerebbero. In realtà, i rifugiati nel migliore dei casi hanno la possibilità di essere assistiti per circa sei mesi, periodo che consente loro di orientarsi nel Paese d’asilo. In Italia però la maggior parte dei rifugiati non riesce a usufruirne a causa di una limitata disponibilità di risorse. Sei mesi non sempre sono sufficienti affinché una persona acquisisca autonomia, ma sicuramente costituiscono un aiuto.
Tuttavia solo i più fortunati ricevono questo sostegno, gli altri ottengono un permesso di soggiorno, ma fin dall’inizio devono contare unicamente sulle proprie forze. Ovunque in Italia, ma specialmente nelle grandi città come Roma, Milano, Torino, Firenze, Napoli e Palermo, si incontrano rifugiati che non hanno mai usufruito di assistenza o che nei sei mesi iniziali non sono riusciti a trovare un lavoro e una sistemazione, finendo a occupare stabili fatiscenti, come ultima spiaggia. E, una volta entrati in questa dimensione di marginalità, difficilmente poi riescono a rialzarsi e a condurre un’esistenza normale.
Il rischio che si corre per una mancata assistenza iniziale è proprio quello di sprofondare nel baratro del fallimento e non risollevarsi più. Ma quegli italiani arrabbiati con gli stranieri rifiutano di mettersi nei panni altrui e di provare a capire quanto sia difficile la condizione di rifugiato: ricominciare da zero in un altro Paese senza conoscere la lingua, cercare lavoro non sapendo a chi rivolgersi, non avere riferimenti né appoggi. Né poter ritornare indietro. Quella dei rifugiati è una condizione a senso unico, di sola andata, e per questo sarebbe importante investire su di loro e favorirne l’integrazione.
I rifugiati non ambiscono a vivere di assistenzialismo, come a qualcuno piace affermare, ma vogliono rifarsi una vita, lavorare e condurre un’esistenza normale. Proprio come hanno fatto in passato tanti italiani durante il regime fascista, costretti a fuggire in altri Paesi per sottrarsi alle persecuzioni.

I documenti, un privilegio

Tempo fa ero a Lampedusa in una di quelle giornate in cui gli sbarchi non conoscono interruzioni né di giorno né di notte. Tra tanta gente approdata al molo c’erano due uomini diversi dagli altri, vestiti come se andassero in ufficio e non come se scendessero da un gommone. Al centro di accoglienza, in attesa di assolvere le pratiche per l’identificazione, mi raccontarono la loro storia.
Erano iracheni, un ingegnere e un veterinario. Per prima cosa si scusarono e si giustificarono per essere entrati in Italia senza visto. Erano mortificati. Ne fui molto colpita. Ci tenevano a specificare che erano arrivati a questo dopo una lunga trafila andata a vuoto. Entrambi avevano lasciato Baghdad a causa del clima di insicurezza e dopo aver ricevuto minacce di morte attraverso lettere anonime con tanto di proiettile. Uno dei due era riuscito a salvare il figlio da un tentativo di rapimento a scopo di estorsione, attività in cui l’Iraq ha un amaro primato. Alla fine, così come oltre due milioni di connazionali, erano stati costretti in fretta e furia ad andare via. Uno di loro aveva portato la famiglia ad Amman, l’altro a Damasco. Ma per entrambi era stato impossibile trovare un lavoro. Per questo motivo avevano accettato di andare in Libia dove, grazie a un loro conoscente, avevano ottenuto un impiego regolare, per quanto mal pagato. Il contratto era per due anni e con le spese che dovevano sostenere a Tripoli riuscivano a malapena a inviare qualche soldo alle famiglie.
All’avvicinarsi della scadenza il veterinario aveva fatto domanda di visto per il Canada, dove viveva suo fratello, fornendo il passaporto, gli estremi del conto bancario e la busta paga, ma dopo qualche mese aveva ricevuto una risposta negativa. Allora avevano pensato di rivolgersi a un’ambasciata europea e chiedere il visto. Magari sarebbe stato più facile. Non avevano fatto i conti con i controlli e con i cordoni di sicurezza intorno alle ambasciate, né con l’impossibilità di accedervi fisicamente, se in possesso di un passaporto iracheno.
A questo punto l’ingegnere e il veterinario avevano di fronte le seguenti possibilità: rimanere in Libia irregolarmente con il rischio di essere fermati dalla polizia e finire in un centro di detenzione; ritornare in Iraq e rischiare di essere uccisi; andare in Giordania e in Siria e ridurre le famiglie in uno stato di indigenza. Oppure tentare la traversata del Mediterraneo rischiando la vita. Avevano optato per quest’ultima strada solo perché nessuna alternativa legale era percorribile.
La loro non è una condizione isolata o insolita. A chi non ha documenti va anche peggio. E quando si scappa da un regime è facile che i documenti per l’espatrio non vengano rilasciati, così come quando si fugge da un bombardamento si corre e basta senza pensare ad altro, documenti compresi. Le vie legali che portano un richiedente asilo in Europa sono pressoché inesistenti ma questo è un dato che si preferisce non considerare. E oggi appare più semplice parlare indistintamente di «clandestini».

Accogliere i rifugiati non è una questione tra buoni e cattivi

Il dibattito sui rifugiati si lega inevitabilmente a quello sugli immigrati, specialmente se irregolari. C’è chi con fierezza rivendica il diritto di rimandare tutti indietro, a prescindere dalla condizione individuale, mentre altri ritengono che bisogna accogliere i rifugiati in nome della carità (cristiana), perché si tratta di «povera gente che deve essere aiutata». Pochissimi affrontano l’argomento come una questione di diritto nazionale, comunitario e internazionale.
Se è vero che la solidarietà è un sentimento nobile che va coltivato, è altrettanto vero che non bisogna dimenticare un dato essenziale, cioè che richiedenti asilo e rifugiati sono portatori di diritti e in quanto tali devono essere trattati. Quindi la questione si risolve tra due possibilità: rispettare la normativa nazionale e internazionale o violarla.
Oltre alla Convenzione di Ginevra, che è uno strumento firmato da 144 Stati incluso l’Italia, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani all’art. 14 stabilisce che «ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni». A livello nazionale le cose sono altrettanto chiare e la Costituzione italiana all’art. 10 prevede che «lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Nonostante l’Italia non abbia una legislazione organica sull’asilo, la materia negli anni è stata comunque regolata nell’ambito di leggi sull’immigrazione – la legge Martelli (1990), la Turco-Napolitano (1998) e la Bossi-Fini (2002) – così come da decreti che hanno recepito le quattro direttive europee riguardanti le tutele che gli Stati membri devono adottare per richiedenti asilo e rifugiati. Eppure, sottolineare il nesso che lega l’accoglienza del rifugiato al rispetto degli obblighi giuridici non fa breccia tra chi vuole rimandare tutti a casa, né tra chi è ben disposto a vedere le ragioni dell’altro. Come se la condizione di persone provenienti da altri contesti fosse slegata dal diritto e riguardasse esclusivamente la sfera morale. Come se insomma la questione si giocasse tra buoni e cattivi.

L’asilo nell’Unione Europea: dalle stelle alle stalle

Se c’è una materia in cui tra gli Stati dell’Unione Europea vi è grande differenza, questa è sicuramente l’asilo. Chiaramente la mancanza di omogeneità crea delle disfunzioni all’interno del sistema europeo. E sono proprio i rifugiati a farne le spese.
Tra gli Stati dell’Unione è cresciuta negli anni la consapevolezza che il diritto d’asilo, così come l’immigrazione, sono questioni che richiedono risposte uniformi sulla base di un’armonizzazione delle politiche e delle normative dei singoli Stati membri. A oggi, però, questo processo sembra avanzare molto lentamente. In pochi sono disposti a cedere parte della propria sovranità su questa materia e a investire sufficienti risorse. Intanto il pacchetto normativo formulato dall’Unione – quattro direttive e un regolamento – che si basa sulla presunta omogeneità, stabilisce standard minimi e criteri da applicare da parte di tutti gli Stati. Ma, inserito nei contesti nazionali, tale pacchetto perde la propria identità e si adatta alle diverse situazioni. Come sempre accade, è attraverso l’attuazione che emergono le criticità e i limiti dei provvedimenti.
Circa tre anni fa, durante una visita nel centro di accoglienza per richiedenti asilo di Crotone, avevo notato una giovane donna somala con quattro figli bellissimi. Come molti altri, Zhara era giunta a Lampedusa su un gommone e da lì era stata trasferita a Crotone. Era in attesa dell’audizione e – mi dissero gli operatori del centro – nonostante tutti si fossero già adoperati, non si riusciva a trovarle una sistemazione per quando avrebbe dovuto lasciare Crotone. Mi raccomandai di prendere tempo e sollecitai gli o...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 1. L’universo dei rifugiati
  6. 2. Che ne sarebbe stato di Sayed?
  7. 3. L’Adriatico
  8. 4. Lampedusa, Mediterraneo
  9. 5. Notizie dal mare
  10. 6. Dietrofront
  11. 7. L’altra paura
  12. 8. Respinti al mittente
  13. 9. Noi tra due fuochi
  14. 10. In Italia non accadrà mai
  15. 11. L’Italia che c’è ma non si vede
  16. Appendice
  17. Ringraziamenti
  18. Indice