Controstoria della Liberazione
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Controstoria della Liberazione

Le stragi e i crimini dimenticati degli Alleati nell'Italia del Sud

  1. 350 pagine
  2. Italian
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Controstoria della Liberazione

Le stragi e i crimini dimenticati degli Alleati nell'Italia del Sud

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Bombardamenti a tappeto e massacri di civili, stupri e detenzioni durissime, collusioni con la mafia e affari illeciti. In una serrata inchiesta che svela il volto meno glorioso della guerra di Liberazione, Gigi Di Fiore denuncia la lunga serie di violenze e soprusi commessi dagli Alleati nel Mezzogiorno durante la difficile risalita della penisola. Attingendo a testimonianze di sopravvissuti e documenti inediti, l'autore mette in luce le contraddizioni dei resoconti oleografici più o meno ufficiali, evidenzia i punti oscuri di episodi cruciali come gli eccessi nei bombardamenti, e indaga sui silenzi che coprono avvenimenti drammatici come gli stupri di massa del contingente francese in Ciociaria. La sua ricostruzione di vicende scomode e troppo a lungo taciute mostra come il malgoverno degli Alleati aggravò il divario storico tra Nord e Sud del Paese e ci obbliga a ripensare squilibri e fallimenti dell'Italia di oggi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858644430
Argomento
Storia

1
Quei mafiosi antinazisti

La condotta degli Alleati prima e dopo l’occupazione costituì un fattore di primaria importanza per la ripresa nell’isola dell’attività mafiosa… L’azione degli Alleati servì almeno in parte a ridare forza alla mafia, a restituirla, con nuove energie, alla sua funzione di guardia armata del feudo, a creare infine le premesse di quel collegamento tra mafia e banditismo che avrebbe insanguinato per anni le pacifiche contrade dell’isola.
Relazione finale del senatore Luigi Carraro,
Commissione antimafia VI legislatura, 1976
’Nu carusu. Sì, da picciriddu era stato un carusu come tanti, che raccoglieva zolfo nelle viscere della terra e lo trasportava a fatica sulle spalle. Si insozzava i polmoni di fumo e terra, maturando voglia di riscatto e fuga. Salvatore Lucania pensava spesso a quegli anni di inizio Novecento.1 Anche quando venne rinchiuso in carcere, a scontare la lunga condanna a trent’anni per sfruttamento della prostituzione. Ne aveva fatta di strada, dall’arrivo a New York con la sua famiglia. Erano tra i numerosi emigranti dall’Italia, partiti in sei dal porto di Palermo nell’estate del 1905: mamma Rosa, le due sorelle e i tre figli maschi compreso lui, Salvatore, di appena sette anni. Con sé aveva soltanto un fagotto di stracci puzzolenti, un tascapane e un coltello a serramanico.2 Almeno nei primi mesi trascorsi in America, i suoi fratelli avevano scelto lavori onesti: uno faceva il sarto, l’altro il barbiere. Sgobbavano, e anche tanto, facendo i conti con l’ostilità diffusa verso tutti gli italiani in arrivo negli Stati Uniti. Lui invece mal sopportava i sacrifici e scalpitava. A undici anni cominciò a lavorare nel reparto spedizioni di una fabbrica di cappelli a New York, per cinque dollari a settimana. Si licenziò quasi subito dopo una vincita di 244 dollari ai dadi.3 Preferiva le scorciatoie, gioco d’azzardo o lavoretti illegali, che sudare con un’attività onesta. Per questo, Salvatore cercò di dimostrare subito le sue qualità di ragazzo sveglio e si inserì con facilità nel traffico di eroina, prestandosi a trasportare le dosi nascoste nelle cappelliere fino ai luoghi prestabiliti. Ripeteva: «Non sono mai stato un fesso, e se fossi costretto a esserlo, preferirei morire».4 La sua rapida ascesa all’interno delle famiglie della mafia americana non fu casuale.
Molti capi mafiosi si erano trasferiti negli Stati Uniti per sfuggire alla dura repressione del prefetto Cesare Mori su incarico del Duce. Nel 1931, proprio Mori scrisse: «La mafia dominava e controllava l’intera vita della società; aveva capi e seguaci; emanava ordini e decreti; si ficcava in ogni ordine di affari. I suoi comandi avevano valore di legge e la sua protezione era una protezione legale, più efficace e sicura di quella che lo Stato offre ai suoi cittadini».5
Mori godeva della fiducia di Mussolini che gli aveva delegato poteri speciali. Si mise d’impegno: usò il pugno di ferro, avvalendosi anche di un esercito di soldati e poliziotti sbarcati con lui sull’isola. Agli arrestati non venivano concesse garanzie difensive nelle istruttorie e nei processi, vincoli e sospetti verso chi era in odore di mafia divennero esasperati. Così per tanti capibastone la fuga fu una scelta obbligata per rimanere in libertà e coltivare i propri affari illeciti. L’esodo oltreoceano avvenne senza vincoli fino al 1924, quando entrò in vigore il National Origin Act per arginare l’immigrazione sregolata dall’Italia che rischiava di diventare un problema ingestibile. Tuttavia, come in ogni epoca, alle leggi si trovano subito rimedi e inganni: per evitare di essere respinti alla frontiera i mafiosi si fingevano perseguitati politici del fascismo. La maggioranza scelse come approdo New York, tappa principale dei piroscafi provenienti dall’Italia.6
Vi si diresse anche Joseph Bonanno, originario di Castellammare del Golfo come molti mafiosi di quegli anni, che si era fatto le ossa tra le cosche della Sicilia occidentale. Intuì molto presto le allettanti opportunità di business illeciti offerte dalle leggi sul proibizionismo: il commercio illegale di liquori e alcol. Così Bonanno raccontò quell’esperienza: «Quando iniziai il contrabbando di alcolici, mi sembrava troppo bello per essere vero. Non ci vedevo nulla di sbagliato e i profitti erano davvero enormi».7
Produrre un barile di birra costava meno di cinque dollari, ma ne rendeva ben trentasei alla vendita in uno spaccio clandestino. Per non parlare del whisky e di altri liquori, che fruttavano enormi quantità di biglietti da cento dollari. Tutto esentasse e non dichiarato allo Stato. Malgrado la concorrenza degli irlandesi e dei gangster ebrei, i mafiosi riuscirono a prendere il sopravvento. Il gruppo meglio organizzato divenne quello di Giuseppe Joe Masseria, che al contrabbando di alcolici associò il controllo del gioco d’azzardo e della prostituzione. Per sbarazzarsi dei concorrenti, Masseria usò metodi spicci commissionando non meno di una trentina di omicidi a un gruppo di giovani killer svegli e desiderosi di rapidi guadagni. Tra quei ragazzi c’erano il calabrese Francesco Castiglia, Gaetano Lucchese e Salvatore Lucania. Nel loro ambiente era diffusa l’abitudine di cambiare i nomi d’origine nel tentativo di celare la loro provenienza: Castiglia divenne Frank Costello; Lucchese raggiunse notorietà criminale con il nome di Tommy «Tre dita» Brown perché gli mancavano due dita a una mano. Per Lucania, fu coniato il nomignolo di Lucky, cioè fortunato, dopo un episodio drammatico che il protagonista si compiaceva di raccontare ai suoi amici più stretti. Vera o infondata che fosse, la storia era questa: Luciano era finito nelle grinfie di una banda rivale nel traffico di eroina e nel contrabbando di alcolici, che lo rapì e lo torturò, con pugni e coltelli. Lui non rivelò alcun segreto e si tenne per sé l’indicazione del luogo in cui era nascosta una costosa partita di eroina. Lo lasciarono a terra, in una pozza di sangue, credendolo morto. Miracolosamente si salvò, nonostante il suo corpo fosse ridotto a pezzi. Da allora, Lucania divenne per tutti un uomo fortunato: Lucky Luciano, appunto.8
Sempre da Castellammare del Golfo arrivò anche Salvatore Maranzano. Poco più che quarantenne, preceduto dalla considerazione e dal rispetto conquistati in Sicilia, fu il primo a pensare di impiantare distillerie di whisky in Pennsylvania. Era una specie di produzione in proprio a gestione mafiosa, che aveva collocazione e vendita assicurate nei locali. I profitti aumentarono e Joe Bonanno, con i suoi giovani killer, si mise al servizio di Maranzano, diventandone il braccio destro. La protezione violenta dei camion con i liquori nel tragitto fino ai locali divenne una scuola di mafia anche per l’allora giovanissimo Lucky.
«Quando prendi di mira un uomo, ti trema la mano, sbatti le palpebre, il cuore palpita, la mente interferisce» era l’ammonimento di Maranzano ai suoi killer, che venivano istruiti in questo modo: «Se è possibile, devi sempre toccare il cadavere con la pistola per assicurarti che l’uomo sia morto. Gli uomini sono animali difficili da uccidere. Chi se la cava, tornerà per ammazzare te».9
Nel 1926, Luciano aveva ventinove anni, e già pensava più in grande del suo capo Joe Masseria. Era convinto dell’utilità di intraprendere attività alternative, oltre l’alcol e il protezionismo. Bisognava allargare il commercio illegale in più Paesi, ripeteva. Così, spostò i suoi interessi nel controllo del racket del porto, nei sindacati, nel gioco d’azzardo e nella prostituzione. Era l’uomo emergente nella mafia italoamericana e ne rappresentava il futuro prossimo, mentre Joe Masseria restava il passato da superare. E fu proprio Lucky a organizzare l’agguato al vecchio boss, diventato un intralcio per le sue ambizioni: con il pretesto di un «incontro di affari», lo attirò nel ristorante Scarpato’s. Dopo aver corrotto le sue guardie del corpo, fece entrare in azione i propri killer. Solo qualche istante prima, Luciano si era allontanato con la scusa di dover «andare al cesso», come dichiarò ai poliziotti. Masseria fu crivellato di colpi il 15 aprile 1931.10
Dopo l’eliminazione di Masseria, il capo era formalmente Maranzano, ma di fatto il boss dei boss era diventato Luciano. Lo si comprese meglio quando, di lì a poco, anche Maranzano fu ucciso: Lucky era ormai al comando della mafia siciliana a New York insieme a Lucchese11 e perfezionò il suo piccolo capolavoro di politica criminale promuovendo la grande alleanza tra le cinque principali famiglie della città. L’accordo fu definito nei dettagli durante una riunione cui parteciparono Joe Bonanno, lo stesso Lucky Luciano, Gaetano Gagliano, Vincent Mangano e Joe Profaci, che allargarono quell’intesa anche ad Al Capone di Chicago. Ne derivò la creazione di una Commissione suprema, un organismo di guida, riconosciuto da tutte le famiglie, sulle attività di Cosa Nostra. Un’idea, partorita da Luciano, che sarebbe stata ripresa anni dopo anche dai corleonesi in Sicilia. La Commissione divenne il tribunale inappellabile delle cosche di tutti gli Stati Uniti, di cui facevano parte i capi delle famiglie di New York, Chicago e Boston. Doveva garantire la pace mafiosa, prevenendo e ricucendo eventuali contrasti sulla gestione degli affari criminali. Così la spiegò Luciano: «Eravamo un’impresa e dovevamo smetterla di farci guerra».12
Dal 1931, all’apice del suo potere, la fama di Lucky aumentò in maniera vertiginosa anche per la sua capacità di gestire in posizione di forza i rapporti con politici e sindacalisti. Con l’abolizione del proibizionismo, Luciano estese i suoi interessi nelle ditte di abbigliamento, nei trasporti, nelle lavanderie e in alcune fabbriche di formaggi, mettendosi in società con Bonanno. Riuscì in quel modo a riciclare capitali sporchi in più attività, destinate a diventare alternative valide alla vendita dei liquori. Ulteriori introiti provenivano dalle estorsioni ai ristoranti e dal controllo sul lotto clandestino, oltre che dai commerci portuali. In quasi tutti gli ambienti statunitensi si avvertiva con chiarezza il peso dell’influenza mafiosa.
La vera forza di Lucky rimase per anni la capacità di mimetizzare il suo ascendente criminale e la sua azione sociale. Era poco noto, le cronache non si occupavano molto di lui e tra i boss il suo nome restava sempre nell’ombra. Lo aiutava anche il fatto di essere stato in carcere solo da adolescente, con una condanna a sei mesi nel giugno del 1916 per possesso illegale di droga.13 Agendo dietro le quinte, riusciva con abilità a intrecciare relazioni con i politici. Lo dimostrò partecipando alla Convenzione dei democratici a Chicago nel 1932, con il suo grande amico Albert Marinelli, soprannominato «Zio Al», un italiano, segretario comunale in un distretto a New York.14
Tutto sembrava andare per il meglio, ma il giudice Thomas Dewey e la sua squadra di ispettori cominciarono a occuparsi anche di Lucky Luciano nel corso di una non facile inchiesta sulle famiglie mafiose. La vita del potente boss fu passata al setaccio: insospettivano le sue abitudini dispendiose e l’amore per il lusso e lo sfarzo che non nascondeva. Possedeva un aereo privato, auto costose, vestiva sempre con eleganti abiti firmati, organizzava feste e occupava tutto l’anno una suite di tre camere, la 36C, al Waldorf-Astoria Hotel. Una consuetudine che gli costava la consistente somma di 7600 dollari. Dove si procurava quel denaro?
Dewey venne nominato pubblico ministero nelle indagini sul giro di lotterie clandestine a New York. Inevitabilmente, incappò nelle attività di Luciano e indagò anche nell’ambiente che sarebbe diventato il nervo scoperto del boss: il controllo del giro di prostituzione. Dopo un’irruzione della polizia in otto bordelli newyorkesi, alcune prostitute cominciarono a indicare alcuni nomi. Tre di loro, forse pagate dalla polizia per fare rivelazioni, si lasciarono andare ad accuse anche contro Lucky. A causa di quelle indagini e delle sorprendenti accuse a suo carico, il boss fu messo sotto processo. Era il 1936, con Lucky furono giudicati altri dodici imputati. Dewey esibì le dichiarazioni dei redditi di Luciano dal 1929 al 1935: vi comparivano guadagni di appena 22.500 dollari all’anno. Un po’ poco per sostenere una vita tanto dispendiosa.
Alla fine, arrivò la condanna. L’uomo fortunato, lo stratega della mafia italoamericana finì nel penitenziario Clinton, un carcere di massima sicurezza a Dannemora nello Stato di New York. Gli fu assegnato un incarico nella lavanderia della prigione, ma era un ricco boss dei boss e i detenuti lo rispettavano. Così, riuscì a far valere i propri privilegi anche dietro le sbarre: lo sostituivano nei lavori interni al penitenziario e Davie Berillo, suo coimputato al processo, divenne il suo cuoco e cameriere personale. Le guardie carcerarie chiudevano gli occhi su quelle anomalie, evitando di impicciarsi per non avere problemi. Lucky passava le giornate giocando a carte, o a passeggio nel cortile del carcere dove riceveva istanze e lamentele dagli altri detenuti. Era un vero capo anche in galera.
«Era come se fosse lui a governare quel posto, stava in cortile come se fosse lui il direttore del carcere» commentò una guardia penitenziaria.15 Proprio il grande potere del boss accumulato negli anni, la sua capacità di stringere legami in più ambienti e di contare anche in Sicilia divennero insoliti valori aggiunti a partire dal 1941. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’intelligence della Marina militare si ricordò del boss in galera da cinque anni e Lucky insieme con molti criminali incarcerati fu reclutato per il trionfo della causa della patria americana. Fra tutti, il più importante interlocutore mafioso dei militari era Luciano. All’epoca dell’attacco a Pearl Harbor,16 il capo dei capi aveva da poco compiuto quarantaquattro anni.

I generali in fila dai boss

Era l’alba del 12 maggio 1942. La guerra era iniziata da dodici mesi e Luciano si trovava nella sua prigione dorata ormai da sei anni. Lo svegliarono di colpo e già questo lo indispose, gli dissero che doveva essere trasferito in un altro penitenziario per motivi burocratici. Dopo poche ore, si trovava in una nuova cella, nel carcere di Great Meadow a Comstock, distante un centinaio di chilometri da Albany. Per il boss si aprirono le porte di una nuova vita: la rinascita attraverso un colpo di spugna sui suoi crimini dopo un’anomala collaborazione con la Marina militare nella guerra in corso. Lucky Luciano fu trasformato di colpo in un «patriota» e il suo impegno nel conflitto mondiale sarebbe stato descritto nel rapporto firmato tredici anni dopo dal commissario investigativo dello Stato di New York, William Herlands. Un documento ripreso dalla stampa e che il giornalista americano Rodney Campbell utilizzò come fonte principale per le sue numerose pubblicazioni sull’argomento.17
I vertici della Marina statunitense erano molto preoccupati: dal 7 dicembre 1941 al 28 febbraio 1942, i sottomarini tedeschi avevano attaccato e affondato ben settantuno mercantili al largo della costa atlantica. Di certo quelle azioni militari erano frutto di soffiate, informazioni di spie che riuscivano ad allertare il nemico sulle partenze dal porto di New York. Fu deciso di controbattere con le stesse armi e venne attivato l’Office of Naval Intelligence (Oni), il servizio segreto della Marina, il cui distaccamento di New York era guidata dal capitano Roscoe McFall, allora quarantunenne e già veterano di guerra.18 Ricevette una richiesta inequivocabile firmata dal contrammiraglio Arthur Train, responsabile dell’Oni, in persona: garantire con ogni mezzo la sicurezza alle navi mercantili in partenza dal porto di New York. E quell’inciso, «con ogni mezzo», messo in bella mostra lasciava il campo libero a ogni interpretazione operativa. Ricorderà McFall, qualche anno dopo: «C’era necessità di raccogliere notizie sugli agenti nemici sbarcati sulla costa, ma anche su eventuali sabotaggi attuati da gente che lavorava nel porto, come scaricatori, stivatori e altri operai. Un obiettivo che poteva essere conseguito solo di nascosto».19
Della squadra di McFall, battezzata con la sigla B-3, facevano parte il comandante Charles Radcliffe Haffenden, il tenente Anthony Marzullo, avvocato ed ex collaboratore del governatore di New York, ma anche Thomas Dewey, che aveva fatto processare e condannare Lucky Luciano. McFall ammise: «Potevamo ricorrere anche ad informatori legati alla criminalità. Era un rischio calcolato di cui mi assunsi la responsabilità». E Marzullo specificò ancora meglio: «Lo spionaggio non è attività di polizia. Il suo scopo è prevenire e per farlo bisogna disporre di un sistema che deve comprendere ogni mezzo che possa ostacolare il nemico. Qualunque mezzo, anche far ricorso all’aiuto del mondo del crimine».20
La situazione precipitò e all’Office of Naval Intelligence fu messa fretta, soprattutto quando il 9 febbraio 1942 venne affondata anche la nave Normandie nel molo del fiume Hudson. Un mese dopo, McFall e Haffenden incontrarono il procuratore distrettuale di Manhattan, Frank Hogan, per raccogliere informazioni sui boss mafiosi e sulle loro attività. All’Oni vennero consegnati decine di dossier sulle famiglie di Cosa Nostra e dalle notizie si passò presto all’azione: il 26 marzo, Haffenden invitò nella sua suite all’Astor Hotel uno degli uomini più in vista di Cosa Nostra ancora in libertà: Joey Socks (che sta per «calzini») Lanza, luogotenente di Luciano e grande controllore del mercato del pesce di Fulton e della United Seafood Workers Union, il sindacato dei commercianti ittici. Fu il primo contatto con i mafiosi. Gli fu subito chiesta la disponibilità a collaborare per dare un nome ai sabotatori e alle spie in attività nel porto di New York.
Da solo, Lanza non disponeva di tanto potere. Non poteva assumersi la responsabilità di una decisione tanto importante: per aprire porte e portoni in qualsiasi ambiente illegale era necessaria la copertura dichiarata del nome di Lucky Luciano. Bisognava parlare anche con lui, nonostante fosse rinchiuso in carcere, e assicurarsi di convincerlo: per questo fu interpellato l’avvocato Moses Polakoff, ebreo e dife...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Introduzione. Un’altra storia del Sud
  5. 1 Quei mafiosi antinazisti
  6. 2 Fucilateli senza pietà
  7. 3 Prigionieri degli Alleati
  8. 4 Un regno tra Brindisi e Salerno
  9. 5 Cobelligeranti di serie B
  10. 6 Bombe amiche
  11. 7 Donne come prede
  12. 8 La pelle di Napoli
  13. Appendici. Cronologia degli avvenimenti
  14. I sei governi dell’ordinamento provvisorio
  15. Note
  16. Fonti
  17. Indice