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Dal Mayflower alla rivoluzione
Voci originarie, voci di esplorazione, relazioni di viaggio
I primi abitanti dell’America furono popolazioni nomadi originarie dell’Asia che si dispersero rapidamente sul continente quando ancora Asia e Nordamerica erano uniti da una striscia di terraferma. La loro voce è stata per troppo tempo trascurata, colpevolmente ignorata o cancellata con la violenza, o ancora soffocata nelle anguste riserve della stereotipizzazione. Eppure, sebbene parte di tale eredità sia andata perduta «nel vento» delle culture orali, con sempre maggiore evidenza si rivela nelle sue tracce e nei suoi echi una voce importante che parla nell’oggi, fortemente radicata nel linguaggio, nelle sue componenti magico-rituali ed espressive, nel legame di identità con il paesaggio del Nuovo Mondo.
Sfumati nei loro riverberi mitologici, tali segni sono informati a una visione potente, per evitare che le parole dei padri, quella lingua che parla all’origine dei tempi, si riducano al silenzio, per impedire che scompaia un patrimonio inestimabile. Certe leggende vivono da centinaia e centinaia di anni e, come scrivono Richard Erdoes e Alfonso Ortiz nell’introduzione alloro American Indian Myths and Legends (1984),
nascono dalla terra – le piante, le erbe e gli animali che sono parte integrante del regno umano. Sono incastonate nelle antiche lingue e fluiscono secondo i ritmi del mondo naturale.
Proprio la loro flebile ma tenace consistenza orale, unita all’estrema varietà di forme e all’irriducibilità a certe categorizzazioni logico-temporali del pensiero occidentale, ne ha consentito la sopravvivenza.
Lo storytelling, il canto, e la poesia dei popoli nativi non sono solo espressioni di intrattenimento o racconti edificanti, attività rituali o manifestazioni che comprovano l’arte del narrare, ma sono in primo luogo realtà vissute profondamente: il racconto crea un’aura di sacralità, legittima la verità del narratore. Le cosmogonie, i racconti di fatti quotidiani o di eventi straordinari, le storie dei tricksters (animali come il coyote, il corvo, il coniglio) e degli oggetti «animati» del mondo (sassi, macigni, ruscelli, cascate), le profezie, insieme con le sporadiche iscrizioni, l’artigianato e certe sibilline tracce di templi e rovine di pueblos, costituiscono il patrimonio degli indiani d’America, una cultura che sottoscrive il potere della parola e che segnala senza dubbio alcuno l’irruzione di quanto non può non essere incluso nella sfera del letterario.
Ci si muove oggi al recupero delle tracce di una cultura precolombiana che abbracci l’intero continente e che dia conto delle non poche analogie tra le civiltà dell’America Centrale e del Sud e i popoli di pellerossa del Nordamerica: i ritrovamenti archeologici che collegano gli Hokoham dell’Arizona alla cultura Maya, o certe pitture rupestri del Sud-Ovest così simili ai simboli solari aztechi, o taluni racconti rituali pieni di riferimenti alle conchiglie del mare annotati a migliaia di chilometri dall’oceano.
È nel segno della multiformità etnica, della varietà delle hyphenations possibili, che si intrecciano storie di tradizioni lontanissime tra loro, persino quella africana e quella indiana. Ma non è facile ricostruire una Storia quando manchi ancora una tradizione di studio, e di studiosi, capace di delinearla appieno, di coglierne l’essenza profonda – ad esempio, solo da poco tempo gli specialisti riscrivono le guerre tra bianchi e indiani incorporando le narrazioni mitologiche dei pellerossa dopo averle decostruite per coglierne i riferimenti, talvolta sorprendentemente precisi, ai fatti storici.
Prevale dunque ancora una prospettiva euro-centrica, secondo la quale, al di là della banale evidenza, l’America esisteva ben prima che i navigatori vichinghi la scoprissero, come accreditano testimonianze archeologiche ormai non confinate unicamente al campo delle ipotesi (basti pensare alle tracce degli insediamenti di Newfoundland, risalenti all’XI secolo), o che Cristoforo Colombo, come vuole la storiografia tradizionale, la intercettasse come incidente di percorso sulla sua personale «via delle Indie» (vera o falsa che sia la leggenda dello sconosciuto pilota che lo avrebbe preceduto sulle spiagge del Nuovo Mondo).
«Las Indias» erano parte integrante dell’immaginario di un’Europa, medievale poi rinascimentale, che aveva di tanto in tanto investito le proprie energie simboliche sull’annuncio profetico di una quarta parte del mondo, che avrebbe completato la rigida tripartizione allora conosciuta, con Gerusalemme al suo centro secondo il dettato biblico, e testimoniata dalla cartografia congetturale delle mappae mundi. (Quale sintomo di una tale cultura geografica, capace di spostare qualsiasi cosa in qualsiasi luogo, dove ve ne fosse il bisogno, si sarebbe conservato il calco ossimorico del termine «Indie occidentali, per indicare l’arcipelago incontrato da Colombo sulla propria rotta.)
Sia che si trattasse del favoloso regno cristiano di Prete Gianni, collocato in qualche luogo dell’Asia estrema (un mito pre-moderno capillarmente diffuso in Europa a partire dalla metà del XII secolo), sia che corrispondesse a quel Paradiso terrestre che la tradizione celtica poneva nell’Occidente estremo (l’isola in mezzo all’Atlantico del ciclo irlandese di San Brandano, così come del Purgatorio dantesco), la nuova terra si configurava come ambita promessa e scoperta annunciata insieme.
Di Isole Felici, Giardini delle Esperidi, Paesi di Cuccagna, e Meraviglie dell’India era ricca la cultura medievale, popolare e carnevalesca; tuttavia sul Nuovo Mondo parevano appuntarsi soprattutto le residue speranze di popolazioni europee in condizioni di grave precarietà e indigenza: l’America esisteva dunque già utopicamente come luogo umano, come disposizione mentale, e come realtà spirituale prima che geo-grafica e materiale, al punto che la prevalenza dell’atto simbolico della scoperta rende plausibile il fatto che si sia potuto parlare, come ha fatto Edmundo O’Gorman, di «invenzione» dell’America (The Invention of America, 1961). Agli occhi di un’Europa dilaniata da conflitti imperniati su questioni territoriali, l’America che iniziava a trapelare dal racconto dei suoi visitatori doveva configurarsi come metafisica della libertà in virtù della metafora spaziale di «land of opportunity», in seguito confermata dalla realtà spaziale di continente vertiginosamente immenso, aperto a ogni emigrazione. Come ha scritto Tzvetan Todorov (La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, 1982), la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo – identificato da Amerigo Vespucci e ufficialmente accreditato come «America» per la prima volta nel 1507 dal geografo tedesco Martin Waldseemüller sulla sua carta del mondo – annunciano e fondano la nostra identità presente, divenendo storia e racconto esemplare del rapporto con l’Altro e dell’accesso dell’Europa alla modernità.
Una delle chiavi principali e curiosamente ricorrenti nelle scritture dei viaggiatori che si avventurano nel Nuovo Mondo è, al di là dell’artificio retorico innescato (vuoi l’iperbole, vuoi l’uso del dettaglio o qualche altra figura ancora), la qualità «inesprimibile» della loro vita percettiva (soprattutto visuale), sociale e spirituale al di là dell’Atlantico. È un dettaglio presente così nelle parole di Colombo, come in quelle di Cortès di fronte all’apparizione numinosa della residenza di Montezuma.
Il wonder, la meraviglia, un’incerta alchimia tra il poetico e il filosofico, è spesso usato come termine per concettualizzare il continente e tutto quanto vi si può percepire. Riverberano echi di sublime estetico, di metafisici ideali pastorali e arcadiani del Rinascimento, ma nel contempo si chiarisce il distacco dagli stessi, anche perché non è tanto la curiosità geografica, guanto piuttosto la prosaica ricerca della ricchezza, dell’oro – il sogno delirante dell’Eldorado o delle Sette Città d’Oro di Cibola –, dei profitti potenziali, a spingere gli avventurosi nelle braccia della wilderness del continente americano.
Parallelamente acquistano sempre più risonanza i resoconti di tali viaggi: del 1555 sono le Decades of the New World di Richard Eden, imperniate sulle imprese dei navigatori spagnoli, volume cui tuttavia ruberà presto la scena Principall Navigations, Voyages, Traffiques, and Discoveries of the English Nation (1589) di Richard Hakluyt (c. 1552-1616), summa delle relazioni di viaggi effettuati sotto l’egida di Sir Walter Raleigh e condotti da navigatori del calibro di Sir Humphrey Gilbert, Philip Amadas, Arthur Barlowe, Sir Richard Granville. Nella raccolta finì anche A Brief and True Report of the New-Found-Land of Virginia, già pubblicato l’anno precedente dal matematico e geografo Thomas Harriot (1560-1621), scampato al misterioso destino dei compagni della colonia di Roanoke, un’isola del North Carolina, spariti senza lasciar traccia e mai più ritrovati dalle spedizioni successive.
Grande compilatore a tavolino di viaggi altrui, Hakluyt aveva già pubblicato Divers Voyages Touching the Discovery of America (1582), dedicato a Sir Philip Sidney, e A Notable Historie Containing Four Voyages Made by Certain French Captaynes into Florida (1587). La sua opera sarebbe poi stata continuata da Samuel Purchas (c. 1575-1626) con Hakluytus Posthumus; or, Purchas His Pilgrimes (1625), ovvero una «storia del mondo in viaggi per mare e per terra di inglesi e di altri», come reciterebbe il lunghissimo titolo.
Era stato Giacomo I d’Inghilterra nel 1606 a concedere sotto il proprio alto patronato che due compagnie di «cavalieri, gentiluomini, mercanti e altri avventurieri» organizzassero spedizioni allo scopo di fondare insediamenti sui territori britannici del Nordamerica. Nel 1607, sulle terre della Virginia già intitolate alla «Virgin Queen» Elisabetta I venne dunque fondata Jamestown, prima colonia permanente inglese sul suolo americano.
A causa dello scarso discernimento delle particolari condizioni ambientali (l’insediamento prese forma su terreni paludosi e insalubri), della propria incuria (i coloni non costruirono abitazioni degne di questo nome, né fortificazioni; né seppero approfittare delle risorse dell’oceano per l’approvvigionamento), e dell’irriducibilità al lavoro (non si preoccuparono di impiantare campi e organizzare i raccolti, preferendo andare alla ricerca di oro e nuove vie d’acqua «verso l’Oriente»), il centinaio di coloni fu decimato al primo inverno: oltre la metà non sopravvissero alle malattie, alla fame e alle frecce indiane.
La personalità di leader del «Capitano» John Smith, già soldato di ventura nelle guerre combattute in Francia, Paesi Bassi, Austria e Turchia, ebbe modo di emergere: nel 1608 fu nominato Presidente della colonia, e nel 1609, al ritorno in patria, si era ormai guadagnato il merito di aver salvato Jamestown e aver reimpostato la colonia su basi sufficientemente solide.
A lui si deve il primo libro in inglese scritto in America: una sua lettera a un amico fu stampata a Londra nel 1608 come A True Relation of Occurrences and Accidents in Virginia (come parecchi altri, anche questo titolo è una versione ridotta del frontespizio originale che nel caso specifico recava A True Relation of Such Occurrences and Accidents of Note as Hath Hapned at Virginia since the First Planting of That Colonie Which Is Now Resident in the South Part Thereof, Till the Last Return from hence).
Nel 1616, Smith si recò nuovamente in America, questa volta nel New England, alla guida di una poco fortunata spedizione mercantile esplicitamente a caccia di oro, pellicce, olio di balena, oltre che di informazioni cartografiche (a quei rilievi si devono le prime accurate carte nautiche della costa tra il Maine e Capo Cod). I suoi scritti successivi, A Description of New England (1616) e A General Historie of Virginia, New England, and the Summer Isles (1624), sono estremamente importanti per definire le intenzioni, il tenore e il tono di gran parte della letteratura in epoca coloniale. Si tratta di scritti apertamente propagandistici in cui esce confermato l’immaginario europeo dell’America come Eden arcadico e Utopia utilitaristica, luogo di abbondanza, libertà, piacere. Tale visione doveva ovviamente invogliare investitori e avventurieri a far vela verso un mondo che di presenza umana e di mano d’opera pareva avere un bisogno pressoché disperato: già nel 1609 il frontespizio di un volumetto stampato a Londra annunciava, invitante, «Nova Britannia. Offre i frutti più eccellenti a chi voglia avviare piantagioni in Virginia. Proposta allettante per chi si lasci invogliare perché la fama aumenti».
Negli scritti di Smith ha già assunto forma precisa quell’idea di America come società aperta in cui, senza ricorrere all’eredità del sangue o all’educazione formale, attraverso l’esperienza del proprio lavoro, è possibile godere di una vita felice, indipendente, prospera. Nella sua robusta prosa, prevalentemente in terza persona, si possono rintracciare gli archetipi di tanta fiction d’avventura, a partire dall’episodio, già presente nella True Relation, della prigionia forzata presso il capo indiano Powhatan, cui è strettamente legata la storia di Pocahontas, «The Indian Princess, or La Belle Sauvage» (titolo del soggetto teatrale che James Nelson Barker ne trasse nel 1808), come sostiene Leslie Fiedler «il primo simbolo degli Stati Uniti, in quanto rappresentava il selvaggio mondo western purificato dalla civiltà», una versione al femminile – forse una sorella, più probabilmente una madre – del Calibano-cannibale della Tempesta shakespeariana.
Con Smith si fa indissolubile il legame tra l’esperienza americana e la lingua inglese, là dove il dominio dell’Inghilterra era territorialmente piuttosto ridotto: la Corona inglese aveva accampato diritti sul Nordamerica sin dal 1497, quando Enrico VII aveva incaricato Giovanni Caboto di salpare alla ricerca di «regioni o province abitate da pagani e infedeli, di qualunque confessione comunque essi siano». Tuttavia non aveva saputo approfittare subito delle sue scoperte, ed era passato un secolo prima che Raleigh organizzasse le due spedizioni per la Virginia del 1584 e 1585, che pure fallirono l’insediamento di colonie permanenti.
Era piuttosto una cultura pluralistica ad aver luogo: ai tempi di Jamestown, Francia e Spagna avevano già colonizzato spazi amplissimi, magari anche a colpi di parole letterarie: il Canada, il Nordest e il Midwest erano sotto il controllo francese (soprattutto attraverso la rete delle comunicazioni per vie d’acqua impiantata dai cacciatori di pellicce), mentre gli spagnoli entro il secolo seguente avrebbero dominato i territori a ovest del Mississippi e a sud dell’Oregon country, la Florida e la zona a sud del Tennessee (St. Augustine, fondata dagli spagnoli nel 1565 proprio in Florida, è la cittadina «europea» degli Stati Uniti che vanta la maggiore longevità). Erano scesi in campo grandi viaggiatori-esploratori: Ponce de Leon, Hernando De Soto, Francisco de Coronado, poi Cabrillo, de Pinedo, Heceta per la Spagna; Giovanni da Verrazzano, La Vérendrye, Marquette, Jolliet, La Salle, Nicolet per la Francia; Francis Drake, Giovanni e Sebastiano Caboto, come detto, per l’Inghilterra; Henry Hudson per l’Olanda. Si era poi avuto il caso singolare di Alvar Nuñez Cabeza de Vaca (c. 1490-c. 1557), testimone con la Relaciòn (1542) del proprio vagabondaggio a piedi dalla Florida al Messico, un’avventura durata otto anni, dal 1528 al 1536, innescata dal disastroso naufragio della spedizione di...