I numeri magici di Fibonacci
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I numeri magici di Fibonacci

L'avventurosa scoperta che cambiò la storia della matematica

  1. 224 pagine
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I numeri magici di Fibonacci

L'avventurosa scoperta che cambiò la storia della matematica

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Tutti conoscono la "successione di Fibonacci": una sequenza di cifre nascosta in molti fenomeni naturali che da oltre ottocento anni affascina i matematici, e che si dice possa predire l'andamento dei mercati finanziari. Ma chi fu in realtà Fibonacci, considerato il maggiore matematico del Medioevo, che comprese per primo che le "nove figure indiane" e soprattutto zephirum, lo zero, avrebbero cambiato il mondo in cui viveva? In un affascinante viaggio che ripercorre la vita di questo genio intraprendente, Keith Devlin permette al lettore di riscoprire una figura cruciale e misteriosa del nostro passato, che con le sue ricerche e il suo Liber abbaci - il più importante testo di algebra del tempo che spiegava come adottare il sistema numerico indo-arabico - mostrò all'Europa i risvolti pratici e commerciali della matematica, e aprì così la strada all'ascesa del Vecchio continente verso il dominio scientifico ed economico mondiale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858644867

CAPITOLO 1

Un ponte di numeri

Liber abbaci si traduce come «Libro del calcolo»; la traduzione intuitiva «Libro dell’abaco» sarebbe scorretta e priva di senso, dato che l’opera di Leonardo mirava proprio a mostrare come fare aritmetica senza il bisogno di ricorrere a strumenti come l’abaco.A Questa distinzione si riflette nella grafia del termine usato da Leonardo, con due «b». Nell’Italia medievale, dal XIII secolo in poi, la parola latina abbacus veniva adoperata in riferimento al metodo di calcolo basato sul sistema numerico indo-arabico; la prima ricorrenza scritta a noi nota del termine – con questa grafia e questo significato – si ritrova, di fatto, nel prologo del libro di Leonardo. In seguito, il termine «abbaco» venne ampiamente usato per descrivere quella pratica di calcolo: un maestro d’abbaco, quindi, era una persona esperta di aritmetica. In effetti, questo significato di «abbaco» è ancora presente anche nell’italiano contemporaneo.B
In genere, gli autori medievali non davano un titolo alle loro opere. Il nome con cui oggi indichiamo il libro di Leonardo è tratto dalla frase con cui si apre il volume:
Qui comincia il libro del calcolo
composto da Leonardo Pisano, figlio di Bonacci,
nell’anno 1202.
In alcuni suoi scritti successivi, Leonardo si riferisce all’opera indicandola anche come Liber numerorum e, nella lettera dedicatoria per il suo libro Flos, la chiama Liber maior de numero. Nel capitolo 5 di un altro suo libro, De practica geometrie (scritto fra la pubblicazione delle due edizioni del Liber abbaci), usa di nuovo il titolo Liber abbaci: «Dato che all’inizio del presente trattato ho promesso di discutere di come si trovano le radici cubiche, un argomento a cui avevo dedicato particolare attenzione nel Liber abbaci, ho deciso di riscrivere qui il suddetto materiale».1 Oltre a comparire nella frase d’apertura, il termine abbaci (il genitivo latino di abbacus) ricorre in altri tre passi del volume: nel prologo, dove Leonardo racconta di come si era dedicato allo studium abbaci «per alcuni giorni» a Bugia; all’inizio del capitolo 12, dove dichiara che tratterà de quaestionibus abbaci; e verso la fine del libro, quando spiega di essere giunto alla sua determinazione numerica del valore approssimativo della radice quadrata di 743 secundum abbaci materiam.
In aggiunta alla confusione riguardante il titolo del libro, c’è incertezza anche su quale sia il nome corretto e completo dell’autore. In linea con le tradizioni dell’epoca, era probabilmente conosciuto come «Leonardo Pisano». All’inizio del Liber abbaci dichiara di essere filius Bonacci, «figlio di Bonacci»; tuttavia, dato che suo padre non si chiamava Bonacci, l’espressione andrebbe forse tradotta come «della famiglia Bonacci».2 In ogni caso, l’espressione latina filius Bonacci è all’origine del soprannome «Fibonacci», con cui Leonardo è oggi conosciuto, coniato dallo storico Guillaume Libri nel 1838. Un altro nome con cui talvolta Leonardo si riferiva a se stesso è «Bigollo», un termine dialettale toscano che veniva a volte usato per indicare un viaggiatore, ma questo significato potrebbe anche essere soltanto una coincidenza. (In alcuni antichi dialetti, il termine voleva dire anche «testa di legno»; dato però che Leonardo lo riferiva a se stesso, non lo intendeva certo in questo senso.)
Leonardo, come abbiamo detto, incontrò per la prima volta quel sistema numerico che lo avrebbe affascinato quando, forse non più che quindicenne, lasciò la sua casa a Pisa per seguire il padre a Bugia, una città dell’Africa settentrionale musulmana affacciata sul Mediterraneo. Qui venne in contatto con mercanti e studiosi di lingua araba che gli mostrarono un innovativo sistema per scrivere i numeri e fare i calcoli. Non erano stati loro a scoprirlo, dato che le sue origini erano molto più antiche e risalivano all’India; usandolo nei loro commerci, i mercanti arabi lo avevano comunque trasportato verso nord, lungo la Via della Seta, fino alle coste del Mediterraneo, insieme ad altri, più tangibili prodotti dell’Oriente, come spezie, seta, unguenti e tinture.
Gli uomini avevano già iniziato a contare migliaia di anni prima che venisse sviluppato il primo sistema numerico. Nelle prime forme di conteggio, risalenti ad almeno trentacinquemila anni fa, ci si limitava a incidere delle tacche su un legno o un osso: il più antico esempio conosciuto è costituito dall’osso di Lebombo, scoperto sui monti Lebombo (nello Swaziland) e datato intorno al 35.000 a.C., dove abbiamo ventinove tacche distinte deliberatamente intagliate in una fibula di babbuino. È stato ipotizzato che le donne si servissero di queste ossa – o pietre – incise per tenere il conto dei loro cicli mestruali, facendo da ventotto a trenta tacche seguite da un segno distintivo. In altri esemplari di ossa incise, scoperte in Africa e in Francia e datate fra il 35.000 e il 20.000 a.C., si potrebbero riconoscere dei primi tentativi di quantificare il tempo. L’osso di Ishango, ritrovato nei pressi delle sorgenti del Nilo (nel Congo nord-orientale) e risalente forse a ventimila anni fa, presenta una serie di tacche intagliate disposte su tre colonne, che corrono per l’intera lunghezza dell’osso; stando a una comune interpretazione, si trattava di un calendario lunare semestrale.
Servendoci delle tacche, possiamo fare un segno verticale per indicare ogni oggetto di un insieme:
Le tacche, però, diventano difficili da leggere quando dobbiamo contare più di quattro o cinque oggetti. Un modo comune per aggirare questo problema riducendo la complessità consiste nel raggruppare le tacche in gruppi di cinque, spesso tracciando una linea diagonale attraverso ogni singolo gruppo. Il sistema numerale romano, usato per tutta la durata dell’impero di Roma (e ancora oggi, in particolari circostanze), era una versione più sofisticata di questa semplice idea, con l’introduzione di qualche simbolo aggiuntivo: «V» per cinque, «X» per dieci, «L» per cinquanta, «C» per cento e «M» per mille. Per esempio, usando questo sistema il numero milleduecentosettantotto (1278) può essere scritto come MCCLXXVIII:
MCCLXXVIII =M + C + C + L + X + X + V + I + I + I
=1000 + 100 + 100 + 50 + 10 + 10 + 5 + 1 + 1 + 1
=1278
Nel sistema romano, l’addizione è piuttosto semplice, dato che non occorre fare altro che raggruppare tutti i simboli simili. Per esempio, per sommare MCCXXIII (1223) e MCXII (1112) basta raccogliere tutte le M, le C, le X e le I, così:
Può poi capitare di dover convertire un gruppo di lettere in un simbolo dal valore più alto: per esempio, le cinque I possono essere sostituite con una V, così che il risultato sarà MMCCCXXXV (2335). Anche la sottrazione è relativamente facile. L’unico modo possibile per eseguire una moltiplicazione, però, consiste nel fare ripetute addizioni (o sottrazioni, nel caso della divisione): per esempio, per calcolare V per MMCIII dobbiamo sommare MMCIII a se stesso per quattro volte. È quindi evidente che questo sistema risulta concretamente utilizzabile solo quando almeno uno dei due numeri da moltiplicare è piccolo.
L’impraticabilità del sistema romano nelle moltiplicazioni e nelle divisioni lo rendeva inadeguato per molte applicazioni di grande importanza nel commercio e negli scambi, come quando si trattava di convertire due valute o determinare una commissione per una transazione. Inoltre, i numeri romani non potevano in alcun modo offrire la base per una qualunque opera scientifica o tecnica. Le società che si servivano della numerazione romana ricorrevano a elaborati sistemi aritmetici in cui si effettuavano i calcoli utilizzando le dita o qualche strumento meccanico (diversi tipi di abaco); i numeri, di fatto, venivano usati soltanto per annotare i risultati. Anche se i sistemi di aritmetica basati sull’impiego delle dita potevano andare bene per i calcoli con numeri fino a 10.000, e anche se alcune persone diventavano talmente esperte nell’uso dell’abaco da essere in grado di eseguire i calcoli a una velocità quasi pari a quella che potrebbe oggi raggiungere un individuo munito di calcolatrice, questi metodi richiedevano comunque una notevole esperienza e destrezza; inoltre, dato che i passaggi del calcolo non venivano messi per iscritto, il risultato doveva essere accettato sulla fiducia.
Il sistema numerico che usiamo oggi, quello indo-arabico, è nato in India e sembra sia stato completato intorno al 700 d.C. I matematici indiani fecero diversi progressi nelle discipline che oggi identificheremmo con l’aritmetica, l’algebra e la geometria, anche se gran parte del loro lavoro era comunque motivato dall’interesse per l’astronomia. Il sistema si basa su tre idee chiave: le notazioni per le cifre, il valore posizionale e lo zero. La scelta di adoperare dieci simboli numerici di base – ossia, la scelta della base 10 per contare e fare aritmetica – è probabilmente una diretta conseguenza dell’abitudine di contare usando le dita. Quando arriviamo a dieci sulle dita, dobbiamo trovare un modo per ricominciare da capo senza perdere il conto. Tra l’altro, il ruolo giocato dal conteggio con le dita nello sviluppo dei primi sistemi numerici spiegherebbe l’uso, in inglese, del termine «digit» per indicare le dieci cifre: questa parola, infatti, deriva dal latino digitus, che significa, per l’appunto, «dito».C
Una tesi spesso ripetuta, anche se non dimostrata, per spiegare la scelta dei simboli con cui vengono rappresentate le cifre è che, se li tracciamo usando delle linee rette (una restrizione ragionevole, se pensiamo che a quei tempi gli uomini scrivevano su tavolette di creta usando uno stilo), il numero di angoli in ogni figura corrisponde al numero da essa rappresentato. Ciò, ovviamente, dipende dal modo in cui scriviamo ciascuna cifra. Ecco una rappresentazione in cui questa ipotesi si rivela corretta:
L’introduzione dello zero, che arrivò dopo le altre cifre, costituì un passo cruciale nello sviluppo dell’aritmetica indiana. Il vantaggio principale del sistema numerico indiano è che si tratta di un sistema posizionale: il valore di un numero si basa cioè sulla posizione occupata da ciascuna sua cifra. Ciò ci consente di addizionare, sottrarre, moltiplicare e anche dividere i numeri usando delle semplici regole, facili da apprendere, per manipolare i simboli. Tuttavia, per avere un sistema numerico posizionale efficiente dobbiamo essere in grado di mostrare quando una particolare posizione non è occupata da nulla. Per esempio, se non ci fosse un simbolo specifico per lo zero, l’espressione
13
potrebbe significare tredici, ma anche centotré (103), o centotrenta (130), o magari milletrenta (1030). Potremmo lasciare degli spazi tra le cifre per indicare che una particolare colonna è vuota; ma, a meno di non scrivere su una superficie suddivisa chiaramente in colonne, non potremmo mai sapere con sicurezza se un particolare spazio stia a denotare uno zero o se non si tratti invece soltanto della semplice distanza che separa due simboli. Con l’introduzione di un simbolo specifico per indicare uno spazio privo di valori, tutto diventa più semplice.
Lo sviluppo del concetto di zero richiese parecchio tempo. Dato che i simboli dei numeri erano visti come numeri essi stessi (come delle cose usate per contare il numero di oggetti in un insieme), 0 avrebbe dovuto essere il numero di oggetti in un insieme privo di membri – di oggetti –, il che non aveva senso. Altre società non furono mai in grado di arrivare all’introduzione dello zero. Per esempio, molto tempo prima che gli indiani sviluppassero il loro sistema, i babilonesi avevano messo a punto un sistema numerico posizionale sessagesimale, ossia a base 60. Le vestigia di questo loro sistema permangono nella nostra misurazione del tempo e degli angoli: 60 secondi equivalgono a un minuto, 60 minuti a un’ora, 60 minuti angolari corrispondono a un grado e 360 (= 6 × 60) gradi fanno un angolo giro, un cerchio completo. I babilonesi, però, non avevano un simbolo che denotasse lo zero, un limite che il loro sistema non riuscì mai a superare.
Gli indiani giunsero allo zero in due tappe. Dapprima, superarono il problema di denotare gli spazi vuoti nella notazione posizionale tracciando un cerchio attorno allo spazio che non conteneva valori (cosa a cui erano arrivati anche i babilonesi); da questo cerchio sarebbe nato l’odierno simbolo dello zero, 0. Il secondo passo fu quello di considerare quel simbolo aggiuntivo esattamente come gli altri nove, cosa che significava sviluppare delle regole per fare aritmetica usandolo assieme a tutti gli altri. Questo secondo passo – che comportò un cambiamento nella concezione fondamentale dell’aritmetica, secondo il quale le sue regole non operavano sui numeri stessi (da cui lo zero era escluso) bensì sui simboli dei numeri (che includevano lo zero) – fu la chiave di volta; col tempo, inoltre, esso avrebbe anche condotto a un cambiamento nella visione dei numeri stessi, fino alla maturazione di una loro concezione più astratta dove lo zero era incluso. La rivoluzione dello zero fu opera di un brillante matematico chiamato Brahmagupta.
Nato nel 598 nell’India nord-occidentale, Brahmagupta trascorse la maggior parte della sua vita a Bhillamala (l’odierna Bhinmal, nel Rajasthan). Nel 628, all’età di trent’anni, compose un poderoso trattato (in venticinque capitoli) intitolato Brahmasphuta Siddhanta (L’inizio dell’universo). In seguito, fu messo a capo dell’osservatorio astronomico di Ujjain, allora il più importante centro matematico dell’India, e nel 665, a sessantasette anni, scrisse un altro libro sulla matematica e l’astronomia, Khandakhadyaka.
Nel Brahmasphuta Siddhanta, Brahmagupta introdusse il numero zero descrivendolo come il risultato che otteniamo quando sottraiamo un numero da se stesso. Quindi precisò alcune proprietà elementari che lo zero deve avere; per esempio,
quando lo zero viene sommato a un numero o sottratto da un numero, tale numero rimane invariato; e un numero moltiplicato per zero diventa zero.
Enunciò le regole aritmetiche per maneggiare i numeri positivi e negativi (incluse le regole per lo zero) in termini di fortune (numeri positivi) e debiti (numeri negativi):
Un debito meno zero è un debito.
Una fortuna meno zero è una fortuna.
Zero meno zero è zero.
Un debito sottratto da zero è una fortuna.
Una fortuna sottratta da zero è un debito.
Il prodotto di zero moltiplicato per un debito o una fortuna è zero.
Nel mondo moderno i numeri sono presenti ovunque: fanno talmente parte della struttura della nostra vita quotidiana che finiamo per darli per scontati, senza renderci conto di quanto il sistema indo-arabico sia straordinario per scriverli e, in misura ancora maggiore, per usarli nei calcoli. Quando vediamo l’espressione «13.049», per esempio, la riconosciamo subito come il numero tredicimilaquarantanove. Ciò è notevole a parecchi livelli. Tanto per iniziare, è molto più semplice leggere l’espressione simbolica (e comprendere a che numero si riferisce) che non la descrizione in parole; per qualche motivo, ci sembra che la versione simbolica sia il numero, mentre l’espressione in parole sia soltanto una sua descrizione. E non si tratta soltanto di una nostra percezione: in anni recenti, gli psicologi sperimentali, usando tecniche di laboratorio e studi su individui che avevano riportato lesioni al cervello tali da distruggere le capacità numeriche e linguistiche, hanno dimostrato che il nostro cervello conserva i numeri assieme ai simboli che li rappresentano, e probabilmente attraverso di essi.3 La nostra comprensione dei numeri d...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Capitolo 0
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Ringraziamenti
  14. Note
  15. Bibliografia