I miei anni con Papa Giovanni XXIII
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I miei anni con Papa Giovanni XXIII

Conversazione con Ezio Bolis

  1. 216 pagine
  2. Italian
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I miei anni con Papa Giovanni XXIII

Conversazione con Ezio Bolis

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«È solo quando avrai messo il tuo io sotto i piedi che potrai dirti davvero un uomo libero!» Questa frase di Giovanni XXIII condensa il legame che lo unì, dal 1953 al 1963, al suo segretario particolare Loris Francesco Capovilla. Le vite di questi due uomini affondano le radici in un mondo squassato da due guerre mondiali: in quegli anni il cardinale Roncalli viaggia come diplomatico fra l'Europa e il vicino Oriente, mentre don Loris vede ben poco oltre i confini del suo Veneto. Eppure entrambi assistono allo scempio della dignità umana, al tradimento dei più basilari valori cristiani, uniti in un dolore che li forma e che darà loro gli strumenti e le ragioni per innescare un cambiamento che farà storia. Incontratisi nel patriarcato di Venezia agli albori della Guerra fredda, affrontano uno scenario di conflitti irrisolti e divisioni profonde. E proprio quando la ricerca del dialogo con il «nemico» si fa sempre più improbabile, Giovanni XXIII sale al soglio pontificio e raccoglie il guanto di questa sfida impossibile: parla a tutti come fratelli, senza pregiudizi né servilismi. Dal loro primo incontro alle ore che precedono la morte del Pontefice, Capovilla restituisce un ritratto appassionante di Roncalli, un resoconto che sfida l'oleografia di un Papa ricordato per la bonarietà più che per la portata rivoluzionaria delle sue scelte. In queste pagine, raccolte con l'aiuto di Ezio Bolis, Capovilla racconta i retroscena di esperienze epocali come i primi anni del Concilio Vaticano II e l'apertura al blocco sovietico, ma anche i momenti di quotidianità e le riflessioni condivise passeggiando con il Pontefice. Ed è soprattutto da quelle conversazioni che emerge il profilo di un uomo legato alla sua terra e al tempo stesso capace di pensare al mondo nella sua totalità, un Pontefice che nel ricordo di tutti resterà sempre il «Papa buono».

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858646397

3

L’elezione









Erano trascorsi pochi giorni da quando Pio XII era rientrato esanime nella sua Roma per la sepoltura nella Basilica Vaticana. Il commento fattone dall’allora cardinal Roncalli nulla ha perduto della sua incisiva e persuasiva eloquenza:
Seguendo in audizione diretta o per trasmissione televisiva il trasporto della salma del Papa da Castel Gandolfo al Laterano, ed a San Pietro, veniva in mente di chiedermi se un trionfo di un antico imperatore romano verso il Campidoglio avrebbe potuto eguagliare – non quanto a manifestazione di potenza militare, ma ad imponenza di dignità, di maestà spirituale ed a penetrazione di sentimento – le proporzioni di uno spettacolo che intenerì tanti cuori. Ancora una volta tornò al mio spirito l’espressione del nostro grande scrittore lombardo: «Tanto è forte la carità: tra le successioni così varie e così solenni di universali inquietudini fa primeggiare il rispetto ad un uomo, perché questo uomo ha ispirato sentimenti ed azioni più memorabili ancora». L’elogio si compie nella specificazione di due grandi successi che caratterizzano il pontificato di Pio XII: con la continuità del suo insegnamento, alto e divino, aprire l’orecchio ai sordi e a restituire ai muti la favella: che è quanto dire far parlare i silenziosi.
Nella imminenza del conclave, comprensibilmente soggiogata dalla notevole personalità del defunto Pontefice, l’opinione pubblica stentava a individuare un successore tra i cinquantadue elettori, ridottisi a cinquantuno, proprio all’ultimo momento, per la morte dell’americano Edward Mooney, arcivescovo di Detroit.
Occupavano i primi posti nei pronostici i cardinali Lercaro, Ruffini, Ottaviani; un po’ più indietro Aloisi Masella, Roncalli, Valeri. La giovane età, cinquantadue anni, ostacolava il cardinal Siri, largamente apprezzato.
L’unico nome non italiano che riscuotesse un aperto favore era quello del dotto e amabile cardinale armeno Agagianian.
Il cardinal Roncalli non potevasi definire uno sconosciuto, ma nemmeno uno che avesse fatto parlare di sé su vasto raggio. Godeva indubbiamente della stima di molti cardinali e della curia romana, ma non era ritenuto uomo di primo piano. Gli stessi bergamaschi lo amavano e lo apprezzavano ma non vedevano in lui il routinier capace di stare al chiodo, di scendere nella profondità dei drammi odierni, di aprire nuove prospettive all’evangelizzazione. Si sbagliarono tutti, o quasi tutti, dimentichi che egli aveva le doti che sole consentono di travolgere ogni ostacolo e di innovare la realtà condizionata dal peccato: la illimitata fiducia in Dio, la straordinaria disponibilità a lasciarsi condurre dallo Spirito. Come allora, forse qualcuno stenta tutt’oggi ad ammettere che in lui emergeva semplicità e non semplicismo, misericordia e non bonomia, disponibilità interiore e non credulità, candore e non ingenuità, spontaneità e non impulsività, abbandono alla Provvidenza e non al fatalismo, coraggio intrepido e non temerarietà, speranza incrollabile e non illusione.
E che dire di chi si preoccupava di collocarlo sbrigativamente nella nicchia dei «Papi di transizione»? Nulla che non sia stato detto poi, e smentito dai fatti! Egli stesso ne sorrise («tanto e tanto, nella terra siamo tutti di passaggio» commentava). Qualche anno prima, nunzio in Francia, aveva confidato al suo Giornale dell’Anima:
Più mi faccio maturo di anni e di esperienze, e più riconosco che la via più sicura per la mia santificazione personale e per il miglior successo del mio servizio della Santa Sede resta lo sforzo vigilante di ridurre tutto: princìpi, indirizzi, posizioni, affari al massimo di semplicità di calma; con attenzione a potare sempre la mia vigna di ciò che è solo fogliame inutile e viluppo di viticci, ed andare dritto a ciò che è verità, giustizia, carità, soprattutto carità. Ogni altro sistema di fare, non è che posa e ricerca di affermazione personale, che presto si tradisce e diventa ingombrante e ridicolo. Oh, la semplicità del Vangelo, della Imitazione di Cristo, dei Fioretti di san Francesco, delle pagine più squisite di san Gregorio Magno nei Morali: Deridetur simplicitas iusti, con quel che segue!… Tutti i sapienti del secolo, tutti i furbi della terra, anche quelli della diplomazia vaticana, che meschina figura fanno, posti nella luce di semplicità e di grazia, che emana da questo grande e fondamentale insegnamento di Gesù e dei suoi santi!
Sta di fatto che, al terzo giorno di conclave, dopo undici scrutini, i cardinali designarono proprio lui, l’arcivescovo Roncalli, un settantasettenne. Da ricordare, per inciso, che ventiquattro porporati gli erano più anziani.
A distanza di tanti anni, dopo tutto ciò che è accaduto nella Chiesa e nel mondo, dopo il ribaltamento di pronostici e di giudizi provocato dai fatti, possiamo ammettere francamente che, da quel conclave, non ci si attendeva la proclamazione del suo nome. Eppure la grandezza di quell’uomo è stata riconosciuta senza timidezze dai suoi successori, i quali puntualmente colsero tutte le occasioni per ricordarne il valore e amplificarne il messaggio.
Nell’ottobre del 1978, per esempio, a pochi giorni dalla sua investitura, Giovanni Paolo II si recò nelle Grotte Vaticane, per rendere omaggio alle salme dei suoi predecessori. Lo ricordo in preghiera sugli inginocchiatoi predisposti davanti alle tombe di Giovanni Paolo I, di Paolo VI, di Pio XII, di Pio XI. Arrivato dinanzi alla tomba di Giovanni XXIII, scansato l’inginocchiatoio, egli si genufletté sul nudo pavimento, la testa e le mani poggiate sull’avello. Quel singolare gesto di venerazione e di gratitudine mi è rimasto impresso. È come se l’avesse fatto apposta per ricordarci l’errore che tanti di noi, vent’anni prima, avevano commesso nel non accogliere con fede intrepida quell’inatteso maestro.
Oggi torno con la mente ai giorni che precedettero il conclave del 1958 e a come li viveva l’allora arcivescovo Roncalli. In una lettera al vescovo di Bergamo Piazzi, scriveva:
[L’]anima si conforta nella fiducia della nuova pentecoste che potrà dare alla Chiesa nel rinnovamento del capo, e nella ricostituzione dell’organismo ecclesiastico, nuovo vigore verso la vittoria della verità, del bene e della pace. Poco importa che il nuovo Papa sia bergamasco o non bergamasco. Le comuni preghiere debbono ottenere che sia un uomo di governo saggio e mite, che sia un santo e un santificatore.
La supplicazione è stata efficace. Giovanni XXIII, chinatosi con religioso rispetto nel solco di Pio XII, si diede al servizio dell’umanità con giovanile inventiva, dimostrando che il Papa non è un simbolo, bensì una realtà, un uomo di carne; un Papa anziano può ringiovanire la Chiesa, come riconobbe Paolo VI; un Papa venuto dalla campagna può far ritrovare agli uomini la smarrita strada della salvezza.
Non è forse tutto risonante di Vangelo il diario giovanneo del 28 e 29 ottobre 1958? Ecco, ne rigustiamo la delicata fragranza, come ci venisse offerto un pane fatto in casa, un bicchier di vino delle nostre vecchie cantine:
Conclave al terzo giorno. Festa dei santi apostoli Simone e Giuda. Santa messa in Cappella Matilde, con molta devozione da parte mia. Invocati con speciale tenerezza i miei santi protettori: san Giuseppe, san Marco, san Lorenzo Giustiniani, san Pio X perché mi infondano calma e coraggio. Non credetti bene di scendere a desinare coi cardinali. Mangiai in camera. Seguì breve riposo e un grande abbandono. All’undicesimo scrutinio, eccomi eletto Papa. O Gesù, anch’io dirò con Pio XII, quando riuscì eletto: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Si direbbe un sogno, ed è, invece, prima di morire, la realtà più solenne di tutta la mia vita. Eccomi pronto o Signore, ad convivendum et ad commoriendum (a vivere e a morire insieme con te) (2 Cor 7,3). Dal balcone di San Pietro circa trecentomila persone mi applaudivano. I riflettori mi impedirono di vedere altro che una massa amorfa in agitazione.
[…] Da ieri sera mi son fatto chiamare Ioannes. Passai la notte nell’appartamento del segretario di Stato, dormicchiando piuttosto che dormendo. Santa messa solo nella cappella vicina, in faciem portae. Don Loris e fra’ Belotti di Trescore ad assistermi. Il mondo intero oggi non scrive e non parla che di me: nome e persona. O miei cari genitori, o mamma, o padre mio, o nonno Angelo, o zio Zaverio, dove siete? Chi vi trasse a tanto onore? Continuate a pregare per me.
In quel gran giorno, egli non si appropria dell’onore decretatogli, ma lo trasferisce, come prezioso mantello, sulle spalle dei suoi congiunti; anzi li nomina espressamente, uno per uno, non per ostentare prestigiose ascendenze, bensì per deporre la tiara, che pur gli cinge la fronte, sui campi innaffiati dalle lagrime e dal sudore dei suoi vecchi. Nell’ora della cosiddetta esaltazione, egli si identifica con gli umili e i poveri del villaggio, e chiede ai suoi morti preghiera corroborante e incoraggiamento.
Questa è fede: fede come roccia; questo è amore come fuoco; giusto, la fede e l’amore di Pietro e di tutti coloro che non si arrogano prerogative, non accampano privilegi, non attendono suffragio di consenso dalle podestà terrestri, ma soli o talora incompresi o avversati, docili all’impulso dello Spirito, avanzano come profeti sulle rive di Dio, aprendo ulteriori prospettive di servizio alla Chiesa universale.
La giornata di martedì 28 ottobre 1958 rivive nel mio animo in ogni suo particolare benché minimo, direi quasi in ogni suo attimo. Alle 6 assistetti il cardinal Roncalli alla sua messa nella Cappella Matilde; alle 23 mi congedavo dalla stessa persona salutandola diversamente dal mattino: «Buonanotte, Santo Padre». Nel giro di diciassette ore, quale trasformazione nell’Angelo Giuseppe di Sotto il Monte, approdato misteriosamente sulle rive del Tevere, al termine di un lungo itinerario sacerdotale! La mattina in cappella c’erano tre persone: il cardinal Roncalli, il cardinal Wyszynski e il sottoscritto; la sera migliaia di fedeli affollavano piazza San Pietro; durante la notte le luci non si spensero a Roma, mentre sull’onda di tutte le reti di comunicazione, il nome e l’avventura dell’eletto invadevano le redazioni dei giornali. Quel mattino, servita la messa a entrambi, celebrai io pure. All’offertorio il cardinal Roncalli venne a porgermi le ampolline; alla consacrazione fece squillare il campanello.
Risonavano nel mio intimo le arcane parole introitali della liturgica memoria dei santi Simone e Giuda Taddeo: «Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio! Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo: tu conosci l’ora della mia morte e della mia resurrezione» (Sal 139,17 e 1-2); e le altre, dal Vangelo di Giovanni: «Com’è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?» (14,22).
Alla terza giornata di votazioni, lo stato di febbrile attesa era come attenuato dall’incombente silenzio e dall’incantevole sole romano. I cardinali confabulavano sommessamente tra loro, muovendosi con passo felpato; l’uno o l’altro, solo o in compagnia, entrava nella cella di un confratello. Alle 9, squillava la campana, come nei due giorni precedenti, il sacrista van Lierde diede inizio alla messa, intonando alla fine il Veni, Creator. La nona e la decima votazione, svoltesi in quaranta minuti, non radunarono su un candidato i due terzi dei voti necessari per la elezione. Così, tra il disappunto della folla, il comignolo della Sistina emise alle 11.10 la quinta fumata nera.
Qualcosa, però, vibrava nell’aria, come il leggero stormire di foglie che annuncia un alito di vento refrigerante. In realtà nel Palazzo Apostolico faceva caldo. Nonostante il trattamento accurato e decoroso, cardinali e conclavisti non nascondevano un senso di stanchezza. Da certe occhiate, poi, e dalle allusioni di qualche bravo collega, si finì per convincersi che quello sarebbe stato il giorno del gaudium magnum.
Dalla Sistina, il patriarca risalì lesto alla sua cella. Sedutosi sul divano, chiese di restare solo. Non sembrava accasciato, no, ma gli si leggeva sul volto qualcosa di insolito di cui troviamo traccia in un racconto del cardinale Fossati, riportato da Leone Algisi nella sua biografia Giovanni XXIII:
Tutti sanno che le celle vengono sorteggiate: al cardinal Roncalli toccò la numero 15, a me la 16, nell’appartamento della Guardia Nobile. Eravamo quindi vicini, e non credo di venir meno all’obbligo di un segreto, da cui comunque sarei certo di venire assolto dalla grande ed indulgente bontà del Santo Padre, se dico, che a un certo momento, l’amico ha sentito il bisogno di entrare nella cella dell’amico confortans eum.
Alle 13, mentre mi disponevo ad accompagnarlo alla Borgia, mi disse: «Non scendo; prenderò qui un boccone, se mi fate portare qualcosa. Mangiamo assieme». Guido Gusso, l’aiutante di camera, già fattosi amico dei cucinieri, scese in fretta, e tornò alle 13.20 con la vivandiera. Recitata la prece, seduti uno di fronte all’altro si mangiò, per modo di dire, su un traballante tavolinetto: prese un brodo, una fettina di carne, un bicchier di vino, una mela; a me il cibo non andava giù. Come avrebbe potuto, se un nodo mi serrava la gola? Avremo scambiato, sì e no, dieci parole.
Conchiusa in un quarto d’ora la refezione, si accomodò su una poltroncina a riposare. Accanto a lui, io leggicchiavo e fantasticavo. Riaprì gli occhi venti minuti dopo. Seduto al tavolo, scrisse alcune note su tre fogli, che mise in tasca. Alle 16 i rintocchi della campanella martellarono nei cuori in sussulto: «Eminenza, è ora».
Scendemmo a piedi dall’oscuro scalone che, nella sua nudità, racchiude segreti di secoli. Mi accomiatai dal patriarca sulla soglia della Sistina, baciandogli la mano con maggior trasporto del solito, sembrandomi di farlo, a quel modo e in quella circostanza, per l’ultima volta. Mi pervadeva l’irrefrenabile presentimento del dopo, tanto naturale quando si abbiano occhi per vedere e fantasia per immaginare. Passati cinquanta minuti, che io trascorsi alla Matilde, i conclavisti, prima ancora che venissero aperte le porte della Sistina, capirono che il Papa era fatto, indovinando il nome del prescelto.
Il cardinal Roncalli accettò la designazione un po’ prima delle 17 di quel martedì 28 ottobre, al terzo giorno di conclave: la fumata bianca si ebbe alle 17.08. Mentre i conclavisti si avviavano alla tribuna che dal cortile San Damaso dà sulla piazza, io rimasi in attesa come impietrito. Trascorsi alcuni minuti, un cerimoniere venne a cercarmi. È impossibile raccontare ciò che provai dentro di me. Attraversai di corsa la Sistina, senza guardare nessuno, gettando soltanto una rapida occhiata al tronetto vuoto del cardinal Roncalli. Un attimo dopo entrai con Guido Gusso – l’aiutante di camera – nella sagrestia della cappella. Il novello Papa stava seduto su una poltrona rossa, vestito di bianco, con rocchetto e mozzetta. Un po’ pallido, ma eretto nella persona, sereno e affabile, conversava placidamente coi monsignori Dante, Calderari e Capoferri. Mi accolse come se niente fosse accaduto e mi presentò agli astanti. Gli sussurrai: «Una prima benedizione a Venezia, a Bergamo e alla Colombera, Santo Padre». «Sì, volentieri; ai miei congiunti secondo lo Spirito e secondo il sangue; ne riparliamo dopo» mi rispose e mi chiese un bicchier d’acqua. È un piccolo dettaglio che avrei rimosso se non fosse stato per quello che accadde un istante dopo.
L’acqua del rubinetto c’era, ma il bicchiere no. Fu giocoforza servirsi di un calice. Prima di porgerglielo, vi versai alcune gocce di coramina, un blando stimolante cardiaco e respiratorio che all’epoca era diffuso in tutte le case. Egli guardava di sottecchi, tra lo stupito e il divertito. «Bisogna lasciarlo fare» disse rivolto a monsignor Dante. «Lui si preoccupa della mia salute; dovrebbe invece badare alla sua. Staremo a vedere se gli riuscirà di toccare la cima dei miei anni.»
Poco dopo, alle 18.05, venne proclamato dal cardinal Canali il gaudium magnum e alle 18.20 risuonò nella piazza la benedizione di Giovanni XXIII, il cui nome «dolce, soave e solenne» (secondo la definizione che egli stesso ne aveva data ai cardinali) diffuse un’ondata di indescrivibile entusiasmo.
Fra le tante memorie di quelle ore concitate, ciò che mi è rimasto nel profondo è di certo quel suo commento sul primo incontro con la folla, perché, nello stile di fioretto francescano, esprime compiutamente l’indole, l’educazione, l’equilibrio interiore dell’uomo: «Al momento di affacciarmi al balcone della basilica, ricordavo il monito di Gesù: “Impara da me che sono mite e umile di cuore”. I fari della televisione mi abbagliarono così che non potei vedere nulla, se non una massa amorfa fluttuante. Benedissi Roma e il mondo, come accecato. Rientrando di là, pensavo a tutti i proiettori che ormai, a ogni istante, si sarebbero puntati su di me. E mi dicevo: “Se non rimani alla scuola del Maestro, dolce e umile, non capirai niente delle realtà temporali: tu sarai cieco!”».
Dopo quel primo saluto alla folla, si ritirò per fermarsi nell’Aula dei Paramenti, dove attendevano gli addetti alla segreteria di Stato e altri della Casa pont...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Copyright
  3. Introduzione. Il custode della memoria - di Ezio Bolis
  4. Prologo. Il giovane severo e l’anziano sorridente
  5. Albori
  6. L’incontro
  7. L’incontro
  8. Il Concilio Vaticano II
  9. Passeggiando nei Giardini Vaticani
  10. Pacem in terris, spirito del tempo
  11. Due frati
  12. Un beato fra noi
  13. Epilogo. In cammino
  14. Ringraziamenti