Fuori!
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Fuori!

Adesso tocca a noi ridare slancio all'Italia

  1. 206 pagine
  2. Italian
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Adesso tocca a noi ridare slancio all'Italia

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"Dobbiamo impegnarci con coraggio, non rassegnarci alla paura. Dobbiamo decidere se vogliamo provare a domare le stelle, puntando in alto. O se ci accontentiamo di vivere impigriti, facendo a botte con il nulla. Se provare a vivere di entusiasmo o accontentarci di noia e sbadigli."

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858644911
«Non buttare via il tuo tempo
o il tempo butterà via te.»
Muse

A viso aperto

«Molti muoiono a Firenze non avendo potuto nascerci.»
Ennio Flaiano
Ci risiamo. Un altro sindaco che scrive un libro. Ma non potrebbero occuparsi di delibere e ordinanze anziché invadere le librerie?
Immagino le critiche. Il punto è che tutte le mattine, quando salgo le scale di Palazzo Vecchio per entrare in ufficio, penso che sono fortunato e che dovrei pagare un biglietto di ingresso. Dovrei urlare il mio grazie, perché faccio un lavoro fantastico.
Ok, lo so: la maggioranza dei miei colleghi politici dice che è una gran fatica, che va tutto male, che loro lo fanno come atto di dovere, qualcuno persino come atto di dolore. Quando li guardi al tg della sera hanno la faccia corrucciata, tipica dei professionisti del piagnisteo. Ma non credeteci. La politica, se fatta a viso aperto e cuore sincero, è una sfida che vale la pena giocare, un’esperienza difficile ma meravigliosa.
Ci hanno spiegato fin dai tempi del liceo che l’inizio di un libro è fondamentale. Deve appassionare i lettori. Deve tenerli incollati alle pagine. Immagino la reazione entusiasta di chi leggerà fin dalle prime battute che la politica è meravigliosa. Ma insisto, prima che chiamiate il 118 insisto.
Provate a immaginare che guazzabuglio di emozioni si possa provare guidando una città di cui mezzo mondo è innamorato. Una responsabilità struggente e straordinaria.
La stanza da lavoro del sindaco è intitolata a papa Clemente VII. I personaggi degli affreschi del Vasari sembrano prenderti le misure. Stanno lassù, sui muri, quasi imbronciati o annoiati; del resto in questa sala ne hanno viste di tutti i colori. Ti copre le spalle, quasi a proteggerti, la solenne rappresentazione dell’assedio della città voluto dalle truppe di Carlo V: battaglia storica, finita male. Per fortuna i fiorentini fecero in tempo a inventare il calcio, in piazza Santa Croce. E a salvare l’onore. Sulla destra la battaglia di Gavinana ricorda l’episodio in cui perse la vita Francesco Ferrucci, per mano di Maramaldo, il vigliacco per eccellenza. Quasi un’esortazione ad agire sempre con coraggio. Anche dal pavimento salgono messaggi subliminali, come il simbolo della tartaruga con la vela, voluto da Cosimo: ti invita a essere veloce, ma saggio. Deciso, ma prudente. Quando la sera clicchi sull’interruttore per andartene e le finestre lasciano intravvedere la penombra della sala, ti rendi conto di essere davvero un nano sulle spalle di giganti.
Fuori, intorno a tanta bellezza, invasa da tanta bellezza, stritolata da tanta bellezza c’è Firenze. Una città piena di polvere, tutta schiacciata sul passato, affermano i critici. La migliore destinazione culturale del mondo, secondo le principali riviste turistiche non solo americane. E anche secondo gli utenti TripAdvisor, che nel mappamondo di internet formano una nazione di 44 milioni di cittadini che esprimono i propri giudizi sulle mete turistiche.
Nel palazzo dove lavorarono i Medici e Machiavelli, dove Leonardo e Michelangelo si sfidarono, adesso ci siamo noi. Segno inequivocabile del declino di una città, diranno i più. Ma questo palazzo pieno di enigmi e fascino può essere soprattutto un simbolo dell’Italia intera. Una terra fantastica, benedetta nei secoli, ricca di genio. Una terra che oggi è però infiacchita da polemiche assurde, da divisioni politiche incomprensibili persino agli addetti ai lavori, impigrita in un pensiero unico che sembra condannarci a un futuro di mediocrità.
Non usiamo i soliti giri di parole, i soliti tentativi diplomatici di definire la realtà. Diciamo le cose come stanno. L’Italia è ferma. Siamo nelle sabbie mobili. Oggi sono gli sbadigli e un crescente senso di nausea il commento più spontaneo e diffuso alla cronaca politica. Purtroppo è così. La situazione è talmente grave che le chiacchiere lasciano il tempo che trovano: occorre uno sforzo personale di tutti e di ciascuno per rimettersi in gioco. Non ci salverà un papa straniero e nemmeno un santone nostrano. Non basterà neanche il ricambio generazionale, servirà piuttosto un mutamento radicale per uscire da una politica autoreferenziale e stanca, che annoia anche chi la fa (o crede di farla). Per ridare respiro e credibilità a questa alta forma di servizio divenuta oggi, nell’immaginario collettivo, poco più che un’agenzia di collocamento. Collocamento mirato, certo: si salvano sempre i soliti...
Cresciuti a pane e Tangentopoli, educati nel mito dei governi tecnici, etichettati come bamboccioni incapaci di osare, chissà che non tocchi proprio a quelli della nostra età essere la generazione capace di tornare a pronunciare la parola speranza nel mondo politico.
A Firenze ci stiamo provando. Intendiamoci: stiamo sicuramente combinando un sacco di guai e la buonanima di Cosimo de’ Medici si starà rivoltando nella tomba solo a pensare in che mani è caduto il suo palazzo. Ma ci stiamo provando davvero.
Dalle nostre parti, la rottamazione della vecchia classe dirigente non è argomento da convegni o da dibattiti filosofici, non è il titolo di un’intervista. È realtà. A Firenze la nuova generazione non ha chiesto il permesso. Ha vinto la sfida delle primarie, ha vinto la sfida elettorale e adesso governa. Se governi meglio o peggio di quella precedente, non tocca a me dirlo. Sono l’ultimo a potersi esprimere in merito. Ma non c’è dubbio che governi. Per statuto, il Comune di Firenze potrebbe avere sedici assessori. Adesso sono diventati dieci. Della serie: pochi ma buoni. Cioè, pochi sicuro, buoni si spera. Sono tutti alla prima esperienza, secondo il motto «facce nuove in Palazzo Vecchio». Non solo. Le donne sono la metà della giunta. Non ho mai creduto al femminismo ideologico e non ho mai amato le quote. Mi sembra un principio così banale. Però confesso di non aver trovato niente di meglio per incoraggiare la partecipazione femminile alla vita pubblica in una società che fa di tutto per non agevolare la donna, sia sul lavoro che nell’impegno civile. Conservo tra le email che più mi hanno colpito in questi anni quelle di un paio di mamme che hanno pagato con la carriera il fatto di aver messo al mondo un figlio. Per una società che crede nel futuro può esistere qualcosa di più atroce e straziante di una donna costretta a scegliere tra maternità e professione? Meglio di niente, vai con le quote rosa.
Rottamazione assicurata, e senza incentivi, anche nelle aziende partecipate: non importa se uno ha la tessera del partito, ciò che conta è che sia competente. I vertici della mia coalizione, ad esempio, rimasero prima senza parole e poi si scandalizzarono quando nominai alla presidenza della società dei parcheggi un puntiglioso commercialista che avevo conosciuto come oppositore. Già, era il consigliere di Forza Italia che in Provincia mi attaccava sempre sui conti, sul bilancio, sui numeri. Sulla politica non ci eravamo mai trovati d’accordo. Ma l’azienda dei parcheggi aveva bisogno proprio di un tipino così: il controllo rigoroso dei conti come priorità. E allora visto e preso: un signor professionista, anche se dello schieramento avverso. I miei compagni di strada polemizzarono invano. Ma, piaccia o non piaccia, l’unica tessera che secondo me conta è la qualità delle persone.
Vogliamo essere una città-laboratorio, insomma, per dirla in slang politico istituzionale. Quando c’è qualcosa di nuovo, si parla sempre di laboratorio. E vogliamo esserlo anche in argomenti duri, ostici, tabù. Facciamo l’esempio più noioso possibile, quello da sbadiglio garantito: l’urbanistica. Roba da addetti ai lavori, si direbbe a prima vista. E invece no. Si tratta del modo di concepire una città da qui alla prossima generazione. Una delle fregature della politica di oggi è che tutto è focalizzato solo sul presente, sul qui e ora, sull’immediato. Mancano pensieri profondi, che sfidino il tempo. Il piano strutturale dovrebbe essere il documento della città che immaginiamo per i prossimi vent’anni, non il bignami degli aspiranti geometri. Con tutto il doveroso rispetto per i geometri, per gli aspiranti tali e soprattutto per il bignami, insuperabile aiuto negli anni del liceo.
Per una volta abbiamo provato a progettare questo benedetto piano strutturale non partendo dalle solite indicazioni degli addetti ai lavori: quanto costruire, quali indici seguire, come edificare. No, per una volta abbiamo rovesciato il ragionamento. Abbiamo detto: piano strutturale a volumi zero. Insomma, per la prima volta nella storia di una grande città italiana si è detto basta al consumo di suolo. Vuoi costruire ancora? Prima butta giù altrove. Buttare giù, distruggere, sfasciare! Sì, il potere salvifico delle ruspe in una terra in cui le sovrintendenze vincolano e tutelano anche e soprattutto le schifezze.
La scelta è molto forte. Abbiamo provato a rovesciare l’impostazione. Mettiamo l’accento sugli spazi da mantenere vuoti piuttosto che su quelli da costruire. Proponiamo, sul modello di alcune grandi città nel mondo, che da casa propria ogni cittadino sia messo nelle condizioni di raggiungere un parco, un giardino, una piazza vivibile in non più di dieci minuti. Proponiamo cioè di impostare l’urbanistica fiorentina non più sulle varianti, sugli indici di fabbricazione, sui volumi da edificare, ma sulla possibilità per ogni donna e uomo, ogni bambina e bambino di avere a dieci minuti un luogo dove incontrarsi e stabilire una relazione. Se è vero che il cittadino globale vive tempi di solitudine, dobbiamo essere conseguenti nelle scelte. E noi siamo felici se i bambini imparano a giocare alla PlayStation e diventano campioni del joystick. Sarebbe assurdo cedere alla cultura del «si stava meglio quando si stava peggio» e rifiutare le chance dell’innovazione. Ma ci piace l’idea di offrire una possibilità più entusiasmante ancora: riscoprire il piacere di avere spazi in cui correre liberi, magari sbertucciandosi le ginocchia. Non è la nostalgia di un piccolo mondo antico che può sembrare fuori tempo e che è senz’altro fuori moda: è il desiderio profondo di non rassegnarsi alla solitudine, di diffondere comunità, di allargare le occasioni di condivisione. Sta qui, non altrove, il significato profondo del concetto burocratico «volumi zero».
Stupisce, poi, che un Comune possa prendere una decisione del genere senza troppe consultazioni preventive. Perché il termine «decidere» in politica sembra una parolaccia. Bisogna valutare, riflettere, disquisire. Per poi quasi sempre rinviare. La parola magica è «concertazione». Un grande presidente del Consiglio, Ciampi, la scelse come metodo innovativo per uscire dalla crisi: coinvolgere tutti, in particolar modo le associazioni di categoria e i sindacati. In quel momento particolare della vita del Paese è stata utile: all’inizio degli anni Novanta l’Italia stava andando a rotoli.
Nei quindici anni successivi la concertazione è diventata una parola vuota. In alcuni casi, addirittura, la scusa per rimandare le decisioni.
A Firenze, si è discusso a lungo della situazione indegna di piazza del Duomo. Il bel San Giovanni, il battistero tanto caro a Dante e a generazioni intere di fiorentini, era sfiorato ogni giorno da oltre duemila autobus, da migliaia di auto autorizzate più o meno regolarmente e da circa diecimila motorini. Chi avesse voluto fermarsi per ammirare le meraviglie della Cattedrale o il campanile di Giotto doveva preoccuparsi innanzitutto di non essere investito da un traffico che era sempre quello dell’ora di punta. E l’angolo della piazza era descritto dalla pungente ironia di Arbasino come «il più elegante spartitraffico del mondo». Dopo anni di concertazione che aveva lasciato le cose uguali e ferme come prima, decidemmo senza concertare. Sfidando i commercianti e i sindacati, che da un tempo infinito si attorcigliavano sulle possibili soluzioni, comunicammo a sorpresa e all’improvviso che avevamo scelto di pedonalizzare. Chiudemmo al traffico alla fine di ottobre dopo averne dato scarna comunicazione in Consiglio comunale il mese precedente. I commercianti e i sindacati lo lessero sui quotidiani il giorno dopo. Loro non lo sapevano, ma per sei mesi avevamo studiato le varie possibilità. Avevamo simulato i flussi di traffico. Ci eravamo convinti che la soluzione tecnica fosse fattibile. Ma non aprimmo alcun tavolo di discussione perché sapevamo che certe scelte o si fanno oppure diventano oggetto di polemiche infinite. La concertazione è tornata in soffitta e la piazza ha recuperato la propria dimensione di luogo di incrocio di persone, di confronto e condivisione, di accoglienza e discussione. È tornata a fare il proprio mestiere, il mestiere di piazza insomma.
Attenzione. Decidere non significa non ascoltare nessuno. Al contrario: è importante ascoltare tutti. Ma poi bisogna agire. Altrimenti la discussione politica diventa il bar dello sport: tutti dicono la loro, ma alla fine non cambia nulla. A Firenze abbiamo cancellato la concertazione, perché le categorie tradizionali sono ormai autoreferenziali almeno quanto i partiti. Puntiamo molto, però, sulla partecipazione. Proviamo cioè a stanare i cittadini dalle loro case. Non ci interessa che siano solo utenti, che siano solo consumatori, che siano solo spettatori: ci sta a cuore che si mettano in gioco. Tentiamo un esperimento: abbiamo diviso il territorio comunale in cento quadranti. Per ogni quadrante abbiamo scelto un progetto specifico. Un luogo fisico che abbiamo ricevuto in un certo modo e che vogliamo restituire al termine del mandato profondamente trasformato. Si convocano cento assemblee in contemporanea e per ognuna il Comune presenta un progetto e si apre alle critiche degli abitanti, dei comitati, delle associazioni. I tecnici del Comune prendono nota dei suggerimenti, accolgono gli spunti interessanti e motivano gli eventuali «no» che sono costretti a dire. E poi si parte per realizzare il progetto. Anche questo è laboratorio. Perché quando il cittadino vede un cambiamento concreto e vede che il Comune propone una cosa e poi la fa, torna la fiducia nelle istituzioni. E il risultato più bello è che le donne e gli uomini che lavorano in Comune si entusiasmano. Perché escono dalla grigia burocrazia quotidiana e rendono ragione, innanzitutto a se stessi, del loro tempo, del loro impegno, del loro lavoro. Per tutto il 2011 farò con loro e con i cittadini singole assemblee in tutti i cento luoghi scelti per concretizzare gli impegni assunti dai tecnici comunali e dare tempi certi d’intervento.
Aprirsi alle opinioni della gente, a Firenze, è sempre un’arma a doppio taglio. I commenti sono micidiali. In una delle assemblee più tese, mentre si parlava delle strade dissestate e il malcapitato relatore stava illustrando tutti gli interventi per sistemare le buche di Firenze, dal fondo della sala una voce spezzò l’intervento: «Il problema non sono le buche delle strade: il problema sono i bucaioli dei politici».
Difficile tradurre in modo corretto dal fiorentino all’italiano il nobile concetto di «bucaiolo», espressione che trae origine dalle buche del Mercato di San Lorenzo, nel cuore della città. Evito di infilarmi nell’etimologia raccomandando tuttavia di non usare con leggerezza questa espressione, almeno davanti ai bambini. Ma a Firenze le critiche e le polemiche sono parte strutturale del gioco. Ne ho fatto le spese personalmente anch’io. In campagna elettorale tutti mi chiedevano di farmi vedere, di non chiudermi dentro Palazzo Vecchio, di stare in mezzo alle persone. Ho cercato di essere coerente con questo impegno e mi sono fatto vedere a piedi, in bici, in giro, pronto a stringere una mano o a scambiare due chiacchiere. Finché, da una finestra di San Frediano, il quartiere di Pratolini, si affacciò un signore. Avrà avuto settantacinque anni. Non altissimo, camicia bianca aperta per il gran caldo, sorriso pieno, gioviale: «O sindaco, ma ti garba parecchio stare in mezzo alle gente, vero?». Ormai ero un disco rotto e conoscevo perfettamente la supercazzola sulla partecipazione, sul coinvolgimento, sulla lotta all’autoreferenzialità. Gliela propinai in trentasei secondi netti. «Capisco. Ti ho visto l’altra sera alla festa in piazza, ieri al mercato, oggi sei in piazza Santo Spirito. Magari domani ti ritrovo a giro. Dai re...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. FUORI!