Perché il vangelo può salvare l'Italia
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Perché il vangelo può salvare l'Italia

  1. 400 pagine
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Perché il vangelo può salvare l'Italia

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Perché siamo infelici? Perché siamo insoddisfatti, frustrati, ansiosi? La crisi, certo, le difficoltà quotidiane e le insicurezze riguardo al futuro. Ma forse questa realtà è anche un comodo luogo comune: serve per evitare di chiederci che cosa veramente abbiamo perduto in questi anni, in che cosa abbiamo smesso di credere. In che cosa consista la nostra "decadenza". La peggiore crisi in atto è infatti quella morale e spirituale, la menzogna dietro la speculazione finanziaria i cui effetti stanno distruggendo le vite dei più deboli, la falsità dietro al bonario ottimismo con cui i politici hanno illuso per decenni i cittadini, per assicurarsi rielezioni e prebende. La vanità ha trionfato sulla verità, e di questo inganno siamo tutti vittime e tutti responsabili. Oggi superare il crollo di tante illusioni, e volgere di nuovo lo sguardo ai valori dell'onestà, dell'impegno e della solidarietà, è la condizione per ritrovare gioia nel quotidiano e soddisfazione nella nostra vita. Possono farci da guida esempi eccellenti, storie scritte con la carne e con il sangue da persone come noi che hanno avuto il coraggio di credere: da san Francesco a John Henry Newman fino ad Alcide De Gasperi. In questo libro che è un'esortazione, una proposta, un augurio, Bruno Forte racconta queste e altre figure, guide ideali per uscire dalla decadenza in cui siamo scivolati. Mette il dito nella piaga di una corruzione delle classi dirigenti che ha nomi, cognomi e responsabilità nell'imbarbarimento di un'intera nazione. Diagnostica senza mezzi termini la nostra condizione di "malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni". E prescrive l'unico farmaco che può guarirci: ricominciare a credere in noi stessi e in qualcosa di più grande di noi: un amore che redime.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858625668
Categoria
Sociologia

1
La sfida della décadence

1.1 Come salvare l’Occidente dal naufragio?

Dove si trova la coscienza occidentale agli inizi del terzo millennio, dopo che la parabola delle utopie ideologiche della modernità è approdata alla condizione di disincanto e di crisi del cosiddetto «postmoderno»? Una metafora tratta dalla tradizione ebraica rende bene la condizione in cui ci troviamo: «L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo».1 L’esilio non comincia quando lasci la tua casa, ma quando non hai più nel cuore la nostalgia della patria.
L’indifferenza, la mancanza di passione per la verità e il senso che essa può dare alla vita costituiscono la vera debolezza della coscienza occidentale nell’epoca cosiddetta «postmoderna»: se la ragione adulta e illuminata della modernità pretendeva di spiegare tutto, la postmodernità, inaugurata dalla crisi dei modelli ideologici conseguente alla violenza da essi stessi prodotta, si offre anzitutto come tempo che sta al di là della totalità luminosa dell’ideologia, tempo post-ideologico o del lungo addio, stagione di rinuncia e di declino rispetto alle presunzioni totalizzanti dell’idea. Dove per la ragione adulta tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione postmoderna nulla sembra avere più senso. È tempo di naufragio e di caduta.
È tempo di povertà, che – come osservava Martin Heidegger – è «notte del mondo» non a causa della mancanza di Dio, ma a motivo del fatto che gli uomini non soffrono più di questa mancanza: la povertà, che ci rende malati, è l’indifferenza, il non soffrire più dell’infinito dolore dell’«assenza di patria», la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Perciò, in questo tempo di penuria, sono necessari i poeti, che tengano sveglio il desiderio dell’infinito e ultimo altrove. Sta forse qui la risposta all’interrogativo, retorico e struggente, di Friedrich Hölderlin: «Perché i poeti nel tempo della povertà?».
Si profila così l’estremo volto della crisi epocale dell’Occidente al termine del cosiddetto «secolo breve» e alle soglie del nuovo millennio: il volto della décadence. Così la descrive Bonhoeffer, morto martire della barbarie nazista nell’aprile del 1945: «Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene […] Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza».2 La decadenza non è l’abbandono dei valori, ma la rinuncia a cercare qualcosa per cui valga la pena di vivere.
La décadence non ha interesse a misurarsi con il vero. Essa priva l’uomo della passione per la verità, gli toglie il gusto di combattere per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. La decadenza vorrebbe persuadere a un ottimismo ingenuo, universale, che non ha bisogno di tenere ferma la negatività dell’avversario, perché tende solo a piegarlo al proprio calcolo e al proprio interesse, senza curarsi del vero. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di passione per la verità: è questo il volto tragico dell’«assenza di patria». Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del giusto e del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare, dove gli uomini sfuggono al dolore infinito dell’evidenza del nulla fabbricandosi maschere, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Nel clima della decadenza, perfino l’amore diventa maschera e i valori si riducono a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato: l’uomo si risolve in quello che Jean-Paul Sartre chiamava una «passione inutile».
È questa condizione di disincanto etico e spirituale, frutto della parabola che dall’ebbrezza ideologica della modernità giunge alla caduta del senso e all’indifferenza proprie della condizione postmoderna, l’orizzonte dell’attuale agire e pensare dei cristiani nell’Occidente che cambia: la «cultura forte», espressione dell’ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle «culture deboli», in quella «folla delle solitudini», in cui è soprattutto rilevante la mancanza di orizzonti comuni, quella penuria di speranze «in grande», che piega ciascuno nel corto orizzonte del suo «particulare». Dove muoiono le grandi speranze, trionfa il calcolo di bassa lega: alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell’immediatamente utile e conveniente, la protesta fondata nell’interesse dall’ottica breve, spesso ottusa e velleitaria. La fine delle ideologie e la frantumazione che ne è conseguita appare così veramente come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo totale di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni: dove manca la passione per la verità, tutto è permesso, nulla dà gioia duratura… Come far risuonare in questo contesto la «buona novella»; accendere nei cuori il desiderio più nobile e alto, più necessario e profondo, la nostalgia del Totalmente Altro: tali questioni meritano – mi pare – la più seria attenzione da parte di tutti.

1.2 Le regole minime del bene comune

È possibile parlare ancora oggi del bene comune come principio ispirativo fondamentale dell’agire politico? Se si guarda agli scenari e ai protagonisti della politica italiana di questi ultimi tempi, si sarebbe tentati di dire di no. La gente sente distante il dibattito politico, non concentrato sui problemi reali delle famiglie: lavoro, casa, giovani, scuola, sanità, anziani. Intere aree del Paese aspettano dal potere centrale un’attenzione che non c’è, non solo le aree tradizionalmente segnate da problemi irrisolti, come il Mezzogiorno, ma anche quelle provate da recenti traumi, legati a catastrofi naturali, restate spesso ai margini dell’agenda politica.
C’è chi – per sostenere l’inattualità del tema bene comune – invoca la «società liquida» postmoderna (Zygmunt Bauman), dove tutti hanno il proprio modo di comprendere il bene, spesso in antitesi ad altre visioni: è questo che renderebbe impossibile individuare mete condivise, per cui ci si dovrebbe accontentare di regole minime per garantire la reciproca tolleranza, rinunciando a ogni interesse per il bene comune. C’è chi, dopo aver constatato la sproporzione fra le energie spese a proporre e sostenere leggi che riguardano pochi e quelle destinate ai problemi che riguardano tutti, conclude che siamo ormai nel tempo in cui la legge del più forte ha soppiantato la forza della legge, lasciando libero campo al potente di turno perché tuteli e promuova i propri interessi, anche a scapito di quelli dei più. Alcuni comportamenti privati di uomini politici, poi, segnati da un’impressionante decadenza etica, confermano la lontananza vistosa fra agire politico e tensione morale. Il bene comune appare disatteso, irrilevante: ne deriva una diffusa sensazione di disgusto verso gli scenari della politica, che in alcuni diventa tentazione di disimpegno e di qualunquismo, in altri perfino di rivolta. Una considerazione fatta molti anni fa da Corrado Alvaro stigmatizza il rischio di una simile situazione: «La tentazione più sottile che possa impadronirsi di una società è quella di pensare che vivere rettamente sia inutile».
Per ritrovare il senso e la passione del «vivere rettamente» mi sembra necessario tornare alla forza ispiratrice e critica del bene comune: è questo lo stimolo che la Chiesa ha il dovere di offrire. Il Concilio Vaticano II aveva definito il bene comune come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, tanto ai gruppi quanto ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente».3 Il servizio del «bene comune» implica, dunque, la responsabilità e l’impegno per la realizzazione piena di tutti e di ciascuno come condizione fondamentale dell’agire politico. Questo è possibile solo se il bene comune non è la semplice risultante della spartizione dei beni disponibili, ma una meta che trascende ciascuno con la sua esigenza morale e proprio così ci accomuna. Aver a cuore la promozione e la tutela della vita di tutti; servire la crescita di tutto l’uomo in ogni uomo, mettendo al centro la dignità di ogni persona umana, quale che sia la sua condizione, la sua storia, la sua provenienza e la sua cultura; obbedire alla verità, sempre: questo è impegnarsi per il bene comune.
Sarebbe, però, sbagliata l’idea che il bene comune sia definito nelle sue forme concrete una volta per tutte, senza discernere il senso che esso assume nella complessità delle situazioni storiche: «La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare».4 L’impegno per il bene comune è allora piuttosto uno stile di vita, un agire caratterizzato da alcune scelte di fondo, da richiedere a chi sia impegnato o voglia impegnarsi in politica. Riassumerei queste scelte in cinque indicazioni, che mi sembrano indispensabili per chi voglia servire il bene comune.
In primo luogo, l’impegno per l’etica pubblica e la morale sociale deve essere indissociabile dall’impegno etico sul piano personale: va rifiutata la logica della maschera, che coniughi «vizi privati e pubbliche virtù». Questo comporta il riconoscimento del primato della coscienza nell’agire politico e il diritto di ciascun rappresentante del popolo all’obiezione di coscienza su questioni eticamente rilevanti, ma vuol dire anche che la credibilità del politico andrà misurata sulla sobrietà del suo stile di vita, sulla generosità e costanza nell’impegno, sulla fedeltà effettiva ai valori proclamati (per esempio a proposito dell’istituto familiare).
In secondo luogo, nel rapporto con i cittadini il politico dovrà seguire la massima formulata così da don Lorenzo Milani e dai ragazzi della sua scuola di Barbiana: «Appartenere alla massa e possedere la parola». Il politico dovrà essere vicino alla gente, ascoltarne i problemi, farsi voce delle istanze di giustizia di chi non ha voce e sostenerle. I politici non siano al servizio del padrone di turno, ma del popolo. Nell’impegno in vista del bene comune i poveri, i senza parola, i socialmente deboli siano considerati come riferimenti cui è dovuto ascolto e rispetto: lo stato sociale, l’istruzione e la tutela della salute per tutti non sono una conquista opinabile, ma valori irrinunciabili, da tutelare e migliorare liberandoli da sprechi e assistenzialismi che non servono ai poveri.
In terzo luogo, la dialettica politica andrà sempre subordinata alla ricerca delle convergenze possibili per lavorare insieme al servizio del bene comune: corresponsabilità, dialogo e partecipazione vanno anteposti a contrapposizioni preconcette o a logiche ispirate a interessi personali o di gruppo. Il bene comune va sempre preferito al proprio guadagno o a quello della propria parte politica.
In quarto luogo, nel servizio al bene comune occorrerà saper accettare la gradualità necessaria al conseguimento delle mete: la logica populista del «tutto e subito» ha spesso motivato promesse non mantenute, quando non la violenza e l’insuccesso di cause anche giuste. Occorre puntare al fine con perseveranza e rigore, senza cedere a compromessi morali e ritardi ingiustificati e senza mai ricorrere a mezzi iniqui. Ogni scelta fatta in vista del bene comune non va misurata sulla sola efficacia immediata, ma soprattutto sulla sua valenza e il ruolo educativo al servizio di tutti. Così, in particolare, l’impegno per i valori fondamentali della tutela della vita umana in tutte le sue fasi, della promozione della famiglia, della giustizia per tutti, del rifiuto della guerra e della violenza in ogni forma e dell’impegno per la pace.
Infine, chi intenda operare per il bene comune deve considerare come scopo del suo servizio il bene di tutti, anche degli avversari politici, che perciò non vanno mai ritenuti nemici o concorrenti da eliminare, ma all’opposto visti come garanzia di confronto critico in vista del discernimento delle vie migliori per giungere alla realizzazione della dignità personale di ciascuno.
Questo insieme di regole minime si riassume in un appello ai protagonisti della politica, particolarmente urgente in questa fase di crisi: occorre un sussulto morale, che dia a tutti, specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza! La scelta è fra una deriva egoistica e lesionista e, appunto, il bene comune, che – superando ciascun appetito individuale – libera e unisce tutti. La posta in gioco non è il guadagno di alcuni, ma il futuro che costruiremo insieme. Ci saranno politici pronti a rispondere oggi all’appello per un simile ritorno al primato del bene comune?

1.3 Il bisogno di etica per crescere insieme

Come orientarsi nell’agire sociale e politico nell’epoca di profonde tensioni che stiamo vivendo, caratterizzata dai processi di globalizzazione e di crisi economico-finanziaria, cui si affianca la drammatica conflittualità seguita agli eventi dell’11 settembre 2001? Come puntare a scelte libere da condizionamenti di parte, tese al bene comune, in un contesto segnato da un tasso di litigiosità e di corruzione tanto elevato e dal generalizzarsi di letture strumentali applicate a tutti i comportamenti e le scelte di carattere pubblico? Queste mi sembrano le domande che ogni persona pensosa, non negligente davanti alla sfida del bene comune, in particolare il discepolo di Gesù, deve porsi di fronte alle urgenze che ci interpellano tutti e alle attese specialmente dei più deboli e dei più minacciati dall’insicurezza economico-politica attuale.
A questi interrogativi non può essere data una risposta strumentale, impastata di rassicurazioni bonarie o modellata all’opposto sulla logica del «tanto peggio, tanto meglio»: in entrambi i casi si privilegerebbe la maschera alla verità, nascondendo o rimandando i problemi e suscitando solo una giusta indignazione. Occorre rispondere in modo serio, motivato e responsabile, e per farlo bisogna individuare un criterio alto a cui riferirsi: risulta sempre più evidente che non ci sarà azione politica al servizio del bene comune né buona amministrazione della cosa pubblica né buona economia senza il costante riferimento a un criterio ispiratore, che sia al tempo stesso credibile e applicabile, per potervi ricorrere con convinzione interiore e decisione operativa, pronti a pagare di persona per le scelte compiute.
Questo criterio potrebbe ricondursi a quello elaborato da sant’Agostino in un momento storico non meno drammatico e complesso del nostro, quale fu l’epoca del tramonto dell’impero romano: a quanti accusavano i cristiani della responsabilità di quella sconvolgente disgregazione, il vescovo d’Ippona non temette di indicare le vere ragioni della crisi. L’impatto esterno dei barbari è per lui un elemento solo concomitante, aperto peraltro a possibilità positive, come quelle della linfa nuova che essi portavano nel sangue di una civiltà ormai in sfacelo. La profonda causa della crisi della grandezza di Roma è per sant’Agostino di carattere morale: è la tendenza diffusa – avallata dai vertici, ma divenuta mentalità comune – a preferire la vanitas alla veritas. I due concetti sono espressione di logiche opposte: la vanità è connessa al primato dell’apparenza, a quel trionfo della maschera che copre interessi esclusivamente egoistici e prospettive di corto raggio dietro proclamazioni di intenti altisonanti. La vanitas indulge all’assuefazione davanti al male, rende cedevoli al compromesso tranquillizzante, fa apprezzare il perbenismo di facciata, in grado di nascondere il reale gioco d’interessi. La verità è invece quella che misura le scelte sui valori etici permanenti, e quindi sulla dignità inalienabile della persona umana davanti al suo destino temporale ed eterno.
Fra le tante, una citazione dal De Civitate Dei può aiutare a comprendere la differenza intesa da sant’Agostino: al mondo «che si dissolve e sprofonda» («tabescenti ac labenti mundo») egli vede opporsi l’opera di Dio, che va radunandosi una famiglia, per farne la sua città eterna e gloriosa «non per il plauso della vanità, ma grazie al giudizio della verità» («non plausu vanit...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1. La sfida della décadence
  5. 2. Spalancare le porte al Dio che viene
  6. 3. Percorsi di speranza
  7. Postfazione - Plaidoyer per la mistica
  8. Note