Guido Gozzano
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Guido Gozzano

La breve vita di un grande poeta

  1. 400 pagine
  2. Italian
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Guido Gozzano

La breve vita di un grande poeta

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Informazioni sul libro

Nel 1883 nasce a Torino il maggiore tra i nostri poeti crepuscolari. I suoi versi, percorsi da una vena di ironia corrosiva che ne tempera la componente più malinconica e struggente, introducono nella lirica italiana i primi, inequivocabili, segni della modernità. Destinato dalla malattia a una morte precoce, Guido Gozzano, il cantore raffinato e discreto delle "piccole cose di pessimo gusto", sperimenta nei pochi anni che gli sono concessi una travagliata storia d'amore con la scrittrice Amalia Guglielminetti, immortalata nei suoi versi insieme ad alcune altre indimenticabili figure femminili. Almo Paita ripercorre per noi la breve e intensa parabola della vita di Gozzano, sullo sfondo dell'Italia borghese di inizio secolo, ricostruendo persone ed eventi reali che si celano dietro le sue liriche più famose e restituendo, nel racconto biografico, le atmosfere inconfondibili di un periodo, di un'esistenza e di un'opera.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858624708

Amore e morte

Reduce dall’Amore e dalla Morte
gli hanno mentito le due cose belle…

La via del rifugio

Gozzano pensava da tempo di raccogliere i suoi versi, in parte già pubblicati sui periodici cittadini, in un volume genericamente intitolato Il libro. Le sue prime poesie risentono della pesante presenza di D’Annunzio nella vita culturale del tempo e, come abbiamo già visto, Gozzano ne è consapevole. Stando alla testimonianza di Calcaterra, fu Mario Vugliano, giornalista e scrittore, a suggerire a Gozzano quali poesie dovesse pubblicare nella raccolta che prese poi il titolo La via del rifugio. Vugliano, da letterato finissimo, aveva esaminato il fascio di cartelle che Guido aveva portato con sé alla «Società di Cultura» per avere un consiglio dagli amici. E aveva scartato quei versi che risentivano l’influenza di D’Annunzio. Quel che era rimasto della raccolta, cinquantasei pagine, fu pubblicato a Torino da Renzo Streglio, a spese della madre, che aveva portato il manoscritto all’editore.
La via del rifugio apparve all’inizio di aprile del 1907 in una tiratura di ottocento copie e si apriva con una filastrocca, in cui alla fiaba si alternano malinconiche riflessioni sulla vita e sulla morte:
Trenta quaranta,
tutto il mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
La raccolta comprende due fra le liriche destinate a diventare famose (Le due strade e L’amica di nonna Speranza) e che saranno inserite nei Colloqui, il capolavoro di Guido Gozzano. L’opera ebbe un notevole successo e portò alla ribalta il nome del giovane poeta. Quel giovane sconosciuto poeta torinese si imponeva sulla chiassosa fama di D’Annunzio, il maggior poeta del tempo. «È la popolarità… – scriveva Luigi Federzoni sul “Resto del Carlino” di Bologna il 10 giugno 1907 –. A me pure, ve lo confesso, la poesia di Gozzano dà un ineffabile diletto. Rileggere La via del rifugio è diventato ormai una mia abitudine di tutti i giorni, come mangiare e bere.» Tutti declamano a Roma, nei salotti e al Caffè Aragno, le sue poesie, tutti parlano di quel nuovo poeta.
«Guido Gozzano? Chi è? – si interrogava a sua volta Tommaso Monicelli sull’“Avanti!” del 27 giugno 1907 –. È un uomo nuovo ignoto a tutti… Fu scoperto per caso sotto una catasta di pubblicazioni da un uomo d’ingegno che ne parlò entusiasta agli amici, gli amici che erano giornalisti scovarono il libro, ne dissero bene nei crocchi, ne parlarono meglio sui giornali… È un libro semplice nella forma e nell’espressione, complesso come nessun altro nella sostanza delle idee… La sua poesia ha un’insolita freschezza di realtà, più che di verità.» Non era dello stesso avviso il critico letterario del «Momento», giornale cattolico torinese, secondo il quale La via del rifugio era «macchiato di tali immonde sozzure e turpitudini da doversi ritenere inutile qualsiasi ulteriore giudizio critico».
Guido Gozzano, che si era mostrato incerto sull’opportunità di pubblicare la raccolta, si preoccupa ora che il suo libro sia opportunamente esposto nelle vetrine dei librai. All’amico Vallini il 16 luglio del 1907 raccomandava «di passare, appena l’edizione (cioè la ristampa) sia in vendita da Ferrettini (della Casa editrice Streglio) e urlare che mi mandino le 50 copie. Ti prego: per lettera non si può mettere le mani addosso; tu lo puoi. E fallo». E pretendeva inoltre che l’editore indicasse sulla ristampa: Terza edizione, anziché seconda, com’era in realtà.

La malattia

Guido non fece in tempo a godersi il successo della sua prima raccolta poetica. La sua salute, che aveva già mostrato qualche segno inquietante, improvvisamente si aggrava. Non era mai stato robusto: gracile, pallido, di salute cagionevole, era stato più volte costretto a interrompere gli studi a causa di un’inguaribile stanchezza, che gli causava anche frequenti malori. A tredici anni all’amico Ettore Colla scriveva che si trovava al mare per ossigenare i suoi «polmoni marci». E non gli aveva giovato la vita convulsa e disordinata di Torino in quegli anni. La tisi, che da tempo lo insidiava, esplose infine nella primavera del 1907. Il 20 aprile si trasferisce quindi in Liguria, prima a Ruta di Camogli, dove viene ricoverato in ospedale; quindi si ritira a Genova nell’albergo «La Marinetta» di S. Francesco di Albaro, nella speranza che dal clima marino possa trarre qualche giovamento.
Verso la fine di giugno è ad Agliè. Il 28 giugno scrive una lettera a Giulio De Frenzi (Luigi Federzoni), in cui lo ringrazia per la recensione favorevole della sua raccolta. E scherza sulla sua salute: «Baci e baci… lli…: anzi è peggio, da qualche giorno; tutta colpa dei dottori, che mi hanno imbalsamato a furia di iniezioni aromatiche, riducendomi lo stomaco in uno stato da far pietà. Andrò a rintracciare l’appetito su a millecinquecento metri in Ceresole Reale; fra otto giorni. I dottori giurano (da Maragliano a Pescarolo) che la mia non è che una broncoalveolite iniziale all’apice sinistro. Infatti non ho male di sorta, ma solo sintomi inquietanti: tosse, insonnia, febbre leggera, la saliva striata da venule sanguigne… tutti sintomi che fanno passare la voglia di cantare cose non serie… Cantare cose serie? Temo che non sia il mio forte». I dottori?
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali
segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.
E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…
«Appena un lieve sussurro all’apice… qui… la clavicola…».
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
«Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più in
sonne…
non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:
Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…».
Gozzano non si faceva illusioni; era la tubercolosi, il male che doveva portarlo alla tomba. E ironizza sulla poesia di Lorenzo Stecchetti: «La Musa del buon Lorenzo Stecchetti! Ho riletto, dopo anni e anni, il caro volumetto… Ma come si vede che il Poeta aveva sanissimi polmoni! È tutt’altra cosa l’idea di morire, tutt’altra cosa! Si resta lì: non saprei dire come… Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene». E vorrebbe informare la sua poesia alla serenità socratica, «la poesia di colui che si sente svanire a poco a poco, serenamente…».
La tubercolosi allungava un’ombra inquietante sulla sua esistenza, influenzando sempre più la sua ironica, amara vena poetica. In Nemesi, una poesia del 1905, aveva scritto: «Inganno la tristezza con qualche bella favola. Il saggio ride. Apprezza le gioie della tavola e i libri dei poeti… ma il canto più divino sarebbe un sogno vano senza un torace sano e un ottimo intestino… Ma ben verrà la cosa “vera” chiamata Morte: che giova ansimar forte per l’erta faticosa?». Ora dovrà tener conto dell’ospite inesorabile, della «signora vestita di nulla», che prima o poi verrà a strapparlo ai suoi sogni poetici. Ma non rinuncia al suo amaro sorriso: «Io non gemo, fratello e non impreco: scendo ridendo verso il fiume oscuro che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio… Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui…».
La malattia gli creava naturalmente anche problemi pratici: si preoccupava di non contagiare il fratello e di non rattristare la madre: «Mamma è partita ier l’altro sera per Torino – scriveva all’amico Vallini il 5 giugno 1907 da S. Giuliano d’Albaro – va a trovarla e portaci anche gli altri; e tutti armatevi di una buona dose di cretineria (intendi: fingete di non credere che io sia mortalmente malato), per tenerla giuliva: mi raccomando. Fate opera pietosa: e vi sono e vi sarò riconoscente».

La donna fatale

Fu nella primavera del 1907, quando esplose il suo male, che Gozzano conobbe la poetessa Amalia Guglielminetti. Si erano in realtà incontrati alla «Società di Cultura» nell’autunno e nell’inverno precedente. Amalia aveva già pubblicato Voci di giovinezza, una raccolta poetica che Guido non aveva apprezzato. La giovane poetessa sapeva che quel giovane biondo, pallido, elegante era l’autore di poesie già pubblicate su «Il Piemonte», che gli avevano dato a Torino una qualche notorietà. Ma entrambi avevano mostrato di ignorarsi, lei arroccata su un’aristocratica posizione di giovane donna bella, elegante, corteggiata; lui, preso da altri problemi, mostrava di non aver notato l’orgogliosa poetessa.
Ma in quell’aprile era uscito Le vergini folli, che aveva portato ad Amalia notorietà e gloria, grazie soprattutto alle recensioni favorevoli di critici come Dino Mantovani della «Stampa». Quello stesso mese era uscito La via del rifugio. Dallo scambio dei libri appena pubblicati nacque il turbinoso amore tra i due poeti. «Cortese avvocato – scriveva Amalia il 13 aprile – ieri sera ho ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela…» «Ho letto il suo libro – rispondeva Gozzano con una lunga lettera – La “degna ghirlanda” di sonetti che Ella ha saputo foggiare, le dà il primissimo posto, non fra le donne (fra le donne Ella non ha competitrici: le donne non sanno scrivere), ma fra gli ingegni virili di più belle speranze…» E un paio di settimane dopo, il 5 giugno: «Le giuro, cara Signorina, che non conosco nella letteratura muliebre italiana, presente e passata, opera di poesia paragonabile alla sua…»; un’opera che «conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità». E concludeva con una nota amara: «Sto molto poco bene: e ho anche qualche sintomo lieve di un male grave».

L’esilio

Peccato. Quell’amore appena sbocciato è insidiato da una nuvola nera. Tra i due poeti c’è una simpatia artistica e personale, che sfocia in un amore destinato a durare qualche anno. Lei è affascinata dalla purezza del suo canto; lui dalla sua bellezza e dalla sua poesia. La paragona a Gaspara Stampa, una poetessa petrarchista del Cinquecento. Lei gli scrive che un anno, durante le vacanze estive, ha passato «mesi e mesi in campagna con Francesco Petrarca, ripassando verso per verso tutto il Canzoniere per cercarvi il colore degli occhi di madonna Laura».
A Torino si annoia: «Ieri – scrive il 7 giugno 1907 – ho passato il pomeriggio alle corse annoiandomi mortalmente. Oggi sento rialzarmi gli spiriti discorrendo con Voi». «Vi sono antipatico: – scrive lui, ricordando il loro primo incontro alla “Società di Cultura”, quando si era presentato e lei non gli aveva teso la mano, rimanendo muta e ostile – non mi stupisco. Tutte le donne mi trovano così prima di conoscermi.» E ricorda le reazioni dei suoi amici al suo arrivo alla «Società di Cultura»: «È bella – commentavano –. Ma scrive. E non male… Detestabili le donne che scrivono! Se scrivono male ci irritano. Se scrivono bene ci umiliano». E lei passò fra loro, altera, sdegnosa, come una regina, avvolta nel suo elegante boa di piume.
Ma ora quel sussiegoso distacco è superato: «Prima di tutto siete bella – le scrive Gozzano –. Vi ho studiato molto. Non ho mai potuto capire, ad esempio, se, sotto i grandi caschi alla Rembrandt, che Voi prediligete, i vostri capelli sono spartiti alla foggia antica o no… Avete due begli occhi… anche il profilo che piace a me, vestita come piace a me e camminate come piace a me, con l’eleganza un po’ stracca e un po’ trasognata della nostra massima attrice… Ora invece (siamo) lontani. Io seriamente ammalato ed esiliato dalla città per due, tre anni: forse più. Possiamo benissimo essere amici…».
Con la malattia era infatti cominciato l’«esilio» di Guido, nel tentativo di arrestare il percorso del male: al mare, a Genova e in montagna. La sua storia d’amore con Amalia si fa intanto più stretta e pressante: «Amica, – le scrive il 3 luglio 1907, scusandosi per non aver risposto prima a una sua lettera – io sono un villano; non c’è altra parola, ma sono anche un malato, che da qualche tempo sta peggio. Perdonatemi dunque! Credete che al riapparire di certi sintomi l’anima piomba in tale certezza, sulla verità probabile, che s’invoca la fine subito… E quella cosa che si chiama Terra, con il mare, i continenti, i fiumi, gli alberi, i monti, le case, gli uomini, è già lontana; e gli amici dileguano anche loro, anche i più cari; e anche voi fra quelli». Andrà intanto a Ceresole Reale e poi nel sanatorio di Davos in Svizzera, le scrive: «Una cura che mi guarirà in poco tempo e sicuramente». Ma a Davos, il luogo reso celebre dalla Montagna incantata di Thomas Mann, non andrà; forse le condizioni economiche non glielo consentivano.

La Signorina Domestica

Andò invece, come previsto, a Ceresole Reale, una località a 1620 metri di altitudine, sul versante meridionale del gruppo del Gran Paradiso. «Da parecchie settimane sono qui in una solitudine deliziosa – scrive ad Amalia – e con dinanzi uno scenario che ricorda il secondo atto della Figlia di Jorio (di D’Annunzio)… Come! Non ho una Mila per compagna, ma una servente indigena e prosaicissima. Che non mi annoia però: alla sera, mentre io contemplo il tramonto sui picchi innevati delle Levanne, ella parla. Io non l’ascolto: ma la sua voce mi giunge a quando a quando, attraverso il rombo della mia malinconia e afferro brani di cose bellissime, di episodi che sfrutterò forse poeticamente: “La storia del curato che fuggì con la figlia del Sindaco”, oppure “della Marchesa che si innamora della guida; e furono sorpresi dal marito”.
«Ma non pensate male. È un’onestissima fanciulla, figlia di Maria ed io nutro per lei la più rispettosa ripugnanza: immaginate un corpo diciottenne… un volto quadrato, scialbo, roseo, lentigginoso, senza pupille, senza ciglia, senza sopracciglia, e un viscidume di capelli gialli, tirati, tirati lisci aderenti e stretti alla nuca in un fascio di trecciuole minute e su tutto il volto diffusi i segni dell’idiozia ereditaria…»
«La mia salute – prosegue – va relativamente meglio. Ma figuratevi che da mesi porto una maschera inalatrice, giorno e notte e quell’ordegno che mi chiude in una rete metallica quasi tutto il volto: mi dà l’aspetto rimbecillito da palombaro. Mi fa però benissimo… Ah! La salute! Che bella cosa!»
Amalia, nel frattempo, è al mare a Varazze e si lamenta della confusione e della volgarità che le sta attorno. In compenso – gli scrive – c’è un giovane musicista, un ragazzo non ancora ventenne, che le piace molto, specie in costume da bagno: «Il giovinetto è solo, bello, sentimentale, intelligentissimo e beniamino di tutte le signore… Ieri distesi sulla spiaggia in accappatoio, con dinanzi un tramonto tanto bello da parer inverosimile sopra un mare tanto azzurro da sembrar dipinto ci siamo scambiate molte confidenze». E stuzzica così la gelosia di Guido, che appare sempre più innamorato della bella poetessa.
L’estate è finita; il 26 agosto, come previsto, Gozzano lascia Ceresole e torna ad Agliè, dove Amalia nei primi giorni d’ottobre va a trovarlo. «Mi troverete ben poco seducente, – gli aveva scritto, annunciandogli la visita – non c’è niente che imbruttisca una donna quanto un viaggio in ferrovia, anche breve.»
Guido è nuovamente solo: «Eccomi in questa solitudine e tutt’altro che bene in salute – le scrive il 23 ottobre 1907 –. La vostra bellezza! La temevo molto! Quel giorno al Meleto ne rimasi annichilito… quel lungo silenzio che abbiamo avuto in...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. L'infanzia remotissima
  7. La pensosa adolescenza
  8. La capitale perduta
  9. La Belle Époque
  10. Amore e morte
  11. Una stagione felice
  12. La città delle meraviglie
  13. Il favoloso Oriente
  14. C'era una volta
  15. Il poeta delle farfalle
  16. Il fascino del cinema
  17. La signora vestita di nulla
  18. Bibliografia