Nuovo cinema Mancuso
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Nuovo cinema Mancuso

  1. 416 pagine
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Nuovo cinema Mancuso

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La sua rubrica sul "Foglio" è un appuntamento fisso per critici e appassionati di cinema. Una delle voci più pungenti del giornalismo cinematografico italiano, Mariarosa Mancuso raccoglie in Nuovo Cinema Mancuso il suo personalissimo punto di vista sul meglio (e sul peggio) offerto dal grande schermo negli ultimi anni: da Bright Star di Jane Campion, "mai così brava, neanche in Lezioni di piano", passando per A Single Man di Tom Ford con la sua "estetica da sciampista", fino a Baciami ancora di Muccino ("dopo Mad Men, con che coraggio un regista italiano può ambientare una scena in un'agenzia pubblicitaria?"). Si ride e si ragiona con le 206 recensioni della "criticona", già di per sé piccoli capolavori di stile, asciutti e spietati, serviti con contorno di Popcorn, scoppiettanti commenti che addestrano il lettore a sperimentare contaminazioni e imprevedibili divagazioni. E per riprendere fiato tra un salto pindarico e una stroncatura, Mancuso si concede il tempo di un Intervallo per scrivere a ruota libera su festival, serie tv, trend cinematografici e molto altro ancora. Un libro imperdibile per tutti gli appassionati del grande schermo, un divertentissimo faccia a faccia con uno dei pochi critici originali, liberi e anticonformisti. Con una dote rara, il senso dell'umorismo. Con la partecipazione di Giulio Ferrara e Aldo Grasso

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628041
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

Fuoriprogramma 1

di
Giuliano Ferrara



Breve e crudele. Mariarosa Mancuso poggia le dita sulla tastiera come Glenn Gould sul pianoforte: dal basso. Esige la resa narrativa e commerciale, perché lo spettatore pagante ha «diritti inalienabili», come il lettore di Daniel Pennac da lei stessa chiamato in causa. Detesta la prosa d’arte, lo snobismo da tinello e «il venerabile presupposto accademico che è un privilegio essere annoiati».1 In un corpo a corpo con un autore italiano, troppo autore e forse anche troppo italiano, ricorda che «personaggi credibili, anche dal punto di vista estetico e guardarobiero, fanno parte dei diritti dello spettatore (e sono compresi nel prezzo del biglietto)». Non è una bonanza, per un trattato di stile che è insieme un compendio di cinema in pillole, questo amore temerario per il lavoro ben fatto?
Breve, crudele e giusta. Non avendo pregiudizi di dottrina, e padrona invece di una sofisticata passione per idee extracinematografiche (filosofia, linguaggio, critica letteraria), MM sa ammirare: spontaneo, innamorato e definitivo il suo inno a Elizabeth Stamatina Fey, detta Tina, e alla sua serie esilarante 30 Rock. Ma l’austera e scherzosa rassegna del Nuovo Cinema Mancuso, che certo non pullula di campioni nazionali, sa dare il suo a ciascuno, anche ai «nostri» all’occorrenza, purché evadano in allegria dall’epica dei buoni sentimenti. Basta rivedere i film italiani nei suoi giudizi, e nutrirsi del suo Popcorn internazionalista con molto burro e sale.
In questa versione Pixar della critica, esercizi di stile cartoon e di perfetta comunicazione ellittica dopo l’esaurimento dei giudizi diretti e letterari dei moderni, luccica poi spesso la massima nascosta. Come questa, risolutiva, formulata in delicato dispregio della filosofia dell’Academy che «gira le spalle alla nuova Golden Age dell’animazione: il senso per il pop, se uno non lo possiede, non se lo può dare».
Il pop di MM è da virtuosi, è spesso un colpo di sapienza, un brillio dell’intelletto sensibile. Il senso del pop è serio, rigoroso, perfino pedante nel suo apparente eclettismo. L’aura di queste pagine è il classico e l’inedito, uno sguardo novissimo sugli eterni «pesci rossi» nella palla di vetro: solo che Emilio Cecchi2 ci vedeva dragoni cinesi, mentre Mariarosa getta l’amo e li pesca senza pietà, poveri pesciolini. MM esclude programmaticamente il penoso eccesso di metafore e va sempre al sodo, al letterario e al politico, di ogni maledetto movie. Venezia diede il premio «Persol per lo stile» a Kathryn Bigelow, per quella «bella storia da raccontare» che fu The Hurt Locker. Un’attrice giurata disse di un racconto di guerra perfetto: «Manca di etica, non si può premiare». Ebbe comminati 6 Oscar.
Non chiedete a questo grande critico la morale della favola o il messaggio che trascende il mezzo. Non otterrete da lei nemmeno il punto e virgola, mio attrezzo prediletto, mia cadenza amata; Mariarosa Mancuso è un tipo asciutto, il suo senso del ritmo, e della misura, è da orecchio assoluto. Queste pillole sono biglie giocose e durlindane sospese sulla testa dei fessi, a difesa dei talenti e dei cercatori di talenti. Appunto. Non si può essere più crudeli di MM, e anche più amici di chi va al cinema. La philìa è infatti la sua vera vocazione nascosta, il risvolto soave della sua cattiveria presunta. Mariarosa Mancuso non scrive per sé, non tiene un diario, annota tutto in conversazione con il pubblico, di cui è devota parte senza essere schiava della sua ipostasi. Questa è la ragione della sua popolarità crescente, del bisbiglio subliminale che supera il circuito dei suoi lettori e si diffonde ogni volta che si va al cinema: che ne dirà MM? Se talvolta è severa, è perché (a suo modo) ci vuole bene. La sua brevitas si combina con una completezza da paura: c’è un film che MM non abbia visto? Il suo lexicon lo si può usare. Per divertirsi alle spalle dei noiosi. Per pensare senza il surrogato molesto della pensosità. Per giudicare senza che sia mai sputata una sentenza. Per andare al cinema molto e di buon animo. E per evitare qualche trabocchetto.

Fuoriprogramma 2

di
Aldo Grasso



Mariarosa Mancuso è il mio critico di riferimento (Cidierre): per la televisione, innanzitutto, per la letteratura, per il cinema. Ogni tanto anche per la vita, vista la nostra comune infanzia neorealista. Il sabato, il primo articolo che leggo sul «Foglio» è Popcorn perché mi restituisce il piacere antico e insuperato dell’attesa, en attendant lo Spettacolo. Popcorn non riferisce mai degli appelli degli attori italiani al Capo dello stato contro «l’abuso di potere, la vanità, il malcostume, il nepotismo» dello Spettacolo. No, la rubrica è puro bavardage, gossip raffinato, fiera delle vanità, spettacolo sull’abuso di potere, sul malcostume, sul nepotismo... È la chiacchiera che si offre come lavoro infinitamente serio sul linguaggio. È il sapore del popcorn, un istante prima di passare alle recensioni, al vero Spettacolo. Pop non è l’abbreviazione di popolare (dio ce ne scampi!) ma è solo lo scoppiettio del granoturco.
Di sicuro, compito del critico non sarà quello di stabilire percorsi obbligati (ci siamo appena liberati di certe riviste piacentine che imponevano ciò che bisognava leggere e ciò che bisognava ignorare, ciò che bisognava vedere e ciò che non bisognava vedere), dei sensi unici, dei piccoli dogmi mascherati da eresie. No, il compito del Cidierre consiste solo nel fosforeggiare, luciferare, stordire, nel suggerire ciò che altrimenti non si vedrebbe.
Cosa si chiede a un Cidierre? Almeno tre cose, se si è appena appena esigenti. La sensibilità, prima di tutto, che è un dono naturale, indispensabile per diventare connaisseur. Senza sensibilità si compilano bollettini, si resta impiegati della tautologia e si rischia di usare le idee come armi improprie. Poi, la cultura. Per parlare di cinema, diceva un amico saggio, bisogna almeno aver fatto il liceo classico, quello di una volta, con il latino e il greco. Bisogna aver confidenza con i libri, non vergognarsi della propria erudizione: il sapere è la base reale della visione (anche della tele-visione). Tra l’altro, Mariarosa Mancuso ha scritto saggi su Karen Blixen, Edith Wharton, Norman Douglas, Edmund Gosse, David Garnett. Non su Giorgio Faletti. Ha scritto stroncature memorabili su libri pretenziosi e sfortunatamente non oscurati, ma che nessuno osa criticare per via di quel famoso teorema di Karl Kraus: «In principio era la copia per recensione, e uno la riceveva dall’editore. Poi scriveva una recensione. Poi scriveva un libro, che l’editore riceveva e rispediva come copia per recensione. Il prossimo a cui arrivava faceva lo stesso. Così è nata la letteratura moderna». E non basta aver letto i Cahiers du cinéma, bisogna anche averli capiti. La terza qualità richiesta, infine, è la scrittura. Molti critici non sanno scrivere, annoiano prima ancora di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ritengono che lo stile sia un orpello, una petulanza ferale, un intralcio alla Ragione rischiaratrice. Mariarosa Mancuso, maestra della prosa, usa la forma della recensione breve per sviluppare una preziosa variante italiana dell’essay. Nella vita ho avuto un solo altro Cidierre, prematuramente scomparso. Si chiamava Giovanni Buttafava: buono ma non indulgente, generoso fino alla prostrazione. Sembrava un personaggio uscito dalle pagine di Robert Walser per la delicatezza di sentimenti che sapeva palesare e per l’ironica precisione con cui esprimeva giudizi. Da Buttafava hanno scopiazzato tutti, a volte senza nemmeno ringraziare.
Com’è difficile parlare di cinema in Italia! Negli anni del massimo fulgore di Cinecittà, quando i grandi registi italiani si chiamavano Camerini e Blasetti, molti letterati si sono accostati al cinema e all’esercizio della critica: Emilio Cecchi, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, solo per citarne alcuni. Ma i grandi scrittori hanno il vizio di offrire solo indicazioni per frequentare gli anfratti dei film, per mettere in disordine le nostre certezze, per ribadire la nostra inadeguatezza culturale. Finita la guerra, incombevano altri mandati sociali: anche il cinema doveva servire a costruire il presente, a compromettersi con la realtà, a cambiare il mondo con quella incalzante, salivosa immediatezza che non lascia un attimo di respiro al povero spettatore in cerca di evasioni. Ed è a questo punto che nasce la tonitruante figura del critico militante, mosso dalla famosa «scelta di campo» che obbligava alla cecità. Militante e cieco, due condizioni che mal si addicono allo spettatore di professione. Senza intentare processi (ormai com’è andata è andata), ma solo per avere una figura di riferimento, il padre della critica militante italiana si chiama Guido Aristarco. Forse molti lettori di Mariarosa Mancuso non sanno nemmeno chi sia il prof. Aristarco, ma altri ricorderanno come per anni in Italia non si sia potuto parlare di cinema senza fare i conti con l’invadente fantasma del professore.
Fondatore di «Cinema nuovo», autore einaudiano, capo riconosciuto di una setta di fanatici del Contenuto, padrone incontrastato della scena ideologica del dopoguerra, Aristarco è una di quelle persone che hanno scritto migliaia e migliaia di pagine sul cinema nei confronti delle quali uno può beatamente essere in totale disaccordo. Nel senso che non c’è di condivisibile nemmeno una virgola (sul cinema, sulla battaglia per il passaggio dal neorealismo al realismo, sulla politica, su tutto). Da questo punto di vista, il ritratto che Luciano Bianciardi fa di Aristarco nella Vita agra (nel libro è descritto con il nome di Fernaspe) è di sublime perfidia. Eppure il prof. Aristarco, ai tempi della famosa «dittatura culturale della sinistra» (che forse dittatura non era, ma assomigliava piuttosto a qualcosa come la servitù volontaria) è stato il primo in Italia a conquistare la cattedra universitaria di cinema, un paradosso su cui non si è mai riflettuto abbastanza.
«Cinema nuovo» è stato la palestra del critico militante, il cui modello, per filiazione diretta o anche per scissione, ha poi invaso la stampa quotidiana. Ne dà un buon ritratto Franco Fortini: «La critica di tendenza marxista è risolutamente giudicante, si pone di fronte a ogni opera da un punto di vista storicistico, volto ad individuare in quale misura trionfi in essa il realismo, cioè l’attitudine a rispecchiare nella forma letteraria (o cinematografica, ndr) le contraddizioni tipiche di una società». Ma siccome non ci facciamo mai mancare nulla, siamo riusciti a creare anche una via italiana alla critica militante. Nascono così strane figure di critici, ora produttori, ora funzionari Rai, ora biografi ufficiali di Fellini che conciliano il doppio mestiere senza tanti scrupoli, non essendo ancora apparso all’orizzonte lo spettro del conflitto d’interessi. A contrastare il militante, sempre per via accademica, nascono poi i critici strutturalisti, i critici sociologi, i critici semiologi, i critici narratologici, i critici decostruenti capaci di produrre guasti alla lingua italiana, prima ancora che al metodo, paragonabili solo ai casermoni o alle villette a schiera dei geometri. C’erano anche i cinefili, impauriti però troppo in fretta dalla loro purezza. Così hanno subito cercato rifugio nell’Istituzione (Rai, Sky, Festival, Uffici territoriali) per conciliare, come già avvertiva Gadda, la cattiva coscienza con lo stipendio fisso. Mariarosa Mancuso, rifugiandosi in Svizzera, ha avuto la fortuna di essere estranea a queste scelte di campo, nessuno l’ha mai incolpata di avere scarse curiosità per le difficoltà del presente, nessuno le ha mai chiesto di fornire indicazioni per migliorare questo eterno difficoltoso presente. La sua formazione filosofica le ha permesso infine di ritenere superflue e importune alcune discipline formalistiche molto echeggiate dai francesi.
La sua critica è semplicemente quella del creatore che si sovrappone a un altro, in una sfida all’ultimo stile. Non Cinema nuovo ma Nuovo Cinema Mancuso.

A

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ABOUT ELLY

di Asghar Farhadi
con Golshifteh Farahani, Shahab
Hosseini, Taraneh Alidoosti
2009, Iran, 119’

Iraniani ricchi, finalmente. Non ne potevamo più dei bambini in marcia su strade sterrate per restituire quaderni scolastici (devono essere venuti a noia anche ad Abbas Kiarostami, che ha ambientato tra le colline toscane Copia conforme con Juliette Binoche, dialoghi più efficaci del tavor). Il trentottenne Ashgar Farhadi indugia su fuoristrada giapponesi e borse Vuitton. I giovani iraniani si distinguono dai trentenni che fanno il bagno a Deauville o agli Hamptons ascoltando Lady Gaga solo per il chador e le canzonette locali. Affittano case sul mar Caspio, progettano fine settimana in compagnia mista, organizzano appuntamenti al buio. Oltre agli amici di sempre, Sepideh ha invitato Elly, la maestra d’asilo di sua figlia. Vorrebbe farla conoscere ad Ahmad, appena divorziato da una tedesca: di ritorno in patria per le vacanze, vorrebbe combinare con una moglie dei paesi suoi. La casa prescelta non è più disponibile, le tre coppie ripiegano su un vecchio edificio da sgombrare, spolverare, liberare dalle ragnatele. Ma il fatto che non siamo né in un ingorgo di Teheran né in una periferia con tetti di fortuna, che non vediamo bancarelle o motorette con almeno tre persone a bordo, fa ben sperare. I villeggianti hanno una passione per le sciarade e chiacchierano a un ritmo che in un film iraniano non si era mai sentito, anche questo fa ben sperare. La macchina da presa non sta mai ferma, cosa mai vista in un film farsi. Sbrigate le faccende, sistemati i bambini, preparata la cena, sembra che il film cominci ad avvitarsi su se stesso e sulle proprie chiacchiere. Un Grande freddo made in Iran con attori bravi, senza la tentazione neorealistica dei «presi dalla strada» (Golshifteh Farahani era in Nessuna verità di Ridley Scott accanto a Leonardo DiCaprio, il regime iraniano non ha gradito). A questo punto il regista, nonché sceneggiatore, trova l’incidente giusto per sorprendere lo spettatore. L’atmosfera cambia, le gentilezze alla sconosciuta si tramutano in sospetti, le donne si coalizzano contro l’estranea, gli uomini borbottano «cosa dirà la gente». Spunta un fidanzato di Elly, non sappiamo se vero o presunto. I grandi pettegolezzi sotto il chador alludono alla menzogna e al posto delle femmine nella società iraniana. Metafora, metafora: era questa l’intenzione del regista, che però non è riuscito a rovinare del tutto il suo film, Orso d’argento alla Berlinale 2009 e vincitore a Tribeca.

ADVENTURELAND

di Greg Mottola
con Jesse Eisenberg, Kelsey Ford,
Martin Starr, Kristen Stewart
2009, Usa, 107‘

Doccia fredda per James. Vorrebbe studiare giornalismo alla Columbia University e passare l’estate in Europa, il tracollo finanziario del padre lo costringe a trovarsi in fretta un lavoro. Incapace a tutto, privo di esperienze, finisce in un parco divertimenti di Pittsburgh. Non i parchi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nuovo Cinema Mancuso