La vita digitale
eBook - ePub

La vita digitale

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La vita digitale

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Ormai abbiamo in tasca il mondo intero. In pochi centimetri di plastica e microchip sono racchiuse infinite possibilità di comunicare, informarsi, divertirsi, concludere un affare, e addirittura innamorarsi. È il telefonino: simbolo dell'era digitale, strumento che incarna e riassume il bisogno tutto umano di parlare, ascoltare, capire. C'è chi sfoggia il modello di quarta generazione e chi eredita quelli dei fratelli maggiori. Chi ci urla dentro gesticolando e chi lo contempla come in un raptus. A tutti, questo piccolo oggetto ha rivoluzionato la vita. In meglio o in peggio? Stiamo rischiando di chiuderci in un autismo digitale? Di volta in volta idolatrato come l'incarnazione stessa del progresso o al contrario additato come allegoria di una generazione incapace di relazionarsi con sé e con il prossimo, il telefonino è lo specchio di un'epoca, dà corpo alle contraddizioni di tutta la società. Vittorino Andreoli prende le mosse dall'uso e abuso del cellulare per interrogarsi sugli uomini, le donne e soprattutto i ragazzi e le ragazze di oggi, sui loro stili di vita, sui loro atteggiamenti verso gli altri, verso la vita stessa. Celebra le conquiste dell'informatica e le opportunità illimitate di un mondo in cui le distanze non esistono più, ma al contempo ci invita a non perdere di vista la dimensione umana, a non sacrificare la nostra intelligenza a un idolo tecnologico. E a non affidare alle macchine il nostro potere di pensare e decidere.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a La vita digitale di Vittorino Andreoli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Psicologia e Storia e teoria della psicologia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628225

LA TECNOLOGIA CAMBIA LA VITA

Il comportamento dell’uomo è la sintesi tra la propria biologia (la macchina) e l’ambiente in cui si trova a operare. L’esistenza di ciascuno è dunque il risultato dell’incontro del proprio Io con le condizioni in cui vive, legata alle cose e alle persone con cui si stabiliscono legami o anche soltanto rapporti fugaci.
Questa affermazione permette di tratteggiare uomini nuovi in ambienti nuovi. Esistenze nuove rispetto al passato, poiché è cambiato l’ambiente in cui l’uomo si è posto. Nuove anche se non vi sono stati segni di modificazioni genetiche; anche se, in altri termini, la fabrica humanis corporis è la stessa e compie le medesime operazioni di qualche secolo fa, quando le esistenze si presentavano con profili e caratteristiche così lontane da quelle attuali da far parlare di archeologia umana.
Le modificazioni del gene sono possibili, ma accadono raramente rispetto alla più facile mutazione dell’ambiente esterno che, secondo una definizione alla moda, si chiama anche cambiamento della società.
La scoperta che ha permesso di mettere in primo piano l’ambiente, inteso sia fisicamente sia come relazioni interumane, si lega alla plasticità del cervello, alla sua possibilità di strutturarsi sulla base dell’esperienza e dunque sul flusso stesso dell’esistere.
Nel nostro cervello, insomma, ci sono spazi progettati in maniera aperta che permettono di «organizzare» gli interni a seconda del gusto, dell’esperienza di ciascuno. In questo modo il cervello costituisce un terminale straordinario poiché dirige i comportamenti rigidamente fissati, senza possibilità di modificazione o di flessibilità (o sono o non sono affatto), ma permette anche di inventare (almeno entro certi limiti) dei comportamenti possibili, non determinati, e consente persino di disegnare il futuro della propria storia: terminale per il passato e punto di partenza per una storia che ancora non c’è.
Un richiamo per affermare che l’ambiente in cui ci troviamo produce modificazioni strutturali nel nostro cervello cui si legano comportamenti nuovi.
Ogni esistenza realizzata sarebbe potuta essere molto diversa se si fosse svolta in altri ambienti e con persone e relazioni differenti.
Il primo studio controllato sulla modificazione del comportamento umano a seguito di una radicale trasformazione dell’ambiente è stato condotto da Margaret Mead. L’antropologa americana aveva portato con sé a New York alcuni individui che avevano vissuto fin dalla nascita in Nuova Guinea, in uno schema di esistenza identico a quello di trentamila anni fa. Un salto dall’età del ferro a quella di Manhattan che negli anni Cinquanta del Novecento, quando questa analisi venne svolta, era il prototipo estremo della modernità. Ebbene quelle persone che senza questo «esperimento» sarebbero rimaste legate a un’esistenza lontana, nell’archeologia del tempo, hanno assunto nuovi comportamenti e cambiato costumi operando in pochi mesi un salto di storia e di età impensabile. Hanno mostrato una grande capacità di adattarsi al nuovo ambiente passando da una mentalità totalmente magica all’uso della razionalità, dall’animismo – che mette in ogni oggetto e in ogni avvenimento uno spirito guida – al principio di non contraddizione. Comportamenti ancora riscontrabili lungo il fiume Sepik in individui che appartengono alla stessa biologia e quindi alla medesima costituzione genetica.
Ma anche all’interno della nostra stessa civiltà è possibile osservare come il comportamento di alcuni individui mostri caratteristiche esistenziali per certi aspetti antinomiche in ambienti differenti: sul lavoro oppure dentro casa e in un passaggio brusco che appare incredibile.
Un’altra osservazione, in questo àmbito, è lo scarto nella risposta a un medesimo stimolo a seconda che siamo riposati e sereni oppure stanchi e in una condizione di stress.
Insomma, l’ambiente è fatto di luoghi e di persone, ma anche dei nostri sentimenti che finiscono per velare ambiente e persone e di percepirli «a nostra immagine», anche se mutevole.
Questa descrizione in cui tutto si riduce ai vissuti, il che significa come uno vive in quel momento una certa relazione, non impedisce di vedere le esistenze dei gruppi ristretti o ampi, e quindi di entrare in una visione che dalla psiche di ciascuno passa alla dimensione della sociologia e quindi alle osservazioni di comunità sopraindividuali. Come vedere una sola pianta oppure, dall’alto, la foresta, un insieme di alberi che si fanno unità. Perdiamo alcuni connotati della singolarità, ma recuperiamo quelli della totalità e dell’influenza che un albero esercita sull’altro.
Analogamente due persone in relazione permettono di percepire una dimensione che sfugge se le si studia separatamente. E così capita se si guarda al gruppo che chiamiamo famiglia o a quello che costituisce un paese, oppure una città fino alla nazione e a una civiltà: l’Occidente o l’Oriente.
Anche in questa dimensione più ampia gli ambienti mostrano di avere un’enorme influenza sul comportamento comune, sulla massa.
Insomma, le esistenze mutano – e grandemente – dentro popolazioni che non hanno subìto modificazioni genetiche, mentre è cambiato l’ambiente sociale in cui vivono.
dp n="15" folio="14" ?
Queste trasformazioni possono essere di due tipi: lente oppure acute. Nel primo caso si chiamano anche «ordinarie», nel secondo, invece, «rivoluzionarie».
Alcuni elementi sociali sono diventati talmente innovativi nelle diverse fasi della storia da avere modificato totalmente il regime e lo stile di vita. Ecco dunque la possibilità di esistenze umane diversissime a seguito di cambiamenti sociali rapidi se non improvvisi.

IL MONDO PRIMA DEL TELEFONINO

È probabile che, come indicano gli antropologi, la prima tappa nel processo di umanizzazione sia da legare all’uso del bastone per raggiungere oggetti troppo alti per la dimensione corporea. Un esempio di protesi, di correzione di un limite delle caratteristiche anatomiche dell’uomo. Un’acquisizione che lo rende più adatto nei confronti dell’ambiente fisico.
Una tappa successiva di grande rilievo si lega alla ruota, e quindi alla possibilità di trasportare oggetti da un luogo all’altro superando le difficoltà poste dal trascinamento che richiedeva un maggiore impiego di forza. La ruota che poggia sempre su un punto del terreno riduce la resistenza che, a parità di peso, è proporzionale proprio alla superficie di contatto tra la terra e l’oggetto che deve essere trascinato.
La storia della tecnologia è al contempo la storia dei cambiamenti nell’attività dell’uomo entro lo stesso ambiente. E se solo si confronta il prima e il dopo di ciascuna innovazione, ci si accorge di un vero e proprio sconvolgimento.
Un addobbo, questa volta recente e che mi pare straordinario, almeno nella sua applicazione storica, è legato alla invenzione del segnatempo, dell’orologio. Poterlo portare attaccato a una catena, oppure al polso, sta a indicare il dominio del tempo, una sorta di controllo del suo scorrere.
Anche se il tempo è espressione di una meccanica celeste e dunque non modificabile dall’uomo, avere la possibilità di conoscere in ogni momento la sua precisa definizione ha permesso di inserire nell’esistenza la programmazione, la previsione, di ampliarla e renderla molto tecnica. Se solo noi tentassimo di eliminare questa conoscenza, questo dominio del tempo, nella precisione dell’attimo e delle sue frazioni, ci accorgeremmo di una perdita che ci renderebbe impotenti rispetto a molte delle nostre azioni e delle nostre strategie.
C’è stata una fase storica in cui il dominio del tempo era legato ad alcuni e non a tutti, e questo dava vantaggi sorprendenti.
Io sono affascinato dalla conta precisa, anche se convenzionale, del tempo e da questo strumento che porto al polso come una protesi abituale, tanto da avvertire un senso di incompletezza se mi manca. Come se dovessi accorgermi di non avere più il naso o me ne trovassi uno diverso.
È indubbio che giungere in ritardo oppure con qualche minuto di anticipo a un incontro importante, grazie al tempo che si può misurare perfettamente, cambia il significato di una stessa azione, fino ad attribuirvi qualità persino opposte. Se si giunge tardi a un appuntamento d’amore, si potrà essere considerati come dei poco interessati e dunque degli amanti deboli; se si tratta di un appuntamento di lavoro, quel ritardo mostrerà un’incapacità di rispettare la parola data o di essere poco previdenti, e in certe attività questa caratteristica è determinante. Si è giunti a dire che c’è chi è sempre in ritardo o in anticipo di un minuto rispetto al tempo previsto e indicato e ciò delinea due tipologie differenti e anche due grandezze sul piano del successo.
Un altro strumento, che mi pare di simile entità o comunque tale da aver dato caratteristiche nuove all’uomo e alla sua esistenza, è la penna come oggetto appeso sempre al corpo, sia pure mediante l’abbigliamento. Un tempo averne una era segno evidente di una capacità rara, di saper leggere e scrivere e questa distinzione è stata un’indice di potere chiaro, un confine netto che distingueva una classe succube da una che invece sapeva affrontare il senso delle parole scritte e sfruttare gli effetti della firma e della scrittura. La differenza tra il verba volant e lo scripta manent si legava a una penna.
Anche in questo caso per renderci conto dei vantaggi e del senso di un’acquisizione rivoluzionaria basterebbe pensare a cosa si ridurrebbe la nostra attività senza saper scrivere, senza tenere in tasca un tubicino che lascia segni indelebili, che ci permette di apporre una firma in ogni istante, di prendere appunti per rinforzare la memoria, di aver attestati di impegno ben più saldi delle parole, che non lasciano traccia e non diventano mai prova.
Io adoro le penne, sono affascinato da questa scoperta che si impone tecnologicamente sul cammino percorso dalla lingua e dalla lingua scritta. Mi piace raccoglierle, usarle, tenerle in tasca, toccarle. La penna fa parte della mia anatomia ben più di altri organi funzionalmente inutili e che al massimo mantengono un significato puramente estetico.
Penso all’importanza degli amanuensi, di coloro che ricopiavano libri e codici. La mia memoria grazie alla penna ha trovato un supporto straordinario che mi dà maggiore sicurezza rispetto all’incertezza del ricordo, mi dà maggiore determinazione fino a farsi strumento di invenzione.
Un addobbo che ha cambiato l’esistenza, distinguendo tra un’epoca prima della diffusione della penna e una successiva.
Insomma, la tecnologia genera i fenomeni sociali, cambia la storia.
Un’ulteriore rivoluzione dell’esistenza si lega all’automobile che ormai va intesa come un allargamento della dimensione corporea umana, fino a dover porre l’uomo tra i «corazzati» piuttosto che tra i primati. Se un alieno proveniente da altri mondi esaminasse un uomo, gli apparirebbe come qualcosa che ogni tanto lascia la corazza per andare nudo da qualche parte, ma poi indossa nuovamente il suo guscio, l’automobile appunto.
Si tratta indubbiamente di un’innovazione straordinaria che gli ha dato una velocità da cui era ben lontano. Oggi l’uomo può correre sulla terra sino a trecento chilometri l’ora e superare cervi, cani, ma anche animali di grande taglia, come le pantere e gli gnu.
Ha stabilito un rapporto continuo con la propria automobile, giungendo al punto di non usare quasi più le gambe: ha l’auto sempre a portata di mano come appunto una chiocciola che può abbandonare la propria dimora per un po’ ma la tiene vicino; come una tartaruga di mare che può uscire per compiere una certa azione ma non rinuncerà mai alla propria corazza.
Un addobbo diventato necessario, senza auto non si è uomini e chi non la può usare è un quasi-uomo, un demi-homme.
Le civiltà in cui non è ancora giunta si trovano in un primitivismo che non permette di esser competitivi in nulla. L’auto come condizione e come caratteristica della ominazione.
L’essere dentro la nuova pelle che ora è fatta di metallo, fa sentire bene, mentre fuori ci troviamo spaesati.
Più della velocità, oggi contano gli accessori dell’auto: come si aprono gli occhi del nuovo limite corporeo (i vetri), come si puliscono (i tergicristalli automatici regolati da sensori a seconda della quantità di pioggia), la lucentezza della carrozzeria, la forma esteriore del nostro corpo e dunque l’estetica.
L’auto è una parte così grande di noi che non potremmo mai rinunciarvi, nonostante i costi, come se domani mettessero una tassa sul pene maschile o sul seno femminile: indipendentemente dal peso fiscale nessuno vi rinuncerebbe.
E certo ci sono costi drammatici come l’inquinamento, l’effetto serra. L’apocalisse coglierà l’uomo mentre è in automobile e mentre suona il clacson in preda alla disperazione, oppure mentre ascolta le ultime notizie dall’autoradio. Al Giudizio Finale arriverà in auto, sperando di avere il tempo di andare a lavarla. Un gesto di purificazione, poiché è come lavare se stessi, il proprio corpo.
Sempre l’esperienza, la relazione con il mondo esterno, lascia traccia, ma ci sono legami particolari che portiamo dentro di noi e che sono capaci di trasformarci sulla base proprio di un vissuto significativo.
È come se il mondo esterno entrasse dentro di noi e si facesse noi. Il mondo di fuori diventa uomo, inteso come ciò che lo individua e caratterizza.
Capita sovente di sentire raccontare di un’esperienza che ha avuto effetti straordinari e talora sconvolgenti, vissuta come una ferita non rimarginata che ci si porta dietro. Quell’esperienza, nella cornice di quel momento, all’interno della sensibilità propria del singolo, si impianta dentro di noi e trasforma quel pezzo di mondo con cui siamo venuti in contatto in qualcosa che si fa indelebile, che si fa struttura dentro il cervello plastico, e condizionerà da quel momento il nostro comportamento come si trattasse di un imperativo del gene, mentre è soltanto frutto di quell’incontro tra Io e mondo esterno.
Ecco perché un’innovazione tecnologica che si fa abitudine, e dunque qualcosa che si ripete, induce una necessità, un bisogno che ci dà gratificazione o frustrazione, a seconda che si ripresenti secondo le attese o semplicemente scompaia e rimanga puro desiderio.
Quella esperienza sarebbe potuta non presentarsi mai se soltanto fossimo stati inseriti in un ambiente diverso o se non avessimo mai usato quella possibilità che la tecnologia ha di fatto posto nell’ambiente in cui viviamo. E così diventa necessario quello che, in condizioni differenti, sarebbe potuto essere assolutamente indifferente.
Il mondo dentro di noi si forma in parte da quello fuori di noi e si giunge a un punto in cui siamo mondo esterno interiorizzato e siamo portati a compiere certi comportamenti con la stessa forza di quelli legati al cervello meccanico, determinato dal nostro esserci e dipendente esclusivamente dai geni che ci formano.
Le esperienze si fanno biologia e un uomo che vive in una società di automobili che lo pone in un’auto in corsa è un uomo diverso da quello che non la usa affatto, sia perché la rifiuta, sia perché vive in una società pre-tecnologica e in questo senso più antica o più primitiva.
Talora l’esperienza si fa imperativo poiché s’impone e condiziona fino al punto da non poter vivere senza quell’oggetto che non c’era fino a qualche anno prima, ma che ora è diventato parte essenziale, senza il quale non sembra possibile essere.
Un’espressione del processo di cui parliamo – del mondo che entra dentro di noi e diventa noi – la si può meglio cogliere attraverso le «idee fisse». Ognuno ha avuto occasione di sperimentare come un’idea che si è presentata in un certo momento preciso, e che dunque prima di allora non esisteva in noi, a poco a poco si rinforza e si ripete nella nostra mente. Si dice che l’idea si impone, si presenta senza una utilità e senza la possibilità di esser guidata. Diventa ossessiva e può giungere fino a invadere tutta la mente che sembra paralizzarsi su quella idea. Un meccanismo che appare ora necessario eppure prima non c’era.
Un’idea fissa che si radica sulla morte e sulla voglia di morire si fa suicidio.
Per dare un’immagine della capacità di entrare in sintonia con l’esperienza e con oggetti esperiti, e quindi con l’auto che è ora al centro della nostra considerazione, basta ricordare la capacità che abbiamo di integrarci, di appropriarci dell’auto e di farne corpo.
Dopo un primo periodo di apprendimento (la scuola guida), muoviamo i piedi sull’acceleratore, sul freno e sulla frizione alternativamente e in maniera spontanea, senza che ci accorgiamo di compiere quei movimenti e senza avere coscienza di una precisa capacità di dosare la pressione in modo da frenare bruscamente oppure progressivamente. Analogamente a come usiamo i piedi per camminare, senza accorgerci di girarli ora a destra ora a sinistra, imponendo movimenti muscolari che sono alla base dell’aggiustamento di direzione. Quell’auto s’inserisce perfettamente nei meccanismi del nostro cervello che diventano automatici al punto da rientrare negli stimoli-risposta, come se fossero eseguiti senza la decisione del cervello e dunque senza implicare la volontà che impiegherebbe troppo tempo per un’azione utile, come quando su un passaggio pedonale fermiamo i nostri piedi per evitare di essere travolti un metro più avanti da qualcuno che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita digitale