Premessa
Lo straniero, l’immigrato: ogni giorno parliamo e sentiamo parlare della sua presenza, del difficile eppure ineludibile rapporto con lui. È questo un fenomeno di grande attualità, sovente presente nel dibattito politico, enfatizzato dalla cronaca mediatica, ma soprattutto è un fenomeno nuovo per il nostro paese, da secoli terra di emigrazione, inedito nelle sue proporzioni inaspettate, sorprendente nella sua accelerazione, problematico per la nostra società del benessere. Le reazioni che suscita appaiono diversificate, a volte persino contrapposte, e tra di esse va registrato anche l’atteggiamento cristiano che aspira a essere letto come servizio reso all’uomo e alla polis.
I cristiani, infatti, sanno di poter essere «esperti» in stranierità e in accoglienza degli stranieri, perché durante la loro storia si sono addirittura chiamati, e sentiti per lungo tempo, «stranieri», e hanno sempre avuto al centro della loro etica l’accoglienza dello straniero, del pellegrino, del viandante, secondo l’identificazione annunciata dal loro Signore: «Ero straniero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). Oggi, tuttavia, nemmeno i cristiani possono rifugiarsi in risposte prefabbricate a problemi che, nel loro concreto apparire nella storia, vanno affrontati con creatività e audacia e, al tempo stesso, con prudenza e saggezza: i cristiani devono quindi cercare ispirazione soprattutto nella Bibbia, senza accontentarsi di soluzioni immediate e adatte a tutti gli usi.
C’è una tentazione, diffusa anche in alcuni ambienti cattolici lodevolmente impegnati in prima fila sul fronte dell’accoglienza degli stranieri, di pensare alla perfetta uguaglianza dell’altro, al criterio dell’accoglienza sempre e in ogni caso di tutti quelli che bussano alle nostre frontiere. Ora, siamo consapevoli di quello che la storia ci insegna, e cioè che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane, così come siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell’universalità dei loro diritti, ma questo non significa praticare un’accoglienza passiva, acritica e illimitata degli immigrati. È eticamente corretto accogliere qualcuno senza potergli fornire casa, pane, vestito e, soprattutto, una soggettività e una dignità nella nostra società? L’accoglienza è altra cosa dal soccorso in caso di emergenza.
Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell’accoglienza: non i limiti dettati dall’egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che soffre, ma i limiti imposti da una reale capacità di «fare spazio» agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti. Certo, i criteri per rifiutare qualcuno non devono essere ispirati da ragioni ideologiche, né tanto meno da una scelta degli immigrati in base ad appartenenze religiose e a una maggiore «somiglianza» con i cittadini che li accolgono: quanti anche tra i cristiani si lasciano attrarre dalle sirene di questo tipo di selettività, non dimentichino l’antico e sempre valido ammonimento di sant’Ambrogio, il quale sosteneva che «scegliere gli ospiti è avvilire e svuotare l’ospitalità»…
È comunque indubbio che, cristiani e non cristiani, dobbiamo ripensare alle categorie della cittadinanza, della stranierità, dell’ospitalità, non come mero esercizio dialettico o come astratti sistemi giuridici, ma come riflessione sul senso della nostra convivenza civile, sull’orizzonte che vogliamo dischiudere alla nostra società, sulla qualità della nostra vita e di quella delle generazioni a venire.
Ora, una religione come il cristianesimo – che al suo apparire nel mondo greco e romano dovette superare la diffidenza, l’ostilità e addirittura la persecuzione da parte della cultura dominante che non ne tollerava la «differenza», il modo diverso di porsi non tanto rispetto alla propria matrice ebraica, quanto nei confronti di una religiosità pagana disposta ad accettare e assimilare qualsiasi divinità che non pretendesse l’esclusività – ha finito per divenire ben presto a sua volta cultura dominante e per identificarsi con la società stessa, durante la quasi bimillenaria stagione della «cristianità» che gli ultimi due secoli hanno visto tramontare non senza sussulti di restaurazione. Così, quando i cristiani parlano oggi di «stranieri» e li giudicano più o meno capaci di integrarsi nelle nostre società e culture, dimenticano che all’origine l’espressione «stranieri e pellegrini» – che si trova nella Prima lettera di Pietro (2,11) – caratterizzava proprio loro, così estranei e «differenti» rispetto alla mentalità circostante.
È difficile negare che questo principio ispiratore dello stare nel mondo e nella storia dei cristiani sia caduto nell’oblio durante quei lunghi secoli in cui, per lo meno in occidente, vi è stata simbiosi tra fede cristiana e civiltà, capace di generare un’entità sociale, politica, economica e istituzionale. Eppure quella condizione di «stranierità» – che il vangelo definisce come «stare nel mondo senza essere del mondo» (cfr. Gv 17,11-16) – ridiventa essenziale oggi per un cristianesimo che deve riconoscere la propria situazione di minoranza anche in paesi di antica cristianizzazione. Del resto, fin dal suo nascere sul tronco di Israele, la chiesa si riconosce abitata da una vocazione all’esilio tra le «genti» (le «nazioni», come la terminologia biblica definiva i pagani), senza mai identificarsi con alcuna etnia, senza mai appiattirsi su un’unica cultura, senza mai adagiarsi in un determinato assetto storico-culturale. C’è anzi da chiedersi se non sia stata proprio questa capacità di «inculturazione», di adattamento, di simbiosi critica ad aver consentito alla fede e alla testimonianza cristiana di declinarsi in modi differenti conservando unità interiore e riconoscimento reciproco tra i fedeli nonostante le vicissitudini della storia e il vasto orizzonte geografico.
Riscoprire questa dimensione della stranierità consentirebbe di misurarsi adeguatamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e differenza, tra solidarietà e diversità, tra convivenza civile e alterità. Del resto, l’elementare esperienza umana mostra che siamo «stranieri a noi stessi», come ci ricordano concordi le svariate voci della cultura del XX secolo – dalla psicanalisi alla filosofia, dalla letteratura alla poesia – quando indicano la stranierità come dimensione costitutiva dell’uomo.
Stranierità allora significa, anche per la chiesa, riconoscere gli assetti culturali come provvisori e transitori, e distinguere la «verità» – eccedenza che supera tutti e che nessuno può possedere – dalle sue definizioni. Il Vaticano II ricordava come anche le altre religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra aetate 2): riconoscendo la presenza di questi «semi di verità» e vivendo la stranierità, la chiesa può scoprirsi essa stessa «seme», annuncio e prefigurazione di una dimensione che la supera infinitamente e alla quale dà il nome di «regno di Dio». Ma allora l’annuncio cristiano avverrà in una dialettica in cui la de-culturazione dell’evangelizzatore si accompagna alla in-culturazione del Vangelo; allora l’altro cesserà di essere semplice «oggetto» destinato a essere condotto volente o nolente alla «mia» verità, unica e universale, e diverrà «soggetto» da accogliere nella sua unicità, con la «sua» verità. Il discernimento della «propria» verità, allora, non potrà avvenire senza l’altro, né tanto meno contro l’altro, non si lascerà ingabbiare in categorie giuridiche o in affermazioni dogmatiche, ma troverà spazio nella storia grazie all’incontro tra diversi, tra stranieri che scoprono possibile una comprensione e una relativa comunione proprio in virtù della rinuncia a essere «padroni di casa», unici detentori del senso e proprietari della verità. Per tutti i cristiani la conoscenza della verità, del bene e del male nell’etica è sempre una conoscenza limitata e relativa, e in questo campo gli «altri» non sono gli avversari della verità bensì occasioni per interrogativi, ricerche, approfondimenti.
Forse questo della stranierità è un campo che andrebbe maggiormente coltivato e indagato sia da laici che da cattolici, in una stagione che vede ciascuno ripiegarsi su se stesso. Sapersi e sentirsi tutti «stranieri» ci aiuterebbe a cogliere l’altro nell’interezza e nella complessità della sua persona, senza ridurlo ai problemi che la sua presenza comporta. Oggi la sfida è per tutti quella di articolare verità e alterità nel senso della comunione, dell’ascolto e dell’incontro, non dell’esclusione, dell’arroganza e dell’autosufficienza. In questa sfida è grande la tentazione di continuare a ragionare considerando se stessi come «norma» e, quindi, di esercitare pressioni per essere riconosciuti nel ruolo di reggenti in una società in cui sono tramontate le ideologie messianiche e faticano a divenire eloquenti le etiche laiche. Cedere a questa tentazione porterebbe a sostituire la logica della «maggioranza» che impone le proprie certezze con quella dell’influenza del gruppo di pressione che utilizza mezzi e strategie tipici delle lobbies, oppure con lo sdegnoso e agguerrito rinchiudersi nei resti di una cittadella fortificata in attesa di stagioni migliori.
Sì, oggi c’è troppa nostalgia di «cristianità»: si riaffacciano pretese e invadenze e si vorrebbe imporre ciò che nel cristianesimo si può solo proporre. Ma quella stessa Parola di Dio che situa i cristiani come «stranieri e pellegrini» nella storia richiede anche di non strutturare la loro presenza sui modelli politici mondani (cfr. Lc 22,25-27): per i credenti l’essere nella storia deve far emergere la «riserva escatologica», quell’attesa vigilante di «cieli nuovi e terra nuova» che è costitutiva della loro identità e che fonda la loro prassi anti-idolatrica.
L’essere cristiano non può lasciarsi rinchiudere nell’identificazione con uno specifico progetto di liberazione, di giustizia e di pace, né con le culture generate dall’identità cristiana. Il posto dei cristiani è nella compagnia degli uomini. Con questi – senza alcun titolo che a priori li garantisca più degli altri sulla realizzazione di un progetto sociale – dialogheranno e si confronteranno con franchezza e senza arroganza, memori che il loro Signore e Maestro li ha chiamati «piccolo gregge», invitandoli a «non temere» (Lc 12,32): realtà quotidiana di una minoranza fiera della propria identità ma non arrogante, consapevole che, pur senza mai tralasciare di predicare il Vangelo, il risultato non dipende dalla sua volontà perché – come ricorda san Paolo – «non di tutti è la fede» (2Tess 3,2).
È all’interno di questo quadro storico che vorrei offrire alcuni spunti per orientare il cammino verso un’assunzione consapevole della stranierità e una prassi credibile e feconda dell’ospitalità. Ho articolato la mia riflessione in tre tempi, a partire dai dati del patrimonio scritturistico proprio della mia fede cristiana: dapprima un percorso sullo «straniero» nella Bibbia, per evidenziare come questa «qualità», propria del popolo di Dio quando non possedeva ancora la «terra promessa» o ne era stato esiliato, non è del tutto smarrita una volta insediatosi in Israele ma diviene anzi il parametro per regolare i rapporti con i forestieri che dimorano nel medesimo luogo. La stranierità sarà anche una delle connotazioni proprie a Gesù di Nazaret e ai suoi primi discepoli, sia in terra di Israele che nella diaspora tra le genti del Mediterraneo.
La seconda riflessione ha in esergo l’ammonimento che il Signore nel giorno del giudizio rivolgerà agli uomini, ponendo l’ospitalità offerta o meno allo straniero come criterio di discernimento della sua presenza: «Ero straniero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). Cercherò di analizzare questa equivalenza tra lo straniero e il Signore a partire dall’episodio di Abramo al querceto di Mamre, vicenda paradigmatica dell’ospitalità sia nella tradizione ebraica che in quella cristiana, riecheggiata anche nel Nuovo Testamento: «Non trascurate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).
Infine, alla luce di questi fondamenti biblici e facendo tesoro anche delle scienze umane, suggerisco alcuni elementi per una «deontologia dell’accoglienza», modalità concrete di praticare l’ospitalità anche nel contesto culturale, economico e sociale odierno, così mutato rispetto al mondo seminomadico mediorientale che costituiva il retroterra sociologico delle testimonianze bibliche. Questo perché resto convinto che dalla nostra capacità di accogliere l’altro, lo straniero, il diverso dipende la qualità dei nostri rapporti umani anche con chi ci è vicino, prossimo, amico: fare spazio all’altro significa arricchire la propria identità, aprirle orizzonti nuovi, mettere ali alle nostre radici.
Lo straniero nella Bibbia1
Come un nativo del paese sarà per voi lo straniero che dimora con voi; tu l’amerai come te stesso, poiché foste stranieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio.
Lv 19,34
Tu solo sei così forestiero da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni?
Lc 24,18
Perché noi cristiani, come pure gli ebrei, quando vogliamo riflettere su un tema in modo da trarre ispirazione per il nostro comportamento nella storia, nel nostro camminare quotidiano tra gli uomini, ricorriamo al Libro per eccellenza, la Bibbia? Perché lo leggiamo, lo meditiamo, tentiamo di interpretarlo, per trovare in esso la Parola di Dio e, trovatala, avvertiamo anche il bisogno di commentarla, al fine di realizzarla, di renderla «azione nostra»? La risposta è semplice: nella Bibbia quale libro ispirato e ispiratore, noi credenti riconosciamo innanzitutto un insegnamento, cioè una manifestazione della volontà del Dio al quale aderiamo. Questo Libro da circa tremila anni ci fornisce un’identità di popolo nella storia, e l’incontro personale con la Parola in esso contenuta ci conduce a rinnovare l’alleanza con Dio: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo!» (Es 24,7). In altre parole, accogliendo e realizzando l’insegnamento della Bibbia, noi scegliamo una strada di vita e combattiamo il dilagare del potere del male e della morte.
È dunque a...