Memorie di una ladra
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Memorie di una ladra

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Memorie di una ladra

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"Memorie di una ladra" si ispira a una donna, Teresa, che la Maraini ha incontrato in carcere nel 1969 e ne racconta con ironia, simpatia e semplicità le quasi oneste imprese ladresche. Ma questo romanzo è anche il ritratto di una Italia povera ma inventiva, intenta alla difficile arte della sopravvivenza. Da questo romanzo è stato tratto l'omonimo film straordinariamente interpretato da una splendida Monica Vitti diretta dal grande regista Carlo De Palma.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858626061
Mia madre aveva quindici anni quando ha partorito il primo figlio, Eligio. Poi ha partorito Orlando che è del 1912. Quando sono nata io compiva ventiquattro anni. Aveva già fatto parecchi figli, alcuni vivi, altri morti.
Dicono che sono nata male, mezza asfissiata dal cordone ombelicale che mi si era arrotolato attorno al corpo come un serpente. Mia madre credeva che ero morta e mio padre stava per buttarmi nell’immondizia.
Allora dicono che dalla mia bocca grande e nera è uscito un terribile grido rabbioso. E così hanno capito che ero viva, hanno tagliato quel serpente, mi hanno lavata e cacciata dentro un letto con gli altri miei sei fratellini.
La zia Nerina dice che da piccola ero una scimmia, pelosa, nera, dispettosa e imitativa. Però io non ci credo perché da quando mi conosco, sono sempre stata di pelle chiara e di capelli castano-rossiccio. Io comunque non ricordo niente di quando ero molto piccola. Il primo ricordo che ho è di quando avevo sei anni e mio fratello Orlando mi ha ficcato un dito dentro l’occhio sinistro. Dice che avevo l’occhio lucido e chiaro come una pietra e lui questa pietra la voleva per giocarci. E così per poco non mi accecava.
Questo primo ricordo è appiccicato a un altro ricordo, tutti e due dello stesso periodo, non so quale viene prima.
Una notte mi sono svegliata per un sogno pauroso che ora non ricordo, mi sono alzata e sono andata in cucina a bere dell’acqua. Passando davanti alla porta della stanza dove dormivano mio padre e mia madre, ho sentito un piccolo suono, come un lamento. Ho messo l’occhio al buco della chiave e ho visto mio padre che dormiva raggomitolato a bocca aperta e mia madre seduta tutta nuda sul letto che rideva e si toccava con le dita in mezzo alle gambe.
Lì per lì ho pensato che giocava così ho continuato a pensare per molti anni. Poi però ho cominciato a farlo anch’io questo gioco e allora ho capito che non era per niente un gioco ma qualcosa di forte e di ubriacante.
Mia madre me la ricordo bene, aveva un bel corpo, era robusta, con i polsi e le caviglie delicate. Aveva molti capelli, chiari chiari e li portava arrotolati attorno alla testa. Era allegra, energica. Però ogni tanto aveva dei dispiaceri, la vedevo abbacchiata.
Le dicevo: mamma, che hai? Lei mi tirava uno schiaffo sulla bocca così forte che mi faceva sanguinare i denti. Era molto orgogliosa questa madre mia e non voleva ammettere di essere triste.
Io crescevo e mi attaccavo molto al gioco. Stavo tutto il giorno per la strada con le amiche, a giocare. Giocavamo a bottonella. Andavamo a staccare tutti i bottoni per giocare a bottonella. Ero smaniosa del gioco.
Avevamo mucchi di bottoni di tutti i colori. Quelli dorati erano i più preziosi, valevano un milione, quelli neri venivano subito dopo, poi c’erano i rossi e i gialli, di uguale valore, poi i bianchi che valevano meno di tutti. I bottoni verdi erano rari ma dicevano che portano sfortuna e quando ne capitava uno lo sotterravamo ben bene e ci facevamo la pipì sopra.
Mia madre soprattutto si seccava quando andava per mettersi un vestito e lo trovava senza bottoni. Ne aveva uno nero a fiori gialli con una fila di bottoni sul davanti; era un vestito che a lei piaceva molto. Ogni volta che lo trovava ripulito di tutti i bottoni, veniva e mi riempiva di schiaffi. Poi comprava degli altri bottoni e con pazienza li ricuciva.
Dopo qualche giorno io andavo e glieli staccavo tutti. Allora lei mi afferrava e tenendomi ferma con le ginocchia, mi riempiva di pugni. Per qualche giorno io stavo tranquilla ma poi ricominciavo. Quel vestito nero a fiori gialli mi piaceva troppo, cioè mi piacevano i bottoni che aveva, fitti fitti e giallini, come delle palline trasparenti.
Facevo spesso a botte perché perdevo. Non mi andava di perdere, ero una giocatrice orgogliosa e quando perdevo acchiappavo una e la riempivo di botte. Cercavo delle scuse per riprendermi i bottoni persi. Dicevo: tu me li hai rubati, sei una ladra! Qualche volta la ragazzina si spaventava e me li ridava, qualche volta resisteva, teneva duro. Allora io le andavo addosso e la picchiavo.
Mia madre diceva: non sei buona a fare niente, ti devo mandare a fare la sarta! Diceva: devi imparare qualche mestiere, non puoi crescere così, nullafacente! stai sempre a giocare, non sai tenere l’ago in mano. Mi diceva così e qualche volta mi dava pure una tirata di capelli, ma io continuavo a giocare a bottonella tutto il giorno.
Nel vestire ero vanitosa. Mi mettevo una cintura nuova e mi credevo chissà che. Con le compagne andavamo a parlare sotto un albero, dicevamo che da grandi avremmo fatto le attrici. Ci specchiavamo. Ci confrontavamo i corpi, i piedi, la misura della vita, eravamo prese dalla fantasia. Io dicevo che volevo diventare il capitano di una nave e andare sempre per mare, di giorno e di notte, con le onde alte e giocare a bottonella coi marinai.
Facevamo dei rotolini coi pezzi di giornale e fingevamo di fumare. Poi, con la sigaretta appiccicata alle labbra riprendevamo a giocare a bottonella. Verso sera mia madre veniva, mi acchiappava per i capelli e diceva: da oggi basta di giocare; ti mando a fare la sarta! Ogni giorno diceva la stessa cosa.
Una volta mi ha mandata per davvero a fare la sarta. Mi ha portata da un muto che lavorava in una stanza tutta tappezzata di pantaloni che pendevano pure dal lampadario. Questo sarto, appena entro, mi fa capire a gesti che mi devo sedere accanto a lui, mi mette in mano un pezzo di stoffa e mi insegna a fare i soprappunti.
Io imparo subito. Ma ero nera, arrabbiata. Se sto qui, pensavo, voglio tagliare, cucire, fare di testa mia. Invece non potevo fare niente. Stavo sempre a cucire questi soprappunti. Il sarto non era soddisfatto nemmeno di quelli. La sua bocca era muta, c’era un gran silenzio e a me quel silenzio mi intristiva. Allora cantavo. Ma il sarto non era contento. E mentre che stavo così, chinata a cucire e cantare, mi arrivava una manata sulla testa.
Ho continuato a fare questi soprappunti per sei, sette giorni, poi mi sono stufata e me ne sono andata. Il sarto non mi ha voluto pagare neanche mezza lira e mia madre ha dovuto pure chiedere scusa per me.
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In casa c’era molta confusione. I miei fratelli entravano, uscivano, gridavano, si litigavano. Mia madre li buttava fuori. Mio padre li picchiava. Ma loro riprendevano sempre a litigare.
Una volta mia madre mi fa: guarda che ti vuole tua nonna a te, a tuo fratello Orlando, Balilla e a quell’altro Nello; vi vuole tutti e quattro per una cosa. Dico: cosa vuole? ci vuole picchiare? o ci vuole fare qualche predica?
Questa mia nonna infatti era severa, moralista, noiosa moltissimo. Era sorridente con tutti e con noi era perversa, non so perché. Aveva la voce tremolante, ma cattiva. Diceva: vostra madre ve le dà tutte vinte, non sa neanche cos’è l’educazione! siete dei nullafacenti, siete dei mascalzoni!
Mia madre non poteva darci troppa educazione, non poteva starci troppo addosso perché doveva lavorare in casa, in osteria e in campagna nello stesso tempo. E doveva pure andare a fare il pesce. Tutti questi figli che aveva, uno dietro l’altro, la portavano via. Uno allattava ed era già incinta di un altro. Sempre figli, sempre figli, ogni anno.
Mia nonna Teresa, con quella voce tremante e rabbiosa diceva: non vi porta mai in chiesa vostra madre, è una miscredente! Perché era una pinzochera mia nonna, stava sempre a battersi il petto in chiesa. Allora mi afferrava a me per il collo e mi diceva: ci sei stata in chiesa? ci sei stata alla prima messa? Io rispondevo sempre di sì, che c’ero stata; ma non era vero niente.
Dopo, mia madre ci aggrediva a noi figli: vassalloni, mi fate litigare con quella pinzochera di vostra nonna! perché andate a dire che non vi mando in chiesa? se io non ci vado, non è una buona ragione per non andarci neppure voi.
Noi ci inventavamo la scusa che era lei che non ci mandava in chiesa, per evitare le prediche della nonna. Ma era una bugia.
E così veniva mio nonno, che era chiamato "il colonnello". Veniva col bastone in mano e ci picchiava sulla schiena a me e ad Orlando. Invece quegli altri nipoti, i nostri cugini, erano dei leccapiedi, sapevano fare la parte: nonnina, come stai? un bacetto. E se la imbambolavano come volevano. Io non ero buona a fare la parte. Le volevo bene a mia nonna, ma invece che un bacio le avrei dato un mozzico, soprattutto quando brontolava con quella voce tremolante e severa.
Ecco che quella mattina andiamo, i miei tre fratelli e io dalla nonna. E lei dice: sentite, volete venire in campagna a cogliere un po’ di cocomeri? Era il tempo dei cocomeri. Dico: nonna, ma dobbiamo andare subito? Dice: subito subito. E ci manda a cogliere cocomeri al campo.
Andiamo con un somaro e un carretto. Ci mettiamo tutti sopra a questo carretto e turutun turutun turutun fino in campagna, facciamo due chilometri. Là c’era la campagna della nonna. C’erano certi ulivi vecchi, intorcinati, con i buchi neri in cui si nascondevano le formiche, i ragni, i serpenti. E poi delle vigne talmente cariche di uva che i grappoli toccavano per terra come le zinne di un cane che ha appena sgravato. Era una bella campagna, molto ricca e fastosa. Allora lei dice: su forza che dobbiamo raccogliere tutti i cocomeri, sbrigatevi! Intanto sceglieva quelli maturi, li tastava, li annusava e poi ce li dava e noi correvamo ad ammucchiarli sotto la pergola.
Andavamo su e giù, su e giù sotto il sole bollente. Allora io dico: ma guarda questa che ci fa andare su e giù come le formiche, ma quando ce lo fa mangiare un cocomero? Orlando dice: i cocomeri non ce li fa mangiare mai.
Allora io dico: lo sai ora che faccio? Pum! e faccio cascare per terra un cocomero. Dico: nonna, m’è cascato un cocomero per terra! Dice: va bene, non fa niente, poi ce lo mangiamo. Dico: meno male! E con Orlando cominciamo a mangiare quella polpa rossa tutta piena di sugo caldo. Avevamo una sete! E col caldo e col sudore mangiavamo questo cocomero che era una delizia.
Mio fratello l’altro dice: ah sì, ho capito, quando si rompono si mangiano. Pum! e fa cascare un altro cocomero. Nonna! m’è cascato un cocomero pure a me! come si fa nonna mia? Va bene, va bene, dice lei, mettetelo lì sotto da una parte che poi ce lo mangiamo.
Alla fine della giornata avevamo la pancia piena di cocomeri. Ne avevamo spaccati tanti che dopo ci facevano pure schifo e buttavamo il sugo nei buchi dei serpenti.
Quando fa buio rimontiamo tutti sul carretto e ce ne torniamo a casa. La nonna contava i cocomeri e diceva che erano pochi e noi per farla distrarre ci litigavamo forte fra di noi.
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Tornati a casa mio fratello Luciano appena mi vede mi fa la cianchetta col piede e io casco per terra e mi sbuccio malamente un ginocchio. Allora arriva mio padre e con la cinghia gli va addosso. Ma Luciano scappa e la cinghiata ha colto me. Quella volta mio padre l’ho odiato. Non era colpa sua; voleva picchiare Luciano e invece ha picchiato me. Mi ha fatto un segno viola sulla coscia che mi è rimasto per una settimana.
In quel tempo mio padre aveva molto da fare. Allora dice a mio fratello Orlando: da domattina ci vai tu a portare da mangiare ai maiali perché io non ho tempo. Orlando dice: va bene, domani ci vado. La sera mio padre gli fa vedere come deve riempire il secchio e come lo deve portare, appeso a un bastone appoggiato sulla spalla.
La mattina Orlando prende il mangiare per i. maiali e se ne va. Io esco con lui. Da un po’ di tempo stavo sempre con lui, gli andavo appresso, lo copiavo in tutto. Appena mi vede, dice: vattene stupida! Dico: ma che ti fa? vengo con te. Dice: non ti voglio. Ma io gli andavo dietro lo stesso.
Allora vedo che invece di andare alla campagna si dirige verso il fiume e butta tutto nella corrente. Poi, col secchio vuoto, si siede sotto un albero e si fuma una sigaretta. Io gli vado accanto e lui mi dice: tieni la bocca chiusa Teré, se no t’ammazzo di botte! E io dico: cosa credi che sono una spia? E lui mi fa dare una boccata alla sua sigaretta.
Una volta, due, è andata bene. Dopo tre o quattro volte, mio padre una mattina gli fa: ma come hai fatto presto! e come è possibile? Orlando, con una grande faccia tosta dice: ho fatto una corsa per tornare prima. Allora mio padre dice: e com’è che io sono andato su ieri e ho vista la mangiatoia dei maiali secca secca e ho sentito i maiali che strillavano disperati? Beh, dice Orlando, vuol dire che si sono mangiati tutto, si sono leccati pure il legno.
Mio padre non dice niente. Però la sera va a vedere se effettivamente Orlando ha portato da mangiare alle bestie. E sente i maiali che strillano. Strillavano tanto che erano sfiancati. Allora ha capito che da giorni non mangiavano. Ma non ha detto ancora niente.
La mattina dopo, quando Orlando è uscito col secchio, l’ha seguito. Ha visto che buttava il mangiare nel fiume, l’ha aspettato sulla porta di casa e l’ha riempito di botte.
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E tu! mi fa a me, tu non sapevi niente? Io? dico, e io che ne so? Ma lui non ci ha creduto e giù botte anche a me. Avevo tredici anni circa. Le gambe me l’ha ridotte nere di frustate. Dice: tu stavi zitta eh! tu reggevi il gioco a tuo fratello! Dico: ma se te lo dicevo, lui mi ammazzava di botte! Allora mio padre mi dà un pugno sul naso. che mi fa cascare per terra.
Un’altra cosa che non mi andava era la scuola. C’era una maestra che si sedeva sulla cattedra, prendeva in mano il lavoro a maglia e sferruzzava. Chiamava una alla lavagna. Diceva: scrivi, L’ITALIA È UNA PENISOLA, così tutto maiuscolo. Poi diceva: ma te le sei lavate le orecchie stamattina? Beh, vai a posto. Ed era finita la lezione.
Invece di andare a scuola Orlando e io ce ne andavamo con la barca a pescare le lampadelle, i polipetti, i ricci. Ci ho rimesso un dito coi ricci. Li prendevo senza coltello, con le mani. I ricci si sa sono pungenti, hanno le spine tutte nere e dritte con la punta fine e dura. Allora a furia di prendere questi ricci un giorno mi è andato uno spino dentro l’unghia. Mi faceva male, mi batteva, ma io non ci badavo. Poi ha cominciato a gonfiare. Ed è diventato giallo di pus.
Mio padre mi prende e mi porta da un dottore di Anzio, un dottore che poi è morto, si chiamava Verace. Questo mi fa un taglio al dito. Dice: se veniva fra qualche giorno bisognava tagliare la mano.
Allora stavo con la mano tutta fasciata. Avevo la febbre alta. Mia madre mi imboccava, mi portava in braccio sul cesso. Però il dito non guariva. E mio padre mi ha riaccompagnato dal dottor Verace. Dice: qui bisogna fare un altro taglio. E mi ha aperto un’altra volta. Poi me l’ha cucito il dito, me l’ha cucito in fretta e ha tirato troppo il filo. Insomma da allora il dito non l’ho potuto più raddrizzare. Mi è rimasto piegato per via di questo nervo cucito in fretta.
A scuola non ci potevo andare. Questo era un bene. Perché con il dito così non potevo scrivere. Facevo la seconda elementare. Allora Orlando mi diceva: vieni! E io andavo con lui a prendere le uova dei passeri sugli alberi. Mi arrampicavo, lui avanti e io dietro, su certi rami secchi. Non so come non siamo mai caduti. Andavamo a snidare i polipi nelle rocce. Mi buttavo nell’acqua come un pesce. Facevamo le corse al nuoto. Facevamo i tuffi. Orlando era piccolo, più piccolo di me, biondiccio, con la testa grossa, pallido. Sembrava fragile invece era agile e robusto.
Ma poi a scuola ci sono dovuta tornare perché mio padre insisteva. Sono passata in seconda e ho fatto un altro anno. C’era sempre la solita maestra che faceva la maglia tutto il giorno. Chiamava una alla lavagna e diceva: scrivi, l’ITALIA È BELLA, scrivi, tutto maiuscolo! E quella scriveva. Poi si fermava, col gesso in mano e aspettava. Allora la maestra alzava gli occhi dal lavoro a maglia e diceva: quella Italia è scritta male, con le i storte, riscrivi! La ragazza riscriveva. Noi intanto giocavamo a bottonella fra i banchi. Quando la ragazza aveva finito di scrivere, la maestra diceva: cosa credi che non l’ho visto che ti sei passata il carboncino sulle sopracciglia? sembri una zingara! vai, vai, svergognata! Faceva venire un’altra e ricominciava: scrivi, l’ITALIA È LA MIA PATRIA! E così passava la mattinata.
Dopo un anno di questa musica a scuola non ci sono tornata più. A mia madre faceva comodo che stavo a casa a sbrigare le faccende. Pulivo, stiravo, stavo dietro ai miei fratelli. Ce n’era sempre uno nuovo più piccolo degli altri.
Mia madre diceva: Teresa, lava questi panni, vài, che tu sei forte. Mi toccava lavare tutti i panni. Ho sempre lavato i panni. Lavavo certi carichi di panni che adesso penso: ma come facevo?
Lavavo otto dieci lenzuola, alla fontana. Poi quando avevo lavato tutti i panni che ero sudata e schizzata di sapone, mi spogliavo, mi mettevo dentro l’acqua, mi sciacquavo e uscivo fresca come un pesce. Facevo sempre così. Mi piaceva molto l’acqua.
In casa spicciavo. Stiravo i calzoni a mio fratello Eligio il grande. Se non trovava la camicia stirata e i calzoni a posto, mi picchiava. Mi picchiava sempre. Io portavo le vesti corte e lui mi picchiava. Mi dava le botte alle gambe. Era un carattere egoista questo Eligio, chiuso, un tipo forastico che non dava soddisfazione. Magari, se vai a casa sua, per carità, non sa che cosa offrirti, perché ha il cuore buono. Però è ignorante.
Come mi vedeva le vesti un poco sul ginocchio, pam pam, mi veniva addosso coi calci, con la cinta; non mi poteva vedere le gambe. Gli dava al cervello. Come mi trovava a giocare a bottoni, mi acchiappava e mi prendeva a calci. Cammina a casa! mi diceva. Era un ignorante, sempre coi cavalli, la campagna, la caccia, un burino insomma. Era alto, robusto, castano. Come me. Però io sono un po’ rossiccia. Ma lui no, era castano.
Rossiccio come me è Orlando, il secondo. Per anni siamo stati appiccicati, dove andava lui andavo io, sempre insieme. Poi ha, trovato degli amici più gr...

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  2. Frontespizio
  3. Testo