In India
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In India

  1. 406 pagine
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Nativo dello Yorkshire e giunto in India a diciassette anni, William Dalrymple descrive con straordinario talento un percorso attraverso il subcontinente indiano che fa percepire tutti i sapori di un territorio immenso e variegato. Con In India lo scrittore anglosassone narra quattro anni trascorsi a pellegrinare per uno Stato che assomiglia a un universo parallelo: dalle fortezze dei signori della droga sulla frontiera nord-occidentale alle giungle delle Tigri Tamil, dai cocktail party di Bombay al Kerala del tempio dedicato alla dea Para Sakti, «colei che siede sul trono di cinque cadaveri». È il ritratto di un'India contraddittoria, sospesa tra tradizioni ataviche, modello occidentale e minaccia del caos: l'India dell'età di Kali, quella che precede la distruzione del mondo per mezzo del «fuoco di mille soli». Un racconto affascinante che ha conquistato il mondo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628393
Categoria
Travel

PARTE PRIMA

IL NORD

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L’ERA DI KĀLĪ

Patna, 1997

LA NOTTE DEL 13 FEBBRAIO 1992 duecento intoccabili armati circondarono il villaggio di Barra, abitato da una casta superiore, nello Stato settentrionale del Bihar. Alla luce di fiaccole ardenti, i razziatori strapparono tutti gli uomini dai loro letti e li trascinarono nei campi. Poi, uno dopo l’altro, li sgozzarono con falci arrugginite.
Pochi dei miei amici di Delhi rimasero sorpresi quando feci notare loro la brevità del trafiletto di stampa annegato tra le pagine centrali dell’Indian Express in cui si riferiva del massacro: per loro era il genere di cose che succedevano regolarmente nel Bihar. Duemila anni prima, sotto un albero di fico, vicino a Patna, capitale del Bihar, il Buddha ricevette la sua illuminazione; quella probabilmente fu l’ultima buona notizia giunta dallo Stato del Bihar. In quei giorni il Bihar era molto più noto per la violenza, la corruzione e un’endemica guerra di caste. La situazione era talmente grave che si diceva che tra politici e criminali non ci fosse in pratica nessuna differenza: non meno di trentatré membri dell’Assemblea legislativa vantavano precedenti penali, e un personaggio come Dular Chand Yadav, sul cui capo pendevano un centinaio di imputazioni di rapina e cinquanta di omicidio, si fregiava anche del titolo di deputato del Barhi.
Due storie che avevo subito notato nei trafiletti della stampa indiana danno un’idea della gravità della crisi di quello Stato.
La prima era una vicenda di ordinaria amministrazione avvenuta sulle ferrovie del Bihar. Una mattina dell’ottobre 1996, il Rajdhani Express proveniente da Nuova Delhi e diretto a Calcutta fece una fermata imprevista a Gomoh, una piccola stazione del Buha meridionale. Mumtaz Ansari, un parlamentare locale, salì in uno scompartimento di prima classe. Con lui c’erano tre guardie del corpo. Né Ansari né i suoi scagnozzi avevano i biglietti, ma non esitarono a buttare fuori dallo scompartimento quattro passeggeri muniti di prenotazione. Uno di questi, un funzionario del governo in pensione, ebbe la temerarietà di protestare per quella violenza, ma Ansari gli rispose che era lui a fare le leggi e che quindi aveva il diritto di infrangerle. L’anziano funzionario continuò a protestare, cosicché il parlamentare fece un cenno alle sue guardie e ordinò che lo picchiassero. Alla fermata successiva, Ansari fu accolto da una folla di sostenitori, tra i quali un altro parlamentare e dieci seguaci armati. Questi trascinarono giù dal treno il funzionario e continuarono l’opera iniziata dalle guardie di Ansari. Mentre il treno ripartiva, l’uomo fu lasciato sanguinante sulla piattaforma della stazione.
La seconda era una storia che riguardava la pubblica amministrazione del Bihar. Nell’ottobre 1994, a un giovane laureato di nome G. Krishnaiah fu affidato l’incarico di magistrato distrettuale di Gopalganj, un lontano distretto in preda all’anarchia nel Bihar settentrionale. Non era certo un incarico da sogno: Gopalganj era tristemente nota per essere una delle zone in cui l’illegalità era più diffusa e, appena due settimane prima, il predecessore di Krishnaiah era stato ucciso nel suo ufficio da una bomba nascosta in una valigetta. Ma Krishnaiah era energico e idealista e si mise al lavoro con entusiasmo rilasciando una breve intervista alla Doordashan, la televisione indiana di Stato, in cui annunciava una serie di provvedimenti che avrebbero dovuto modificare la situazione, consentendo un maggiore controllo della criminalità, la creazione di posti di lavoro e il miglioramento delle condizioni degli intoccabili del Gopalganj.
A rivedere il filmato oggi, con il giovane funzionario che parla con tanta tranquillità delle sue intenzioni di sradicare la violenza, il modo in cui è morto sembra ancora più orribile. Due mesi più tardi, al tramonto, Krishnaiah era alla guida della sua auto quando si imbatté nel corteo funebre di un personaggio di spicco della mafia locale, ucciso in una sparatoria il giorno precedente. In testa al corteo c’era il parlamentare locale, Anand Mohan Singh, il quale, prima di entrare in politica, aveva trascorso la maggior parte dei due decenni precedenti in latitanza, con tanto di taglia pendente sul capo. In quel periodo, la polizia aveva ricevuto circa settanta denunce contro di lui, per reati che andavano dall’assassinio all’associazione a delinquere, fino ai sequestri di persona e al possesso illecito di armi. Secondo le dichiarazioni raccolte dalla polizia, Singh «esortò i suoi seguaci a linciare il giovane funzionario»: i componenti del corteo circondarono l’auto di Krishnaiah e uno degli scagnozzi di Singh gli sparò tre colpi. Krishnaiah era rimasto gravemente ferito, ma ancora in vita. Incoraggiata da Singh, la folla lo trascinò fuori dall’auto e lo lapidò a morte.
Che un parlamentare in carica venisse arrestato per avere ordinato a una folla di linciare e uccidere un funzionario pubblico era già un fatto grave, ma quello che successe in seguito rivela quanto si fosse deteriorata la situazione politica indiana negli ultimi anni. Anand Mohan Singh fu arrestato, ma dalla sua cella si presentò di nuovo come candidato al Parlamento e riconquistò il seggio alle elezioni generali del 1996, ottenendo in seguito la libertà provvisoria per partecipare ai lavori del Parlamento. Di recente si è distinto durante un dibattito per aver ringhiato a un avversario politico durante una seduta parlamentare: «Prova a ripeterlo e ti spacco i denti». Dato che la giustizia in India è quel che è, pochi credono che la polizia possa davvero portare Singh in tribunale con qualche speranza di successo.
I miei amici mi hanno spiegato che, nel corso degli anni, la violenza è arrivata a dominare quasi tutti gli aspetti della vita nel Bihar. Si raccontava che a Patna nessuno si preoccupasse più di acquistare auto usate, perché bande armate fermavano i veicoli in pieno giorno e costringevano i conducenti a scendere e a firmare atti di vendita precompilati. Siccome il governo del Bihar era troppo povero per pagare gli appaltatori di lavori pubblici, gli stessi contraenti erano costretti a sequestrare tecnici e burocrati del governo allo scopo di farsi pagare le fatture. Altri imprenditori, disperati per l’andamento degli affari, avevano cominciato a farsi guerra tra di loro senza esclusione di colpi. Mi capitò di leggere un articolo che descriveva una sparatoria a Muzaffarpur tra i gundā di imprese edili rivali dopo che era stata aperta una gara d’appalto per la costruzione di un piccolo ponte in un villaggio sperduto. In alcune aree abitate dalle caste superiori, bruciare vivi gli intoccabili era un fatto talmente comune che ormai era quasi diventato uno sport ufficiale. Per reazione, i membri delle caste inferiori avevano dato vita a varie milizie di autodifesa e si mormorava che si stessero alacremente preparando alla guerra in villaggi che avevano ribattezzato con nomi come Leninnagar o Stalinpur. Attualmente, si pensava che almeno dieci consistenti eserciti privati fossero attivi in diverse parti del Bihar; in certe zone la violenza sfuggiva a ogni controllo e la situazione era pericolosamente sull’orlo di una guerra civile.
Cose terribili continuavano a succedere nel Bihar, mi raccontavano i miei amici. Ma non ci si poteva fare nulla. Tuttavia, mi era rimasta impressa nella mente la natura particolarmente orrenda del massacro di Barra, e un anno dopo, quando mi trovai a Patna, decisi di noleggiare un’auto e di visitare il villaggio.
La strada che porta a Barra da Patna era di gran lunga la peggiore su cui avessi mai viaggiato durante i cinque anni del mio pellegrinaggio in India. Benché fosse una delle principali strade statali del Bihar, enormi crateri ne costellavano la superficie. Su entrambi i lati della strada gli scheletri arrugginiti di camion abbandonati erano allineati a formare una successione di memento mori.
Mentre viaggiavamo, ebbi la sensazione di lasciarmi alle spalle il XX secolo. Dapprima scomparvero i pali della luce elettrica. Poi non si videro più né camion né auto; persino le carcasse arrugginite erano sparite. Nei villaggi, i pozzi cominciavano a sostituire lussi moderni come le pompe azionate a mano. Superammo una carovana di pony e quattro uomini che portavano un baldacchino. Gli uomini ci fecero segno di fermarci e ci misero in guardia dai predoni. Ci consigliarono di non farci trovare per strada dopo il tramonto.
Alla fine, svoltando a destra su una strada sterrata, giungemmo a Barra. Era un piccolo villaggio antico che sovrastava i campi circostanti, appollaiato in cima a un cumulo di sedimenti terrosi. La sua popolazione era interamente bhūmihāra, ovvero formata da bramini convertiti al buddhismo all’epoca dell’imperatore Aśoka, intorno al 300 a.C., ai quali era stata negata la riammissione alla casta sacerdotale quando il buddhismo indiano era stato spazzato via da un forte revival induista un migliaio di anni più tardi. I bhūmihāra erano ancora una casta superiore, ma non avevano affatto riguadagnato il vertice della piramide delle caste, da cui erano stati scalzati duecentocinquant’anni prima che i Romani sbarcassero per la prima volta in Inghilterra.
Ashok Singh, uno dei due sopravvissuti al massacro, mi fece fare il giro di Barra. Mi condusse a un terrapieno su cui era stato eretto un piccolo monumento bianco in memoria delle quarantadue vittime del villaggio. Un vento caldo soffiava dai campi; mulinelli di polvere turbinavano nelle risaie prive d’acqua. Gli chiesi: «Tu come sei scampato?».
«Non sono scampato» mi rispose. E sfilandosi la sciarpa mi mostrò la cicatrice livida che gli aveva lasciato la falce dietro il collo. «Mi hanno sgozzato e poi mi hanno lasciato a terra credendomi morto.»
Ashok si mise a raccontare con dovizia di particolari quello che era successo. Disse che, come al solito, era andato a letto alle otto e mezzo subito dopo cena. La settimana prima erano già giunte notizie di atti atroci: il Fronte di liberazione Savarna, la milizia bhūmihāra, aveva stuprato in massa e ucciso dieci donne harijan, cioè intoccabili, nel distretto contiguo; ma Barra era lontana e nessuno si aspettava guai. Ashok, i suoi fratelli, il padre e lo zio dormivano tutti nelle loro cārpāī quando, alle dieci e mezzo, erano stati svegliati dal fragore di esplosioni. Si erano spaventati e si erano precipitati ad avvertire le mogli e le madri che dormivano nella zona della casa a loro riservata. Le esplosioni e il clamore della sparatoria si fecero più vicini. Poi una fiaccola ardente fu lanciata sulle stoppie del tetto. Nello stesso tempo qualcuno urlò a tutti di uscire e di arrendersi, altrimenti li avrebbero lasciati bruciare vivi.
«Appena il tetto prese fuoco, mio zio e io cominciammo a darci da fare per spegnere l’incendio. Non ci eravamo accorti di quello che avevano urlato, perciò alla fine queste persone malvage dovettero abbattere la porta e trascinarci fuori. Erano diverse centinaia, armate di fucili, lance, archi, laṭṭhī e falci. Lasciarono le donne accanto alla nostra casa, ma legarono gli uomini con strisce di tela.»
«Non dissero da dove venivano? A quale milizia appartenessero?»
«No, ma erano del posto. Lo capii dal loro accento. Dapprima ci lasciarono distesi dove ci trovavamo mentre distruggevano tutte le case del villaggio con il fuoco e la dinamite. Poi dissero: "C’è una riunione", e ci trascinarono al limitare del villaggio. Lì ci fecero sedere in mezzo a un cerchio. Poi, cominciarono a ucciderci uno a uno. C’era una gran folla ad assistere, ma solo due di loro eseguivano materialmente il massacro, perciò ci volle del tempo. Ero terrorizzato. Non riuscivo a pensare a niente.»
«Uccisero tutti i miei fratelli. Uccisero mio padre, mio zio e i miei cugini. Poi toccò a me. Uno di loro mi spinse in avanti e l’altro prese la falce e mi colpì tre volte. Mi fece dei tagli profondi dietro il collo e sulla nuca. Persi i sensi. Mi risvegliai in un ospedale di Gaya. Ci vollero tre settimane prima che potessi alzarmi dal letto.»
«Sei stato molto fortunato.»
«Come puoi dire una cosa del genere? Ho perso otto familiari.»
Ashok contorse il volto in una smorfia e abbassò lo sguardo. Dopo un po’ mi guardò di nuovo negli occhi. «Vorrei vendicarmi» disse pacatamente. «Ma non ne sono capace.»
Mi mostrò le case che lui e le vedove del villaggio avevano costruito con gli indennizzi versati loro dal governo. Erano fortezze in miniatura: alte e quadrate, senza finestre tranne che per delle strette feritoie al terzo piano. Manco a farlo apposta, erano quasi copie in miniature delle torri difensive fortificate erette lungo il confine scozzese nel XVI secolo, quando l’autorità centrale era completamente crollata. Non poteva esserci esempio migliore della regressione del Bihar al Medioevo.
Ashok si carezzò l’enorme cicatrice che aveva sul collo e disse: «Ora gli harijan rifiutano di lavorare i nostri campi e non ci sono abbastanza bhūmihāra per coltivarli. Quando gli harijan ci incontrano per strada, ci dicono frasi come: "Non abbiamo ancora finito con voi", oppure "Farai la stessa fine di tuo fratello". Queste persone inferiori si rallegrano di quello che è successo. Sono ingrassati e si comportano come bramini. Ma noi bhūmihāra ogni sera al tramonto abbiamo paura. Ogni notte ho degli incubi. Potrebbero tornare. Come facciamo a fermarli? La polizia e il governo di Laloo Prasad Yadav sono dalla loro parte. Questo massacro è opera loro».
«In che senso?»
«Laloo proviene da una casta inferiore» mi ha detto Ashok. «Incoraggia in continuazione questi nichlā a sollevarsi contro di noi. Quando Laloo è venuto qui dopo il massacro lo abbiamo accolto a sassate. Ogni giorno preghiamo che cada.»
«Ma le vostre nuove case non vi offrono una certa protezione?» ho chiesto.
«Le nostre case sono robuste» ha risposto Ashok «ma noi siamo vulnerabili. Non possiamo restare in casa tutto il giorno. Dobbiamo pur uscire.»
I bovari ora stavano riportando le bufale al villaggio per la mungitura. Tutt’intorno, le donne accendevano fuochi con lo sterco e cominciavano a preparare da mangiare. Il pomeriggio stava volgendo al termine. Mi vennero in mente gli avvertimenti che avevamo ricevuto: tornare a Patna e lasciare la strada prima del tramonto.
«Il governo non ci proteggerà» disse Ashok mentre tornavamo all’auto «perciò siamo lasciati alla mercé di Dio. Questo è il Kālī Yug, l’epoca della disintegrazione. Le caste inferiori si sollevano. Tutto cade a pezzi.»
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Dopo aver vissuto in India per cinque anni, alla fine ho lasciato Nuova Delhi nel 1994. Ho fatto i bagagli e me ne sono andato in Medio Oriente a scrivere un libro. Tornando nel subcontinente, due anni e mezzo più tardi, ho scoperto che era avvenuta un’incruenta rivoluzione sociale: i politici della caste inferiori avevano preso il potere, uno Stato dopo l’altro, in tutta l’India. Il processo sembrava aver avuto inizio nel Bihar con l’avvento al potere di Laloo Prasad Yadav, l’uomo al quale gli abitanti del villaggio di Barra attribuivano la responsabilità del massacro. Per molti versi, Laloo sembrava personificare gran parte degli eventi che si verificavano in India e decisi di tornare nel Bihar per cercare di incontrarlo.
Benché una rivoluzione simile stesse avendo luogo nello stesso tempo nell’Uttar Pradesh, quando giunse al potere, nel 1991, Laloo era ancora una figura relativamente insolita nella politica dell’India settentrionale. All’epoca, la società indiana era ancora saldamente dominata dalle caste superiori. Nehru, sua figlia Indira Gandhi, e il figlio di lei, Rajiv, erano tutti bramini, come lo era l’uomo che succedette a Rajiv alla guida del partito del Congresso e del govern...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. PARTE PRIMA - IL NORD
  5. PARTE SECONDA - NEL RAJASTHAN
  6. PARTE TERZA - LA NUOVA INDIA
  7. PARTE QUARTA - IL SUD
  8. PARTE QUINTA - SULL’OCEANO INDIANO
  9. PARTE SESTA - PAKISTAN
  10. GLOSSARIO