L'altro islam
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L'altro islam

In viaggio nella terra degli sciiti

  1. 352 pagine
  2. Italian
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L'altro islam

In viaggio nella terra degli sciiti

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Scritto a un anno di distanza dall'entrata delle truppe americane a Baghdad, questo libro non è la semplice cronaca degli orrori che hanno insanguinato il dopoguerra iracheno. È un viaggio alla scoperta di una dimensione più complessa e profonda: il mondo degli sciiti, l'"altro Islam" rispetto all'ortodossia dei sunniti. Chi sono davvero gli sciiti? Dobbiamo avere paura del loro fervore religioso? Qual è il progetto dei capi da cui prendono ordini? Per rispondere a queste domande, Lilli Gruber ha percorso le strade di Baghdad, ha incontrato leader religiosi, ha visitato le moschee e le scuole coraniche della città santa di Najaf. E ha raccontato i Paesi da dove negli ultimi decenni è stata lanciata al mondo la sfida sciita: l'Iran della rivoluzione islamica di Khomeini nel 1979 e il Libano in cui l'invasione israeliana del 1982 è stata all'origine del potere di Hezbollah. Un libro necessario per capire il Medio Oriente e l'estremismo islamico. Perché, oggi più che mai, le parole di Lilli Gruber risuonano drammaticamente attuali: "Non siamo stati capaci di fermare la guerra in Iraq, ma ora dobbiamo impedire la prossima: una guerra di religioni, di culture, di civiltà, nella quale gli ideologi neoconservatori e i fanatici del jihad vogliono trascinarci".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628539
Categoria
Sociology

Dedica

A Jacques

INTRODUZIONE

IL DOVERE DI CAPIRE

Il 9 aprile 2003, quando vidi arrivare le truppe statunitensi a Baghdad, ebbi subito sensazioni contrastanti: da un lato la gioia per il crollo di un regime sanguinario, dall’altro l’oscuro presentimento che l’idillio tra l’Iraq e gli americani non sarebbe durato a lungo. Purtroppo il presentimento è diventato ben presto realtà.
Ogni giorno che passa, l’Iraq precipita negli orrori di un dopoguerra sempre più caotico. La violenza è quotidiana e oltre mille soldati americani sono stati uccisi dall’inizio delle operazioni militari. Anche migliaia di iracheni sono rimasti vittime di uno stato di insurrezione e di un terrorismo cieco e spietato. L’anarchia regna laddove erano state promesse pace e prosperità. Decine di cittadini stranieri e di iracheni sono stati rapiti, e la sorte di due giovani italiane, Simona Torretta e Simona Pari, volontarie di un’associazione umanitaria, ha tenuto il nostro Paese con il fiato sospeso per tre settimane, fino alla liberazione del 28 settembre. Prima del loro sequestro, l’assassinio nell’aprile del 2004 di un addetto alla sicurezza, Fabrizio Quattrocchi, poi, in agosto, del giornalista Enzo Baldoni, ci avevano già fatto capire che l’Italia pagava il prezzo di una guerra non sua. Anche la Francia, pur essendosi opposta all’intervento, è stata colpita dall’ondata di rapimenti e due giornalisti francesi, Christian Chesnot e Georges Malbrunot, sono stati presi in ostaggio.
Il macabro rituale delle decapitazioni pubbliche ha fatto la sua comparsa nel maggio del 2004 con la prima esecuzione filmata, quella di un giovane americano, Nicholas Berg. Ne seguiranno altre: a settembre due ingegneri americani vengono sgozzati mentre dal pulpito dell’Onu il presidente Bush assicura che l’Iraq è sulla buona strada e la democrazia sta mettendo solide radici.
Questa straordinaria accelerazione degli eventi e l’accumularsi di immagini sempre più agghiaccianti ci hanno sommerso al punto tale che una riflessione politica è diventata difficile, complicata ulteriormente dall’azione di forze diverse ma spesso con interessi convergenti: dai terroristi sunniti di al-Qaida agli estremisti iracheni del triangolo sunnita, dai fanatici wahhabiti dell’Arabia Saudita ai nostalgici di Saddam Hussein ai servizi segreti dei Paesi che intendono influenzare il futuro dell’Iraq.
Mentre seguivo da giornalista questa discesa agli inferi, mi è diventata sempre più chiara una dinamica storica che percorre il presente e di certo plasmerà il futuro della realtà irachena. Una sorta di filo rosso nel groviglio sempre più fitto tessuto ogni giorno nel sangue, nella paura e nell’odio. Ho trovato questo filo rosso in un mondo affascinante e per molti aspetti misterioso agli occhi di noi occidentali: il mondo degli sciiti. Gli sciiti sono musulmani che hanno la stessa fede nel Corano dei sunniti e lo stesso rispetto dei precetti dell’Islam. Sono diventati dissidenti nel VII secolo contestando i criteri di successione adottati dopo la morte di Maometto. Gli sciiti stessi si definiscono i partigiani di Ali, genero del Profeta, che considerano l’unico vero erede del potere religioso e temporale esercitato da Maometto. Ali fu assassinato e suo figlio Hussein dovette soccombere alle truppe del califfo di Damasco nella battaglia di Karbala, in Iraq.
Da quel momento, minoritari nel mondo musulmano, talvolta considerati eretici, hanno vissuto nell’ombra ma hanno continuato una feconda elaborazione di dottrine teologiche, legali e politiche. Oggi i «figli di Ali» sono circa 160 milioni. Sono divisi soprattutto tra il Libano, la Siria, l’Iraq e ovviamente l’Iran, dove costituiscono oltre il 90 per cento della popolazione; vivono anche nella Penisola Arabica, nel Bahrein, in Pakistan e nell’Azerbaigian.
In Iraq gli sciiti sono la maggioranza e il futuro della nazione è ampiamente nelle mani dei loro capi religiosi. Ma dobbiamo avere paura degli sciiti, del loro fervore religioso, della loro rabbia di oppressi e diseredati? Quale progetto si nasconde dietro i volti ieratici degli uomini di fede da cui prendono ordini? Come parlare con loro e costruire un futuro pacifico? Per rispondere a queste domande ho cercato di immergermi in una dimensione che per molti è sinonimo di violenza, intolleranza, oscurantismo. E nella storia di una delle regioni più tormentate del pianeta.


È sempre difficile, e addirittura rischioso, lanciarsi in paralleli storici. Tuttavia è stata l’amministrazione di George W. Bush a tentare per prima questo esercizio, paragonando la sua azione in Iraq agli sforzi dell’America in Germania e in Giappone all’indomani della Seconda guerra mondiale. La stampa americana, meno ottimista, ha preferito l’immagine del Vietnam e dell’affondamento degli Stati Uniti in quel pantano asiatico, mentre in Europa alcuni tentavano un paragone con la guerra combattuta dall’Urss in Afghanistan.
A guardar bene, si potrebbe trarre una lezione da un’altra avventura militare più vicina alle rive del Tigri e dell’Eufrate che, poco più di vent’anni fa, ha segnato una svolta nella storia mediorientale: l’invasione del Libano da parte di Israele nell’estate del 1982, la sua conquista militare, la sua difficile occupazione, e il crollo degli obiettivi strategici dello Stato ebraico. Il prezzo pagato, non solo dal Libano ma anche dalla società israeliana e dall’intero Medio Oriente, è stato enorme.
Mentre l’operazione «Iraqi Freedom» prosegue nella violenza, emergono interessanti paralleli con l’operazione «Pace in Galilea»: la doppiezza dei responsabili politici promotori dell’invasione; l’apparente facilità di uno scontro militare impari; l’inadeguatezza dei mezzi dispiegati per consolidare la conquista iniziale; la mancanza di chiarezza del progetto politico; la scarsa comprensione della complessità locale.
In entrambi i casi, due eserciti hanno beneficiato, per raggiungere rapidamente i loro obiettivi militari, di un’incontestabile superiorità tecnologica e della neutralità di regioni abitate da musulmani sciiti che si sentivano da tempo esclusi dal potere. Ma in entrambi i casi, questi eserciti si sono trovati ben presto di fronte a una guerriglia, nella quale le imboscate, gli attentati, gli attacchi suicidi hanno corroso il morale dei loro soldati e la loro immagine di superiorità, se non addirittura di invincibilità.
Il prossimo inquilino della Casa Bianca, chiunque sia, dovrà affrontare una situazione simile a quella creata da Ariel Sharon in Libano: l’affermazione politica degli sciiti. Nel Paese dei cedri costituiscono una forte minoranza, ma in Mesopotamia sono almeno il 60 per cento della popolazione. Questo faccia a faccia tra l’America e gli sciiti ha avuto dei precedenti: la rivoluzione islamica iraniana e il terrorismo anti-israeliano e anti-americano in Libano negli anni Ottanta. Sono state collisioni che hanno avuto un impatto fortissimo sulla sicurezza del mondo. È sufficiente ricordare che molto prima che il nome di Osama bin Laden fosse noto al pubblico, quello di Hezbollah e del suo agente più famoso, Imad Mughniyeh, faceva tremare i servizi segreti occidentali.
Ho voluto essere testimone del risveglio degli sciiti in Iraq, terzo atto di un processo cominciato con la rivoluzione iraniana del 1979 e l’insurrezione libanese dopo l’invasione israeliana del 1982. Per questo sono tornata in Iraq e in Libano, ma ho ripreso anche la strada per Teheran, unica teocrazia sciita del mondo.
L’Iran ha seguito con estrema preoccupazione l’invasione americana dell’Iraq: la presenza di 140.000 militari statunitensi alle sue frontiere completa l’accerchiamento iniziato con l’operazione anti-terrorismo in Afghanistan. Le difficoltà degli americani in Iraq hanno rassicurato il regime iraniano che però oggi teme due nuovi pericoli: la restaurazione di Najaf, la città santa irachena, come centro di gravità per la comunità sciita, e l’organizzazione a Baghdad di un potere politico dominato dagli sciiti, ma su un modello meno autoritario dell’opprimente regime dei mullah.


È inutile insistere sugli errori del passato. Coloro che, come me, avevano fatto le cassandre fin dall’inizio della crisi irachena non hanno alcun motivo di rallegrarsi: la morte e la distruzione, l’incomprensione e l’ostilità costituiscono un lascito sconsolante di cui tutti dovremo sopportare il peso. La favola delle armi di distruzione di massa ha intaccato le certezze che riponevamo – noi europei atlantisti – nell’esecutivo americano. Troppo a lungo il Congresso e la grande stampa hanno sospeso il senso critico, indebolendo la nostra fiducia nell’efficacia dei contropoteri che hanno reso grande la democrazia americana. Anche le accuse ai centri di spionaggio negli Stati Uniti dovrebbero fortemente preoccuparci. Che gli analisti della Cia e delle altre agenzie siano stati tratti in inganno, che abbiano volutamente gonfiato la minaccia irachena, che abbiano mentito per obbedire a ordini ben precisi o che abbiano dimostrato la loro incompetenza, alla fine poco importa. La loro credibilità nella lotta contro il flagello assolutamente reale che si chiama «terrorismo» è stata seriamente minata. Ed è una bruttissima notizia per tutti coloro che pensano, come me, che l’intelligence abbia un’importanza vitale per la nostra sicurezza collettiva.
Con questo nuovo libro voglio guardare al futuro: il conflitto c’è stato; il dopoguerra è quello che è. Possiamo solo evitare nuovi errori. Non solo quelli dei politici ma anche quelli di noi testimoni e spettatori dei drammi del mondo. Non siamo stati capaci di fermare questa guerra, ma ora dobbiamo impedire la prossima: una guerra di religioni, di culture, di civiltà, nella quale gli ideologi neoconservatori e i fanatici del jihad vogliono trascinarci.
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Sono tornata in queste irrequiete terre del Medio Oriente quando stavo ripensando le mie scelte professionali al Tg1. Ho cominciato il libro come giornalista e l’ho finito come deputata europea. Non mi sembra di aver cambiato mestiere. Continuerò a mettere al servizio del pubblico la mia passione di sempre: la passione di capire.


Questo libro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto decisivo di mio marito Jacques Charmelot, che mi ha accompagnato nei viaggi, nelle ricerche e nella stesura del testo.
Un ringraziamento speciale va a Rosaria Carpinelli e a Paolo Zaninoni: il loro entusiasmo e la loro competenza mi hanno fatto superare le difficoltà e i momenti di incertezza.
Grazie a Massimo Birattari per la lettura puntigliosa che ha contribuito ad arricchire queste pagine; ad Alessandro Vanoli per la preziosa consulenza sulla lingua araba e la storia islamica; ad Alessandra Mascaretti per le acute osservazioni sull’ultima stesura; a Clara Ferrario, Cristiana Latini e Diego Pavesi per il lavoro sulle bozze.

L. G., ottobre 2004

CAPITOLO 1

BAGHDAD:
UN TRISTE ANNIVERSARIO

9 APRILE 2004. Mi affaccio sul balcone della mia stanza all’Hotel Palestine. La giornata si annuncia bella come spesso capita in primavera a Baghdad. L’aria è leggera e silenziosa. Il Tigri scorre lentamente alla mia destra. Sull’altra riva gli eucalipti formano una grossa macchia di verde intorno a quello che fu il palazzo più grande di Saddam Hussein. Un anno fa un’avanguardia di blindati americani arrivava in piazza del Paradiso, davanti al nostro albergo. E io chiedevo al colonnello Brian McCoy che cosa provava a essere il primo soldato americano a raggiungere il cuore della capitale irachena. Era un eroe perfetto, McCoy, nella sua polverosa uniforme da combattimento, con il suo volto da guerriero coraggioso. «Ci hanno accolto con fiori e canti di gioia» mi aveva spiegato. Era un anno fa.
Oggi seguo con gli occhi la strana giostra di un Humvee americano. Il veicolo grosso e tarchiato gira in tondo nella piazza completamente vuota, dominata dalla cupola blu della sua piccola moschea. Per ironia della sorte continua a chiamarsi Moschea del 14 Ramadan, il giorno del colpo di Stato del partito Baath, l’8 febbraio 1963. Un megafono montato sul tetto dell’Humvee ripete un messaggio in arabo: «Iracheni, rimanete in casa. Chi uscirà con un’arma verrà abbattuto». Dove sono i fiori, l’esultanza popolare e la speranza? Tutto il quartiere è circondato, proprio come le altre zone nevralgiche della capitale irachena, nel timore di attentati che i «nemici della democrazia» potrebbero compiere per ricordare alla loro maniera il primo anniversario dell’arrivo delle truppe dello Zio Sam. È stato decretato il massimo stato d’allerta per tre giorni e i soldati americani sono estremamente nervosi. Il blindato gira senza sosta in un perimetro chiuso da una doppia cinta di filo spinato. La grande Saadun Street, l’arteria principale del centro di Baghdad, è stata interrotta molto prima della piazza del Paradiso, dove il 9 aprile 2003 una gru americana aveva aiutato gli iracheni a demolire la statua di Saddam Hussein. Nessuno si arrischia a percorrere i marciapiedi deserti.
Esco sulla grande terrazza dell’albergo dove si trovano le postazioni delle televisioni per le trasmissioni in diretta. Qui non è cambiato nulla dalla fine della guerra, anche se il numero di telecamere e microfoni è diminuito. Con me c’è anche questa volta Enrico Bellano, che comincia a riprendere la giostra dell’Humvee e una pattuglia di soldati americani che si spostano seguendo una precisa procedura di localizzazione e ispezione delle zone in cui potrebbero nascondersi i cecchini. Consiglio a Enrico di fare attenzione: visto lo stato di alta tensione, un soldato troppo precipitoso potrebbe scambiare la sua telecamera per un’arma. Ma Enrico sorride, come fa sempre nei momenti difficili. È un piacere lavorare con un collega come lui: non solo è un operatore eccezionale, ma è anche un compagno instancabile, sempre disponibile. Qualità impagabili, accanto al sangue freddo che sa mantenere nelle situazioni estreme, come ha ampiamente dimostrato nei lunghi mesi passati insieme durante il conflitto iracheno.
Il megafono dell’Humvee continua a urlare il suo messaggio che rimbalza sulle facciate degli edifici dalle finestre chiuse. Gli fa eco il muezzin. Dal minareto della moschea, il richiamo al fervore religioso suona come una risposta all’avvertimento americano. «Dio è grande» ripete la cantilenante voce dell’imam. Non è il richiamo alla preghiera tradizionale che risuona cinque volte al giorno nei Paesi musulmani, ma una semplice litania che sembra rispondere a ordini metallici. Non amo le facili allegorie, ma questa si impone da sé: i ragazzi d’America e i figli di Allah si contendono l’attenzione e la coscienza degli iracheni. E stando ai sondaggi, diventati ormai moneta corrente anche in Iraq, gli yankee stanno perdendo la partita.
I peggiori timori che ho avuto all’epoca della guerra e che ho raccontato con grande franchezza in I miei giorni a Baghdad sono stati confermati. Un anno dopo l’ingresso delle truppe americane nella capitale irachena, la violenza raggiunge il suo apice. Le forze della coalizione devono combattere una vera e propria guerra su due fronti: in primo luogo contro le truppe di sunniti insorti nella regione di Falluja a ovest di Baghdad, poi contro le milizie sciite a sud della capitale, nelle città sante di Najaf, Karbala e Kufa. Le perdite sono ingenti da entrambe le parti. Da mesi l’Iraq è preda di una ferocia che non si placa: imboscate, omicidi, autobombe, attacchi contro le stazioni di polizia e i posti di blocco. Niente viene risparmiato, né gli obiettivi militari, né gli edifici civili, come gli alberghi, e nemmeno le moschee. Anche l’Onu è finita nel mirino: il suo quartier generale al Canal Hotel, dove ero andata spesso prima della guerra, è stato distrutto il 19 agosto 2003 da un camion imbottito di esplosivo. Tra le vittime dell’attentato c’era anche il rappresentante speciale dell’Onu Sergio Vieira de Mello. L’organizzazione internazionale ha preferito gettare la spugna. I civili iracheni sono presi tra due fuochi: gli attacchi degli insorti e le risposte degli americani. Pagano anche un pesante tributo alla scomparsa di una forza di polizia credibile in un Paese tradizionalmente violento. Furti, rapimenti, stupri. La criminalità è esplosa.
Di fronte a questa furia, gli americani hanno cercato di attenersi al loro piano e di organizzare strutture politiche di transizione. Ma siamo ancora lontani dalla democrazia promessa e gli iracheni hanno immediatamente espresso la loro diffidenza nei confronti dei rappresentanti che l’America ha scelto per governarli. Si è messo in moto un processo che sfugge al controllo degli strateghi di Washington, ma che è destinato a determinare l’evoluzione politica del Paese. È alimentato dall’insurrezione armata sunnita che trae risorse e combattenti dal vecchio esercito iracheno, dalle file dei fedelissimi del partito Baath e dagli estremisti religiosi. E dalla contestazione spesso violenta delle frange più diseredate della grande comunità sciita, animata dal fervore religioso e dalle frustrazioni economiche e politiche.
Alle prese con questo duplice fenomeno il proconsole americano Paul Bremer e la sua cerchia di consiglieri e generali sono impotenti. A corto di argomenti, continuano a sostenere a un anno dalla vittoria americana che un pugno di nostalgici di Saddam aiutati da terroristi stranieri tenta di impedire l’avvento della democrazia. Si tratta di un caso di obnubilamento e sono sinceri, oppure si tratta di cinismo e mentono sapendo di mentire? Gli stessi americani hanno cominciato a nutrire seri dubbi sulla buona fede della squadra di Bush che li ha catapultati in questa guerra. Non credono più che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein costituissero un pericolo imminente per i suoi vicini e per l’America. Già il 2 ottobre 2003 erano arrivate le prime conclusioni di David Kay: l’uomo incaricato di trovare l’arsenale di morte dell’ex dittatore concludeva che non ve n’era traccia. Quanto a un presunto legame tra i servizi segreti del signore di Baghdad e le reti del terrorista più ricercato del mondo, Osama bin Laden, non sarà mai provato.
Intanto Washington sbandierava un’altra e decisiva fonte di soddisfazione: Saddam è stato catturato il 13 dicembre. «L’abbiamo preso» ha potuto orgogliosamente annunciare Paul Bremer. La squadra di Bush versava fiumi di parole per spiegare che il macellaio di Baghdad non avrebbe mai più terrorizzato né i suoi concittadini né i suoi vicini. Un discorso che avrei tanto voluto sentire prima, nel 1991, mentre i curdi e gli sciiti pagavano col sangue il prezzo della loro rivolta contro il regime di Baghdad. Si pone ora il problema di sapere come sia stato localizzato e catturato: la storia di una paziente caccia all’uomo che avrebbe impegnato i più abili segugi dei servizi speciali americani è stata venduta ai media con grande abilità. Alcuni in Iraq parlano più semplicemente di un tradimento. Un giorno la Storia ci dirà la verità. Ma una cosa è certa: né la cattura del dittatore, né la morte dei suoi figli durante l’attacco al loro rifugio, nella città di Mosul, cinque mesi prima, hanno placato la collera degli iracheni.


Quando torno per il Tg1 in Iraq, nell’aprile del 2004, vengo proiettata nel cuore di una tragedia che toccherà molto da vicino anche gli italiani: la cattura degli ostaggi. Nell’arco di pochi giorni, in risposta all’assedio di Falluja, la città dei ribelli sunniti, gli stranieri di ogni nazionalità finiscono nel mirino. I bersagli privilegiati sono ovviamente i cittadini dei Paesi che hanno inviato le loro truppe: americani, inglesi, giapponesi, italiani. Vengono chiamati in causa anche i russi, perché lavorano al ripristino delle centrali elettriche per conto di compagnie americane. Un vero furore si impadronisce dei rapitori. E nella comunità straniera il terrore è tangibile, anche all’Hotel Palestine dove pure riprendo la mia solita vita.
Per gli italiani, la cosa finirà in modo drammatico. Il 12 aprile quattro addetti alla sicurezza vengono rapiti e uno di loro, Fabrizio Quattrocchi, viene assassinato due giorni dopo dai carcerieri. Gli altri tre saranno liberati in piena campagna elettorale per le amministrative e le europee di giugno 2004.
«Mi ricorda il Libano» mi dice Tomás Alcoverro, un veterano delle guerre del Medio Oriente, che incrocio nella hall del Palestine. Lavora per il quotidiano spagnolo «La Vanguardia» e, come molti altri suoi compatrioti, si è dichiarato contrario alla partecipazione del suo Paese in quella che lui considera un’occupazione. «Conto le ore» aggiunge questo giornalista che non si può certo definire un irrequieto. È un ometto dagli occhi vispi dietro le lenti spesse. Parla a tutta velocità e sembra trovar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L'altro Islam
  4. CONCLUSIONE - NAJAF E LE DUE SIMONE
  5. POSTFAZIONE - DA ROMA A BRUXELLES: LA STESSA PASSIONE