Dossier expo
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Dossier expo

  1. 380 pagine
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Dossier expo

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Expo è ancora un'occasione o, senza arrivarea immaginare quel flop in mondovisione chequalcuno teme, sarà, per forza di cose, unevento in tono minore? Sono passati tre anni da quando Milano è stata designata sede ufficiale dell'Expo 2015; da quando a tutti era parso che la "capitale morale" ce l'avesse fatta, conquistandosi l'opportunità di realizzare i sogni di una metropoli: una rete di trasporti capillare ed efficiente, vasti spazi di verde, migliaia di nuovi posti di lavoro, la possibilità di intercettare grandi investimenti. Sono passati tre anni e quel sogno si è ridotto a fantasma, perché nel frattempo l'amministrazione Moratti ha compiuto un vero "capolavoro al contrario": una caotica girandola di piani immobiliari, nomine e concessioni, tentennamenti e marce indietro

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858624975

PARTE SECONDA

Il risveglio

1
Il tempo della discordia

Separati in casa

Il primo atto di Expo può essere racchiuso tutto in una giornata. E nelle rotte di due aerei diversi, che disegnano nel cielo le alleanze e le rivalità che segneranno la storia e le sorti dell’evento.
È il 17 luglio 2008 e l’intera delegazione milanese partì per Saragozza, la città spagnola che come abbiamo detto, stava ospitando l’Esposizione internazionale, sorella minore per importanza e durata di quella universale. Il presidente della Regione Roberto Formigoni affittò un volo e offrì un passaggio non soltanto ai suoi assessori e ai giornalisti, ma anche al presidente della Provincia Filippo Penati, a quello di Fondazione Fiera Luigi Roth e al numero uno della Camera di Commercio di Milano Carlo Sangalli.
Tutti i protagonisti dell’avventura del 2015, insomma, tranne lei, Letizia Moratti. Che arrivò da sola, sul suo jet privato, accompagnata esclusivamente dal suo staff. Divisi alla meta, il sindaco e il governatore. Voli separati per i due campioni del centrodestra in dissidio ormai permanente ed effettivo sulla geografia del potere di Expo.
Non sono passati neanche quattro mesi dalla vittoria, eppure lo spirito di collaborazione che aveva portato al traguardo sembra lontanissimo.
Le parole di Romano Prodi, pronunciate quel 31 marzo del 2008, tornano come un cattivo presagio: «Finché dura questa unità fra i diversi livelli di governo siamo fortissimi»1 aveva dichiarato l’allora premier nell’entusiasmo generale. Era bastata un’ora perché il miracolo finisse.
Tutti insieme, per una volta, dal governo di centrosinistra alle amministrazioni locali di centrodestra: questa era sembrata la fase di candidatura. Expo, però, aveva finito presto di essere quella sorta di zona franca, rubata alle risse politiche di sempre e alla campagna elettorale in corso, che era stata fino ad allora. Tutti volevano salire sul carro dei vincitori, prendersi il merito della conquista. E buttare giù gli altri. I calici di champagne erano ancora pieni quando l’incantesimo si era rotto. Era stato Silvio Berlusconi a inviare la stoccata, dall’Italia: «Questo risultato non è certo merito di Prodi e del suo governo». La risposta del Professore: «Si vergogni».
Due settimane dopo, arrivarono le elezioni e il Cavaliere tornò a Palazzo Chigi. Ma nonostante un governo «amico» e amministrazioni dello stesso colore,2 per l’Expo della concordia era partito un primo tempo che non si potrà mai cancellare.
I problemi erano iniziati subito. E a Saragozza la tensione che ormai aleggiava da mesi diventò tangibile. Tanto che, nonostante la missione ufficiale e gli incontri al vertice con i rappresentanti spagnoli, la delegazione italiana passò la giornata al telefono con Roma. Una scena surreale, ma eloquente.
La sera prima, infatti, era arrivata la bozza del decreto del presidente del Consiglio che avrebbe dovuto far partire la società di gestione, la stanza dei bottoni dove si sarebbe deciso su soldi e cantieri.3 E nessuno sembrava soddisfatto.
Letizia Moratti, scortata tra i padiglioni affacciati sul fiume Ebro dal suo braccio destro Paolo Glisenti, provò a chiudere le polemiche che stavano scuotendo i palazzi milanesi e romani imballando il motore dell’evento: «Abbiamo vinto Expo il 31 marzo. Oggi è il 17 luglio. Il tempo è scaduto».4
Il tempo è scaduto, tagliò corto. Bisognava correre, iniziare almeno a mettere sui binari la locomotiva ancora ferma alla stazione di partenza. Mai previsione fu più sbagliata. Perché la telenovela era appena iniziata.

Il senso di Roberto per l’Expo

All’inizio, Roberto Formigoni non credeva a Expo. «Il progetto non è figlio mio. Me lo sono trovato scodellato all’ultimo momento sul tavolo. Diciamo che l’ho adottato. Prima per senso del dovere, poi, mano a mano che cresceva, mi ci sono affezionato. Adesso che è grandicello è giusto portarlo avanti» scherza, ma non troppo, lui adesso.5
La maternità dell’evento non ha difficoltà a riconoscerla: «Certo, l’ho sempre detto: dobbiamo Expo a Letizia Moratti. L’intuizione, i primi passi sono stati i suoi. Era lei giustamente e inevitabilmente la domina. Ma dal momento della vittoria dovevamo far scattare una impresa comune, mettere d’accordo tutte le istituzioni e tutta la nostra gente». Perché dopo la vittoria è iniziata la partita, quella vera. La posta in gioco è diventata alta, e si è intrecciata anche con una buona dose di personalismi. Nessuno dei due, fino alla fine, ha accettato di svolgere un ruolo di comprimario. E, alla fine, lui è riuscito a vincere.
È così che si è trovato a tirare sempre di più i fili dell’Esposizione. Sempre più spazio e sempre più potere: come presidente della Regione detiene il 20 per cento delle quote della società che gestisce l’evento; è a capo del Tavolo Lombardia, che coordina tutte le infrastrutture definite «necessarie», «connesse» ed «essenziali» per far muovere i milioni di visitatori attesi: strade, binari e metropolitane, che (sulla carta) valgono 20 miliardi di euro. E poi la battaglia finale, quella che ha monopolizzato due anni di vita della grande promessa: la titolarità dei terreni su cui dovranno sorgere i padiglioni. Alla fine è passata la «sua» soluzione, quella che non ha mai abbandonato, contro la strada indicata da Letizia Moratti. Solo così, potendo avere l’ultima parola sulle aree, il cerchio si sarebbe chiuso. Perché è solo così che si potrà (prima) influire realmente sul percorso verso il 2015, e (poi) sul futuro di quello spicchio di città sempre più strategico.
Non tutto «mi è piovuto addosso», ammette. Le infrastrutture le ha volute «per portare a unificazione il grande piano di opere che già stavamo pensando per la Lombardia», racconta con una buona dose di grandeur. Sono quelle, il vero business. Lavori miliardari, come i cantieri di Pedemontana, Brebemi e Tem, i tre giganti della strada nella mente degli amministratori del Nord da anni. Da sole varrebbero, in termini economici, l’evento. La coronazione ideale di quasi vent’anni di potere nella Regione più ricca d’Italia, destinati a trasformarsi – anche con Expo – in uno strapotere. Ma in questa storia sono tanti i fattori che si intrecciano, a cominciare dalle sirene di Roma.
Una parabola, quella del governatore, opposta a quella dell’ex sindaco. Tanto che, quando lady Expo si è dimessa dal ruolo di commissario straordinario, è entrato ancora una volta in campo lui, diventando commissario generale del 2015, una sorta di «ambasciatore» dell’Esposizione nel mondo, l’interfaccia nei confronti dei Paesi che dovranno venire a mettersi in mostra. A Palazzo Chigi è riuscito a strappare anche la delega ai contenuti dell’evento e per gestire il nuovo ruolo si è circondato di una squadra insediata al ventinovesimo piano del Pirellone. È in questo team che ha una posizione strategica Paolo Alli, suo fedelissimo, che in questi anni è passato dal ruolo di consigliere nel cda della società di gestione a quello di «sottosegretario» della Regione (una sorta di delegato del presidente) con deleghe «all’attuazione del programma e a Expo 2015».
Tutto il primo tempo è stato segnato dal rapporto conflittuale tra Moratti e Formigoni. Anche perché dietro Expo c’era di più. Loro due hanno cercato a lungo di dividersi le spoglie di quella «creatura» anche per ritagliarsi un ruolo nell’era post-Berlusconi. Lui, l’eterna promessa della politica nazionale e il volto più conosciuto dell’ala ciellina del centrodestra, costretto nei confini dorati della Lombardia, l’erede al trono destinato invece a passare alla storia (locale) come il governatore del ventennio. Lei, l’ex presidente della Rai, la signora che arriva dalla Milano più ricca e influente, che con Expo ha giocato a fare il ministro degli Esteri ombra attirandosi le critiche dei suoi.
Diversi in tutto. Divisi in tutto.
1 Ansa, 31 marzo 2008.
2 Anche la Provincia, l’unico ente coinvolto nella gestione di Expo guidato dal centrosinistra, nel 2009 cambia colore: a giugno il candidato del Pdl Guido Podestà batte Filippo Penati del Pd.
3 Il 25 giugno, con un articolo della manovra d’estate, il governo aveva fissato sulla carta i fondi necessari, nominato il sindaco commissario straordinario e creato il «tavolo» per le infrastrutture affidato al governatore, ma la macchina operativa non poteva partire senza un decreto che designasse chi l’avrebbe dovuta guidare e come.
4 Ansa, 17 luglio 2008.
5 Intervista del 7 ottobre 2011.

2
La spartizione del potere

La capitale dell’efficienza

Le sei pagine di decreto che avevano avvelenato la trasferta spagnola dei signori di Expo non videro mai la luce. Lì era stabilito chi avrebbe dovuto gestire, e come, cantieri, progetti, idee, miliardi di opere pubbliche. Altre bozze, altre versioni furono scritte continuando a fare la spola tra Palazzo Chigi, il Pirellone, Palazzo Marino e Palazzo Isimbardi. Da quelle sei pagine, sarebbe dovuta nascere la società del 2015. Che, però, fu registrata dal notaio soltanto il 1° dicembre del 2008, appena in tempo per presentarsi di fronte all’Assemblea generale del Bie che già guardava preoccupata alle vicende e ai ritardi milanesi:1 quattro mesi dopo quel viaggio a Saragozza, otto mesi dopo la vittoria di Parigi.
Un periodo trascorso a capire chi avrebbe tenuto le leve del comando del grande evento, chi avrebbe gestito i fondi, chi avrebbe avuto l’ultima parola sui cantieri. Uno scontro a tutti i livelli: tra enti locali, tra Milano e Roma. Con il governo che tentò di «commissariare» l’Expo se non – la voce più volte rimbalzata in città – di capire quanti danni avrebbe fatto rinunciare di fronte alla crisi economica. E, allora, un unico vincitore finale: il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, il severo guardiano dei conti.
Il problema era sempre quello: Letizia Moratti voleva una catena di comando cortissima per la sua creatura. Solo così un evento complesso come l’Esposizione sarebbe andato avanti con passo spedito. Lei aveva immaginato Expo, aveva seguito il progetto di candidatura e riteneva di dover proporre il modo per realizzarlo. Lei sarebbe stata commissario straordinario e Glisenti, il «coautore» della vittoria, sarebbe stato amministratore unico di una macchina da 4 miliardi di euro, tra fondi per le opere e per l’organizzazione.
Troppo per Roberto Formigoni. Troppo per gli altri enti che avevano partecipato alla candidatura e che, adesso, dovevano entrare nella gestione. Accusavano il sindaco di scarsa collegialità, spingevano per un consiglio di amministrazione che potesse diventare camera di compensazione dei diversi interessi e delle diverse voci. Troppo anche per la Lega che, tra l’altro, pretendeva un suo uomo a occuparsi delle infrastrutture e, poi, sedere in quella stessa cabina di regia. Troppo per Tremonti che avrebbe dovuto mettere la maggior parte dei soldi in un progetto in cui, si è sempre detto, non aveva mai creduto, senza tra l’altro avere neppure l’ultima parola sulle decisioni.
Un conflitto a tutti i livelli che, in casa centrodestra, si intrecciò con gli equilibri interni e i dossier nazionali che, in quel periodo, agitavano l’asse Milano-Roma: la partita Alitalia e la nuova cordata di imprenditori per la compagnia di bandiera con relativo abbandono di Malpensa, l’hub del Nord declassato a semplice scalo proprio quando avrebbe dovuto rilanciarsi per accogliere i milioni di visitatori del grande evento; i tagli del governo agli enti locali, il federalismo, la difficoltà a stanziare fondi per le infrastrutture lombarde, il salvataggio dei bilanci disastrati di Catania e Roma.
Intanto il tempo correva e l’attività di Expo rimaneva bloccata. I mesi se ne stavano andando in discussioni e divisioni. Con i fondi necessari ancora tutti sulla carta, e con i lavori che diventavano sempre più un miraggio in quello strano interregno. Una sorta di purgatorio in cui si era piombati in un percorso al contrario, una discesa verso gli inferi dopo il paradiso di Parigi.
Eppure, le dichiarazioni d’intenti dell’inizio avevano raccontato un avvio tutto diverso: la marcia verso il 2015 sarebbe dovuta partire subito. Moratti e Glisenti avevano le idee fin troppo chiare e volevano tirare dritto.
Il 1° aprile 2008, a meno di ventiquattr’ore dalla vittoria, il Consiglio dei ministri – l’ultimo atto del governo Prodi per l’Expo – aveva trasformato il Comitato di candidatura in Comitato di pianificazione. Dalle speranze, adesso, bisognava passare alla fase operativa. Quell’organismo, si era stabilito, sarebbe rimasto in piedi fino alla fine di giugno. Tanto, era l’illusione, tre mesi sarebbero bastati per dare vita alla vera struttura operativa. Ma tre mesi erano passati e la società non esisteva ancora. Expo non aveva neppure i soldi per pagare il manipolo di dipendenti sopravvissuti dalla fase precedente, figurarsi partire con l’attività, i progetti e i programmi. Non rimaneva che prolungare quell’interregno.
Nei mesi di tensione, una segreteria tecnica a cui partecipano i rappresentanti di tutte le realtà sedute al tavolo del gioco si riunisce per mandare avanti quel poco che può essere mandato avanti. Si attende la nascita della società. E quel decreto del premier che, formalmente, dovrà stabilire gli assetti.
È un Risiko. Formalmente ci si affronta sul campo del diritto societario con dispute raffinate (meglio la società per azioni, no, meglio l’amministratore unico, un consiglio di amministrazione vero, facciamo come Torino con le Olimpiadi che ha diviso la responsabilità delle infrastrutture da quella della gestione dell’evento, e perché non il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica che si occupa già delle grandi opere?), ma il nodo finisce per essere sempre quello: chi comanderà?
Ad agosto la governance sembra essere decisa. Ma anche quello che sarebbe dovuto essere il giorno dell’avvio ufficiale della macchina operativa, a cui lady Expo arrivò a Palazzo Chigi pensando di avere la partita in mano e di chiudere la faccenda in pochi minuti, si trasformò in un clamoroso nulla di fatto.
Il sindaco voleva rammentare a tutti chi aveva vinto Expo. Si era presentata all’insediamento del Cipem (un altro pezzo della catena, un neonato Comitato di indirizzo e programmazione dell’evento formato anche da una serie di ministri) con la proposta di uno statuto che prevedeva un amministratore unico (Glisenti, naturalmente) con tanti poteri: dalla direzione e coordinamento dell’attività operativa della società alla redazione del piano finanziario, dalla nomina di uno o più direttori generali alla stipula dei contratti per la gestione. Sarebbe stato a capo del personale e avrebbe istituito ben sei Consulte esterne: una architettonica, una ambientale, una sindacale per il lavoro, un’altra territoriale per le istituzioni, un comitato scientifico e uno per l’innovazione.2 Una struttura faranoica ma, d’altronde, si doveva o no progettare un grande evento? Nel documento non c’era traccia di quel consiglio di amministrazione che Formigoni pretendeva.
Dopo un’ora e mezzo di vertice a Palazzo Chigi, la riunione si chiuse con una sola certezza: il nuovo decreto fu ritirato da Berlusconi e bollato da lui stesso, che lo aveva firmato, come «mostro giuridico». Tremonti non c’era, ma aveva fatto passare il messaggio: la struttura prevedeva un comitato composto da una pletora di ministri per accontentare un po’ tutti i partiti, che sarebbe dovuto essere una sorta di cda senza esserlo davvero, una scatola svuotata di capacità decisionale. Impossibile. Tradotto: ci voleva un vero consiglio di amministrazione e un amministratore delegato. Tutto da rifare. Al di là delle questioni tecniche, il problema era politico. Letizia Moratti lasciò Roma furiosa minacciando addirittura di dimettersi da commissario straordinario. Era stata messa all’angolo. Di nuovo sola, come su quell’aereo diretto a Saragozza.
All’inizio di settembre sarebbe toccato persino all’allora cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, lanciare un monito: «È vero che il 2015 è lontano e che si era partiti con un giusto entusiasmo. Ma poi, finora, i primi passi sono andati più che altro nel segno della distribuzione dei poteri».3
Le vacanze estive erano dietro l’angolo e non si era ancora giunti a una conclusione. In realtà, per una volta, spaventati dall’idea di essere «espropriati» dell’evento dal governo, Comune, Provincia e Regione all’inizio di agosto trovarono un accordo. Ma da Roma si rimandò tutto a settembre. Expo doveva ancora affrontare gli esami di riparazione. La palla passò nelle mani di Roberto Calderoli, il ministro leghista per la Semplificazione normativa, incaricato di tradurre l’armistizio politico tra Letizia e Roberto in una governance «condivisa».
Il 30 settembre lo stesso Cavaliere spiegò la mediazione in corso: «Adesso è tutto più equilibrato. È giusto che Letizia Moratti abbia la mano migliore; se Milano ha ottenuto l’Expo è merito suo. Ma è anche giusto che Formigoni, visto che partecipa alla società con il 20 per cento, possa esprimere una persona di fiducia nel cda».4 Adesso c’era un cda e un amministratore delegato e se il sindaco era il commissario straordinario, il governatore aveva ricevuto in dote un bottino fondamentale e strategico, la giurisdizione di tutte le infrastrutture. La linea del Comune non era passata.
Ma il decreto, che tutti giuravano essere pronto, non arrivava. La firma? A giorni, ripeteva il premier. A giorni, sostenevano tutti. Certo. Giorni che diventarono settimane.
La sigla di Berlusconi in calce al documento diventò un giallo e un caso: il governo vuole rinunciare, fu il timore che circolò nei palazzi milanesi, rimbalzato da quelli romani. Finché si materializzò in extremis, come sempre per tutte le faccende Expo, a ottobre del 2008, a duecentocinque giorni dalla vittoria, prima di un viaggio del capo dell’esecutivo in Cina, e soprattutto dopo un avvertimento del presidente del Bie Jean-Pierre Lafon, che sibilò: «Time is running out». Il tempo stava per scadere e Milano si sarebbe...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Premessa - Un capolavoro al contrario
  5. PARTE PRIMA - Il sogno
  6. PARTE SECONDA - Il risveglio
  7. PARTE TERZA - La sfida
  8. Cronologia
  9. Ringraziamenti
  10. Sommario