IL CAPPIO
a mio padre che, servendola,
mi ha educato all’amore per la Repubblica
a mia madre, a Francesco e Mara
a Fabiola
m.dl.
a Carmelo che non si faceva pagare il caffè
a Ettore e Diego che non faranno diversamente
e.b.
Avvertenza
Il lettore troverà tra virgolette caporali le considerazioni di de Lucia e per il resto un lavoro condiviso di analisi sui documenti processuali che raccontano l’anonima estorsioni negli ultimi 18 anni.
Più a Sud
La mafia costruisce sulla paura il bisogno di sicurezza che si prepara a soddisfare. Vende protezione ma ne acquista in dosi massicce allo stesso mercato. Offre tranquillità ma pretende impunità. Nella quiete apparente del ricatto elevato a sistema, non c’è la vittima annichilita dal terrore ma il complice funzionale agli scopi dell’organizzazione.
Non c’è Cosa Nostra senza pizzo. Col pizzo, Cosa Nostra riafferma la propria presenza territoriale, incamera lo stretto necessario per il mantenimento in vita del proprio esercito e getta un ponte verso il mondo esterno, il mondo degli affari, piccoli e grandi.
In questo viaggio si incontrano decine di picciotti e boss, ma molti di più – per paura, connivenza e convenienza – sono i non mafiosi, formalmente non affiliati, eppure indispensabili a Cosa Nostra.
Sono commercianti che pagano e tacciono, capitani d’industria disponibili a scendere a patti con l’ultimo dei killer, politici cerniera tra le pretese dei “mammasantissima” e gli appetiti dell’imprenditoria. Consulenti pronti a sfornare carte a posto per tutte le occasioni. La mafia dove la mafia non si vede. Almeno in apparenza.
Questo è un viaggio dal basso, dall’ultimo gradino dell’economia mafiosa per risalire ai piani alti delle stanze in cui si disegnano le scelte strategiche di uno sviluppo drogato per quest’isola. È un viaggio che dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che qui ci si confronta con l’estremo. L’estremo dello spreco e dello sperpero, l’estremo della violenza omicida e dell’intimidazione sistematica, l’estremo della presenza pervasiva di una struttura militare che con cinquemila uomini tiene in pugno una terra di cinque milioni di persone e vagheggia ancora, nonostante i colpi subiti, di rialzare la testa e puntare in alto, molto in alto. Perché più che la violenza esercitata conta il mito dell’aggressione eventuale.
Questo è un cammino nei molti silenzi di una società distratta o indifferente che nella mafiosità diffusa cresce e prospera, ritenendosi immune da un sentire che diventa pratica quando di mezzo ci sono interessi economici: gli imprenditori che, giustificandosi con la paura, hanno accettato le regole di un mercato che li ha visti ingrassare, commercianti che pagano il pizzo e poi corrono ad affidarsi agli esattori per esigere crediti da un cliente moroso o per imporsi su un concorrente.
Un viaggio amaro in una società che solo negli anni Ottanta ha preso coscienza dell’esistenza della mafia, e solo sul sangue di Libero Grassi ha iniziato a fare i conti con l’onnipresenza del pizzo e del ricatto che soggiace alla pratica dell’esazione sistematica.
Negli oltre tre lustri in cui si collocano le storie raccontate nel libro, il lento processo che ha portato a una presa di coscienza collettiva ha avuto un’accelerazione solo a partire dal 2004. Abbastanza perché ci si possa aprire alla speranza, poco per considerare chiusa la partita.
Nel 1876 questa Sicilia, che per molti versi è ancora la stessa, era raccontata così da Leopoldo Franchetti.
Colui che volesse giudicare il manutengolismo siciliano e apprezzarne la moralità o l’immoralità coi criteri ammessi nell’Europa centrale, generalmente cosiderati come in istato normale, si ingolferebbe in una confusione inestricabile di equivoci dove la sua mente si perderebbe inevitabilmente e finirebbe con l’abbandonare la questione come insolubile, o col portare un giudizio parziale o avventato.
In Sicilia la distinzione tra il manutengolismo moralmente scusabile perché imposto dal timore di un danno grave e quello moralmente condannabile perché provocato dal desiderio di avvantaggiarsene non ha significato. […] Inoltre, dove i malfattori intervengono e dominano gran parte delle relazioni sociali, quella distinzione fra danno evitato e vantaggio recato che non esiste nelle menti neppure esiste nel fatto e d’altronde l’atto medesimo che salva dall’inimicizia dei malfattori può recare la loro amicizia con tutti i vantaggi che ci sono inerenti senza che a procurarli intervenga il fatto di nessuno.
Leopoldo Franchetti in Condizioni politiche e economiche della Sicilia, Universale Donzelli, Roma 2000.
Il libro ha preso forma dopo una serie di conversazioni, alcune delle quali molto lontane nel tempo, tra un giornalista e un magistrato, Maurizio de Lucia, che ha dedicato la stragrande maggioranza del proprio impegno professionale a scompaginare il sistema del racket e buona parte del proprio lavoro a spiegare quanto fosse importante partire da lì, dalla struttura militare, nella lotta a Cosa Nostra e ai suoi fiancheggiatori di ogni livello.
Si parte dal 1991, l’anno in cui fu ucciso Libero Grassi ma anche l’anno in cui de Lucia iniziò la propria avventura professionale.
Il viaggio
«Rigore, passione civile, impegno, ma la carriera in magistratura appariva una tra le possibilità più remote. Era un percorso irto di difficoltà, la selezione dura. Non bastava volerlo fortemente, c’erano mille variabili e forse per non andare incontro a una cocente delusione avevo attinto a una certa dose di fatalismo, finendo per considerare l’eventualità di vestire la toga solo come uno dei molti modi per rendersi utili nella società. In realtà, speravo eccome che andasse bene. Allora il mestiere di magistrato attraeva molti giovani. Adesso, decisamente, non è più così.»
Il risultato del concorso arrivò quando era già vicedirettore alla Corte dei conti.
«La sede era una scelta per modo di dire. Sulla base delle selezioni, i primi 80 posti erano tutti accaparrati. Il resto stavano al Sud. Prima di decidere bisognava dare un’occhiata.»
Lo fece dopo un viaggio improbabile con altri tre colleghi uditori conosciuti a Napoli.
«Montammo in macchina con Maurizio Conte, oggi giudice a Napoli, Giuseppe Grieco, in servizio a Pistoia, Luigi Musto, poi arrivato a Napoli, e partimmo per un tour nel Meridione più profondo.»
Era l’ottobre del 1990.
«Un mese prima la mafia aveva ucciso Rosario Livatino. Era “il giudice ragazzino”, come fu definito dall’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, assassinato a 37 anni mentre da solo, a bordo della propria auto, da casa, a Canicattì, si dirigeva in tribunale, ad Agrigento, per andare a fare il proprio dovere di magistrato. Pochi giorni dopo, noi quattro, che avevamo qualche anno in meno di Livatino, dovevamo decidere il nostro destino.»
Paola, Palmi – dove Grieco e Musto avrebbero scelto di fermarsi –, Catanzaro, furono le prime tappe del viaggio.
«La scelta, istintivamente, era orientata su Catanzaro, la sede più vicina a Napoli, ma il viaggio proseguì. Giù fino a Reggio Calabria, Messina. Quindi Caltagirone, Modica, Ragusa, Gela, Agrigento e infine Palermo. Per uno che vuole fare il giudice a quel tempo arrivare al Palazzo di giustizia di Palermo significava vedere con i propri occhi in cosa consistesse la peculiarità di questo ufficio, considerato una delle sedi giudiziarie insieme più difficili e più stimolanti. Sulle scale del tribunale, Conte, che sarebbe rimasto anche lui a fare il pm a Palermo, si fermò, mi prese per il braccio e mi disse: “Fare un anno qui è come farne cinque da un’altra parte”.»
La decisione era presa.
«Al secondo piano nella stanza del procuratore, incontrai per la prima volta Giovanni Falcone. C’era anche Giusto Sciacchitano. Fu un incontro breve e di circostanza. Il tempo di preannunciare che, da lì a qualche mese, quello sarebbe diventato il mio posto di lavoro. A quel punto chiamai casa per avvertire i miei.»
Il padre non si scompose. La madre commentò che da Trieste era più vicina Mosca che Palermo. Carte geografiche alla mano, a conti fatti, non aveva torto.
Insieme con Maurizio Conte ed Egidio La Neve, de Lucia era il primo uditore a mettere piede alla Procura della Repubblica di Palermo.
Quando, a maggio del 1991, tornò a Palermo, rivide Falcone. Era nell’aula magna del Palazzo di giustizia, insieme con il ministro Claudio Martelli. Il giudice siciliano più famoso nel mondo era il direttore generale degli Affari penali del ministero, l’artefice osteggiato della Direzione nazionale antimafia, impegnato in quei giorni a convincere i suoi ex colleghi che quella fosse la strada giusta, l’unica per dare allo Stato una risposta all’altezza della sfida.
«Per noi, e non solo per noi, Falcone era un mito, era la lotta alla mafia anche in senso tecnico. I suoi verbali di interrogatorio restano uno strumento prezioso per capire come si costruisce un atto. Ho passato intere giornate a studiarli e ancora oggi mi capita di imbattermi in qualche pagina che ha la sua firma. È lì che si sostanzia l’esempio di Falcone, nel suo lavoro, nella sua attività quotidiana. Le sue carte sono un punto di riferimento per chiunque voglia fare questo mestiere. Il suo modello di interpretazione del fenomeno, il suo modo di decodificare la simbologia mafiosa restano le chiavi per penetrare in un universo altrimenti oscuro.»
In procura, per quei ragazzi venuti da altre città, gli anziani avevano un occhio di riguardo. Lo aveva Paolo Borsellino che era uno dei procuratori aggiunti. Li vedeva restare in ufficio fino a tardi. Apprezzava l’entusiasmo misto alla tenacia e alla disponibilità al sacrificio.
Le settimane e i mesi volarono via rapidamente. A marzo del 1992 de Lucia fu mandato a seguire l’autopsia sul corpo dell’europarlamentare della Dc Salvo Lima. Quell’omicidio avrebbe segnato l’avvio della nuova campagna di sangue dei Corleonesi dopo la conclusione in Cassazione del primo maxiprocesso alla mafia istruito da Falcone.
In procura si percepiva un clima pesantissimo. Il 23 maggio di quell’anno Cosa Nostra chiuse la pratica aperta molti anni prima uccidendo il giudice che più di ogni altro le aveva inferto colpi decisivi.
«Andai alla Medicina legale quasi come un automa e lì mi ritrovai insieme con gli altri giovani colleghi. Avevamo chiaro che la partita non era affatto conclusa. Eravamo sconvolti, lo Stato, quello di cui facevamo parte, ci sembrava a pezzi. Che Borsellino fosse il prossimo bersaglio era nell’aria, si percepiva. Il 17 luglio, il venerdì prima della strage di via D’Amelio, passai dal suo ufficio a salutarlo prima di andare a Napoli per le ferie. La domenica tornai precipitosamente a Palermo. La mafia aveva continuato il lavoro iniziato con Falcone.»
De Lucia fu destinato prima alla criminalità finanziaria, poi alla pubblica amministrazione. Due anni dopo, si occupava già stabilmente di mafia, nella procura di Gian Carlo Caselli prima e di Pietro Grasso poi, avendola incrociata ovunque nella trattazione dei primi processi. E fece i conti subito con il pizzo: quello pagato dalle imprese che si aggiudicano gli appalti.
«Era come essere sbattuti in un mondo impensabile, era come oltrepassare la linea di confine e trovare lì insieme, seduti allo stesso tavolo, capitani d’industria e criminali incalliti. Talvolta, lo confesso, accusavo la vertigine dell’incredulità. Ciò che avevo potuto fino ad allora solo immaginare era lì davanti ai miei occhi sotto forma di prove e di racconti dei protagonisti. Si dispiegava allora lo specifico siciliano delle tangenti, non solo bustarelle per oliare i meccanismi dell’aggiudicazione dei lavori e delle forniture pubbliche, ma un ferreo controllo di ogni flusso di spesa attraverso un assoggettamento sistematico a un blocco di potere che con la mafia aveva stretto un patto d’acciaio, finendo per diventare un’unica cosa.»
De Lucia, spesso con Gaspare Sturzo, Michele Prestipino e Roberta Buzzolani, iniziò così ad addentrarsi nel sistema fiscale di Cosa Nostra che lo avrebbe portato presto a investigare su centinaia di uomini d’onore e colletti bianchi, mafiosi, imprenditori e commercianti che soggiacciono, per paura o connivenza, al ricatto e ancora troppo raramente si ribellano, rimanendo con il c...