Il dio denaro
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Il dio denaro

  1. 304 pagine
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Nel mondo d'oggi il denaro sembra la principale misura del valore individuale e l'elemento centrale della vita politica e sociale. Ma non si tratta certo di un fenomeno esclusivamente contemporaneo, perché la ricchezza è da sempre al centro delle riflessioni e delle preoccupazioni umane, dalla più lontana antichità ai nostri giorni. Proprio attraverso il dialogo con i testi antichi, sette protagonisti della cultura odierna si interrogano sul denaro nei suoi infiniti e conflittuali aspetti. Una panoramica che va dall'Antico Testamento a Omero, da Platone a Petronio, da Aristotele ad Agostino, e rivela come idee così remote e apparentemente estranee possano racchiudere una morale attualissima, che può aiutare a leggere la crisi globale. Rivolgersi ai classici diventa così un modo per comprendere le ambiguità del presente e per ritrovare l'etica economica perduta.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858627990

Centro Studi

La permanenza del Classico

Ricerche 20
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Dipartimento di Filologia Classica e Medioevale Università di Bologna

http://www.classics.unibo.it/Permanenza

IVANO DIONIGI

Sua Maestà il Denaro

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AVVERTENZA DEL CURATORE

Il dio denaro riprende il ciclo di letture e lezioni organizzate dal Centro Studi «La permanenza del Classico» dell’Università di Bologna nel maggio 2009. Come ormai d’abitudine, il ciclo – giunto all’ottava edizione – ha chiamato a confrontarsi intellettuali del nostro tempo con testi greci, latini e giudaico-cristiani dedicati a un tema della cui attualità (quando esso fu scelto) era difficile immaginare i più drammatici risvolti odierni: il «denaro», la «ricchezza», l’«economia», sia nell’accezione contemporanea, sia nell’accezione originaria di «(buona) amministrazione» dei beni; l’«economia», dunque, nel suo carattere di disciplina autonoma, ma anche nei suoi rapporti con la politica, con l’etica, con la storia, in breve con l’humanitas e con i suoi valori.
Alle questioni poste dai testi antichi – affidati alle interpretazioni di Umberto Orsini, Michele Placido, Lina Sastri, Valentina Sperlì, Luca Zingaretti – hanno risposto Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Luciano Canfora, Franco Debenedetti, Ivano Dionigi, Guido Rossi e Vandana Shiva. Il tutto per la regia di Claudio Longhi.
Insieme a tali interventi – che non potevano non assumere gli accenti del dubbio e della proficua dissonanza – si raccolgono qui anche i testi antichi, tradotti dai membri del Centro Studi; è una selezione puramente esemplare, entro l’inesauribile dominio di riflessioni che gli antichi (testimoni privilegiati di cambiamenti epocali) hanno dedicato ai motivi del «denaro» e della «ricchezza». I testi sono qui disposti in ordine cronologico, ma il lettore non faticherà a riconoscerne la pertinenza ai temi toccati nei diversi interventi.
Cosa ci dicono i classici su regina Pecunia (Orazio), su «sua maestà il Denaro»? Su economia e politica? Su affari e etica? Su guadagno privato e bene comune? Sul denaro-idolo e il denaro-moneta? Sul disordine e l’instabilità dei mercati? Più che simili e fondativi, su questo tema i classici si presentano difformi e antagonisti rispetto al nostro presente.
I Greci, cui dobbiamo la parola oikonomia, non elaborarono alcuna riflessione economica, per motivi non solo storici ma anche ideologici. L’assenza di una classe lavoratrice libera, compensata dal costante afflusso di schiavi; il mancato incremento di un tessuto produttivo e mercantile strutturale; l’organica limitazione a una cittadinanza sostanzialmente consumatrice e parassitaria; il rallentato sviluppo tecnologico, mantenuto a livelli sorprendentemente rudimentali; la dominante mentalità aristocratica che, subordinando il “valore di scambio” al “valore d’uso”, condanna il profitto e che, rovesciando la logica e il senso comune, dichiara che la ricchezza è causa di mali e che «solo il saggio è ricco»: sono tutte costanti che documentano un’economia embedded, «legata», e non disembedded, «liberata» (Polanyi), propria invece della modernità capitalistica. Un’economia, dunque, subordinata alla morale.
Eppure nei testi classici c’è qualcosa che ci riguarda da vicino.
Nel IV secolo a.C., ventiquattro secoli prima del tracollo finanziario di Lehman Brothers (15 settembre 2008), Aristo tele nella Politica aveva teorizzato che «trarre guadagno dal denaro stesso e non al fine per cui esso fu escogitato costituisce il più innaturale di tutti i modi di arricchire»; pensiero riecheggiato dalla riflessione di S. Tommaso a proposito dell’usura, nella quale denarius ex denario crescit («il denaro cresce dal denaro») e nummus parit nummum («il denaro genera denaro»). E già nel VI secolo a.C. Eraclito di Efeso ci aveva consegnato questa sentenza: «in cambio dell’oro si hanno le merci e delle merci l’oro».
Il denaro: ovvero il grande regolatore e comunicatore universale.

ENZO BIANCHI

Verae divitiae: la vera ricchezza

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Pecunia, l’argent, il denaro: il motore dell’economia? Il mezzo di scambio per eccellenza che si è imposto come standard universale? Misura non solo per il mercato dei beni e dei servizi, ma anche misura sul mercato del lavoro? Il denaro ci spinge a esprimere il valore economico mediante l’aggettivo «caro» («questo prodotto è più o meno caro…»), in parallelo all’affetto che induce a dire a un altro «caro» («mio caro…»). Caro, cher, dear, teuer: una stessa parola per misurare il denaro e per misurare l’affetto (cfr. A. Bergmann, L’argent moteur de l’économie?, in D. Marguerat, Parlons argent, Genève, Labor et Fides, 2006, pp. 11-17).
Ma il denaro è un mezzo o un fine? Dipende per chi. Non è certamente un fine per l’economia, che insegue la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi. Non è un fine neppure per l’impresa, la quale vuole creare una ricchezza, un utile. E per l’individuo? Il fine è la felicità che dipende dall’amare e dall’essere amato, dal senso trovato nel vivere, da un certo benessere materiale, dunque anche dal denaro: sì, per alcuni il denaro è percepito come la chiave per accedere alla felicità.
Platone nelle Leggi (917a-918d) e Aristotele nella Politica (1258a-b) ritengono che sia naturale trarre vantaggio dalla terra e dagli animali, ma che non lo sia arricchirsi con il denaro. Allo stesso modo la Torah (cfr. Esodo, 22, 24; Deuteronomio, 23, 20 sg.) e i profeti di Israele (cfr. Ezechiele, 18, 8.13.17; 22, 12), seguiti dai Padri della Chiesa (cfr. per esempio Gregorio di Nissa, Contro gli usurai) condannano quanti prestano denaro a interesse, creando denaro con il denaro. Questa patologia del legame con il denaro è stata definita philargyria (letteralmente «amore per il denaro»), cupidigia, avarizia, è stata annoverata tra i peccati capitali e letta come fonte di molti mali, di enormi disastri economici, politici e oggi anche ecologici.
Ma in radice il denaro è un mezzo necessario, in sé non è né bene né male: è uno strumento che esiste dal VII secolo a.C. sotto forma di moneta, che sta nell’ordine delle mediazioni e come tale permette lo scambio (allo stesso modo del linguaggio, per esempio), è «una vittoria sulla distanza» (Simmel), è un mezzo che permette di abbattere le frontiere sociali e geografiche. D’altra parte il denaro, proprio per la sua qualità rappresentativa, può diventare un fine in sé, un agente di accumulazione delle ricchezze, capace di possedere una grandezza autonoma e una forza seducente. Allora esso diviene fattore di divisione che crea distanze fra gli esseri umani fino a ingigantirle e a renderle incolmabili, assurgendo a criterio di definizione delle persone e del loro status. Così l’animo umano finisce per investire il denaro di un valore simbolico, il quale può condurre ad atteggiamenti di potere e di dominio, a una vera e propria hybris nell’esercizio della libido amandi, possidendi e dominandi (ho meditato estesamente su queste tematiche in E. Bianchi, Da forestiero, Casale Monferrato, Piemme, 1995, pp. 65-82).
Lao Tze, il sapiente cinese fondatore del taoismo (VI secolo a.C.), racconta la paradigmatica storia di Tsi. Questi era un uomo sedotto dal denaro, avido di ricchezza. Un mattino, recatosi al mercato, vide un banco di cambio, rubò il denaro e fuggì, ma fu subito arrestato da una guardia che gli domandò: «come hai potuto pensare di rubare questo denaro e poter fuggire inosservato?». Tsi rispose: «mentre rubavo il denaro io non vedevo la gente, vedevo solo il denaro!». Ecco, il denaro esercita un tale fascino che occulta la presenza di altre persone e altre cose, un fascino che accorda addirittura la forza di rubare… Il denaro ci seduce, entra in noi come una presenza efficace e contribuisce in modo sordo ma reale a tessere i nostri rapporti, le nostre relazioni con le cose e con gli uomini. Noi possediamo il denaro, ma il denaro ci possiede altrettanto; il denaro ha un posto invadente nei nostri desideri, decide di molti dei nostri desideri. Per questo nell’Antico Testamento il denaro è definito mediante la parola keseph, la cui radice verbale (kasaph) indica il «desiderare ardentemente», il vero e proprio «languire» per qualcosa (cfr. Genesi, 31, 30; Salmi, 17, 12).
Diventa allora rivelativa la lettura del Vangelo, dove il denaro è personificato. Gesù dichiara che il denaro è una potenza, anzi è un dio: «nessuno può servire a due signori: o odierà l’uno e amerà l’altro, o si attaccherà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Matteo, 6, 24; cfr. Luca, 16, 13). E si badi bene: il termine «mammona» è in opposizione a Dio, l’amore per mammona esclude l’amore per Dio. Questo è il radicalismo evangelico di Gesù. Il denaro per lui non è semplicemente una cosa che l’uomo può possedere o no: può diventare facilmente un dio, un idolo al quale sacrifichiamo la vita degli altri e alieniamo noi stessi. Lo esprime bene l’autore della Lettera di Giacomo, quando descrive il denaro come un verme che divora coloro che lo possiedono, ingannandoli e portandoli alla distruzione e, nello stesso tempo, come una fonte di ingiustizia:
E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dai vermi; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre, grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore dell’universo. Sulla terra avete fatto una vita di lusso arrogante, avete ingrassato i vostri cuori «per il giorno della strage» [Geremia, 12, 3]. Avete condannato e assassinato il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
(Lettera di Giacomo, 5, 1-6)
Questo testo così duro raccoglie e rilancia il messaggio veterotestamentario sui ricchi. Qui occorre però precisare che l’Antico Testamento, nel suo complesso, non è negativo a proposito dei beni, delle cose in sé. Anzi, al suo interno si nota un certo apprezzamento per l’abbondanza, come attesta la letteratura sapienziale: «nella casa del giusto c’è abbondanza di beni» (Proverbi, 15, 6). Ma lo sguardo sui ricchi è assai severo, e spesso i profeti li mettono in guardia con i loro «guai» (cfr. Isaia, 5, 8; Abacuc, 2, 9), come del resto farà Gesù: «guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione» (Luca, 6, 24). L’abbondanza infatti non deve essere fine a se stessa, ma deve generare condivisione e arginare l’ineguaglianza, perché le risorse della terra sono destinate a tutti e il denaro che misura i beni deve favorire la partecipazione di tutti alla tavola di questi stessi beni.
Nel cristianesimo inoltre – come già si accennava in precedenza – il rapporto con il denaro va letto nello spazio della possibile idolatria (cfr. Lettera ai Colossesi, 3, 5: «la cupidigia è idolatria»), e «l’idolatria non è tanto né innanzitutto un errore teologico, ma invece un errore antropologico» (A. Gesché, Dio, trad. it. Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996, p. 166), un’alienazione dell’uomo. Non si dimentichi, in proposito, che il termine «mammona» deriva dalla radice ebraica aman (da cui viene la nota acclamazione amen), che contiene l’idea dell’“aderire con fiducia”, dunque della fede. Il denaro infatti chiede fede-fiducia in sé e diventa sicurezza, falsa sicurezza contro la morte, saturazione dei bisogni più veri che abitano il cuore dell’uomo, presenza potente che induce a vedere solo lui, il denaro, e a non vedere gli altri, ad agire senza gli altri e, se necessario, anche contro gli altri. Per questo le parole di Gesù sono macigni: «non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano […]. Perché dov’è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore» (Matteo, 6, 19 e 21).
Ecco allora la domanda essenziale che ciascuno di noi è chiamato a porsi: dove sta il mio cuore? Qual è per me la vera ricchezza? Il denaro è per me strumento di relazione e di condivisione, e dunque di comunione con gli altri, oppure strumento di egolatria? E si faccia attenzione: Gesù non era un profeta pauperista che non toccava il denaro (cfr. B. Maggioni, Gesù e il denaro, in «Parola, Spirito e Vita», 42, 2000, pp. 111-118). Nella sua comunità c’era una «cassa comune» (Giovanni, 12, 6; 13, 29), appunto del denaro messo in comune, non sottoposto al regime del “mio” e del “tuo”, ma destinato alla communitas, destinato anche a chi era nel bisogno, in modo che la koinonia («comunanza», «comunità») fosse la forma del vivere insieme. Comprendiamo allora come normante per la comunità cristiana di ogni epoca e latitudine quella descrizione della primitiva chiesa di Gerusalemme, nata dalla Pentecoste, presente nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli: «tutti coloro che diventavano credenti […] tenevano ogni cosa in comune. Chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno (2, 44 sg.); «tutto tra loro era comune […]. Nessuno era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno (4, 32 e 34 sg.; cfr. E. Bianchi, «Nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), Bose, Qiqajon, 2005; cfr. anche J. Taylor, Le modèle socio-économique de la première communauté chrétienne, in F. Mies [a c. di], Bible et économie. Servir Dieu ou l’argent, Bruxelles, Lessius, 2003, pp. 77-95; per un’antologia di testi patristici sul tema della condivisione dei beni cfr. Comunità monastica di Bose [a c. di], Povertà e condivisione nella chiesa, Bose, Qiqajon, 2002).
Nella storia del cristianesimo questa “utopia” è stata ininterrottamente meditata e interpretata, e si è tentato più volte di realizzarla. In particolare, fino alla pax costantiniana i “sommari” hanno conosciuto un’interpretazione mirante a rinvenirvi la forma primitivae ecclesiae, dunque un autentico modello per il rinnovamento della comunione intraecclesiale. Cessate le persecuzioni, questi stessi testi hanno conosciuto grande fortuna presso i padri monastici – Pacomio e Basilio di Cesarea su tutti – che vi hanno trovato una fonte d’ispirazione decisiva per la vita delle loro comunità. In seguito, sono stati oggetto delle più svariate letture etico-sociali, che vi hanno ravvisato l’ideale cristiano della condivisione dei beni, le esigenze della giustizia sociale, e molto altro ancora, così come hanno conosciuto, per contro, congiure del silenzio e sono stati disattesi nel vissuto quo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il dio denaro