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Ripensare i padri

  1. 100 pagine
  2. Italian
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Ripensare i padri

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Che cosa significa, oggi, essere "eredi"? Cosa significa essere figli, allievi, posteri in un'epoca senza memoria, che sembra aver reciso programmaticamente ogni legame con la storia e il proprio passato? Eppure la tradizione non è un ingombro da cui ci si può liberare semplicemente ignorandolo. L'eredità – in senso personale e psicologico, così come in senso storico e culturale – è infatti un capitale da far fruttare e non un patrimonio inerte da custodire. Conoscere i propri padri è indispensabile sia per accettarli che per superarli: per amarli così come per ucciderli. In questo libro sei autorevoli pensatori del nostro tempo riflettono sulle infinite sfumature e implicazioni del concetto di "eredità" – sul rapporto tra passato e presente, tra maestri e allievi, tra padri e figli – in un dialogo appassionato con i testi dell'antichità, riuniti in un'antologia che va da Omero a Virgilio, da Platone a Seneca, da Aristotele all'Apocalisse.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858627082
Categoria
Sociologia
Eredi
IVANO DIONIGI
«Ciò che hai ereditato dai padri»
AVVERTENZA DEL CURATORE
Il presente volume riprende il ciclo di letture e lezioni organizzate, nel maggio 2011, dal Centro Studi «La permanenza del Classico» dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Come ormai d’abitudine per un’iniziativa giunta al suo decennale, indiscussi protagonisti della cultura contemporanea sono stati chiamati a confrontarsi con testi greci, latini e giudaico-cristiani intorno al tema dell’“eredità”, declinata nella duplice prospettiva della storia e della persona, o, se si preferisce, della “filogenesi” culturale e dell’“ontogenesi” individuale. Si va così dal generale al singolare, dal comune al personale, dal pubblico al privato, secondo le molte gradazioni di un tema e di un problema che tutti ci riguarda, in quanto padri e figli, in quanto maestri e allievi, in quanto eredi del passato e attori del presente, necessariamente rivolti a un futuro che proseguirà, smentirà o tramuterà in direzioni inedite la nostra azione quotidiana.
Alle questioni poste dai testi antichi – affidati alle interpretazioni di Sonia Bergamasco, Fabrizio Gifuni, “Mitipretese” (Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti, Mariángeles Torres), nonché alle riscritture sceniche dell’Odissea (Mario Perrotta) e dell’Apocalisse (Francesco Colella e Francesco Lagi) – hanno risposto Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Ivano Dionigi, Paolo Grossi, Massimo Recalcati e Barbara Spinelli.
Insieme a tali interventi si raccolgono qui i testi antichi tradotti per l’occasione dai membri del Centro Studi «La permanenza del Classico». La selezione, ordinata cronologicamente, è solo uno specimen delle infinite riflessioni che l’antichità ha dedicato al tema dell’“eredità” tra epoca ed epoca o tra persona e persona. Una riflessione di cui noi siamo, consapevoli o inconsapevoli, a nostra volta eredi.
«Ciò che hai ereditato dai padri / conquistalo per possederlo». Questi versi del Faust di Goethe illuminano il concetto autentico di “eredità”: un capitale da far fruttare e non un patrimonio inerte da custodire; una tradizione in cui riconoscersi e non un canone cui adeguarsi per conformismo; un valore da vivere e conquistare e non un feticcio da omaggiare.
Le persone, le storie, le cose ci fondano e ci identificano: noi siamo loro e loro sono noi; nel bene e nel male, volenti e nolenti. Pertanto conoscere i “padri” o, sul piano personale, il padre, il maestro, è necessario sia per accettarli sia per superarli: per amarli o per ucciderli. L’“eredità” esige un atto di conoscenza, da parte di tutti, e soprattutto da parte di coloro che intendono sottoporla al vaglio della discontinuità, dell’antagonismo, della negazione. Dell’“eredità” – sia essa storica o culturale, politica o personale – tutti detengono le azioni. Non tutti sanno farle fruttare.
Di qui, fra l’altro, la positività e nobiltà della parola servator (“amico della tradizione”) rispetto a novator (“nemico della tradizione”): un recupero non solo linguistico ma anche politico e morale, soprattutto in giorni nei quali “rivoluzionaria” sembra soprattutto la cura della legge, delle istituzioni, dei valori costituzionali.
Conoscenza, accettazione ed eventualmente rifiuto dell’“eredità”. Senza nostalgie né rancori; ma con lo sguardo e con i passi già rivolti al futuro, consapevoli che siamo al mondo per conoscerlo, cambiarlo, possederlo; e che «ogni mattina, quando si leva il sole, inizia un giorno che non ha mai vissuto nessuno» (D.M. Turoldo).
EREDI
ENZO BIANCHI
Apocalisse, l’eredità di Dio:
le due Bestie
Introduzione
Siamo negli ultimi anni del I secolo post Christum natum, dopo la nascita di Gesù Cristo: Jochanan, Joannes, Giovanni, si trova in esilio a Patmos, una piccola isola rocciosa del Mar Egeo, di fronte all’attuale Turchia. È stato inviato e relegato su questo sperone di rocce dal potere politico romano, perché «testimone», martys, «martire», dunque a causa della «testimonianza (martyria) resa a Gesù» (Apocalisse, 1, 9), il suo Kyrios, «Signore».
Jochanan è anziano, secondo la tradizione è l’ultimo discepolo e dunque l’ultimo dei dodici apostoli rimasto vivo, è quasi centenario. È alla fine dei suoi giorni e sta per lasciare la sua chiesa, o meglio le sue chiese disseminate nell’Asia Minore. Le lascia in un’ora cattiva: è infatti in atto una feroce persecuzione nei confronti dei cristiani da parte dell’imperatore Domiziano (81-96 d.C.). Nelle chiese c’è stanchezza, ci sono germi di divisione e di sfaldamento. La seconda generazione cristiana sta per trasmettere l’eredità alla generazione successiva, in una situazione di grande novità, di accelerazione per la storia mediterranea, ma anche per la chiesa che ormai non è più un pusillus grex (Luca, 12, 32), ma è avviata a essere la «grande chiesa».
In questo contesto, che messaggio lasciare in eredità? Certamente, come per ogni generazione cristiana, il Vangelo, la buona notizia di Gesù Cristo, quel Vangelo per il quale Jochanan patisce la persecuzione. Ma nell’ora presente, in quest’ora di krisis, di giudizio di Dio, in quest’«ora cattiva», che cosa in particolare urge ricordare alla chiesa affinché sia fedele al Vangelo? Jochanan è un testimone e consegna «parole di profezia» (Apocalisse, 1, 3), è un profeta che compie un’operazione ben precisa: alza il velo (secondo il senso etimologico del verbo apo-kalypto) sulla storia, ma non per questo è un “apocalittico” nel senso in cui oggi si usa abitualmente questo termine. No, Jochanan alza il velo sul presente della storia, alza il velo sull’azione di Dio che è sempre giudizio, non ancora nella sua epifania definitiva eppure già operante. Jochanan consegna, trasmette alla chiesa una profezia non su cose future, ma sull’oggi, e nell’oggi intravede il frutto maturo, intravede la direzione in cui va il mondo.
Detto altrimenti, egli è un contemplativo, un visionario che ascolta, contempla e scrive il suo messaggio come eredità: il libro dell’Apocalisse. Si tratta di un’opera di 22 capitoli, tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, dunque un’eredità in cui il testatore-testimone esprime tutto ciò che vuole trasmettere. È un libro che contiene visioni e lettere, sempre attraversate da un unico, fondamentale messaggio, ripetuto in modo circolare, a spirale, «il Signore viene!», perché il grido dell’umanità nell’ora della sofferenza e dell’ingiustizia è: «Marana tha! Vieni, Signore!» (Apocalisse, 22...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Eredi
  5. Indice