Camice matto
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Camice matto

  1. 380 pagine
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Camice matto

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Campagna veronese, 1940. In una povera famiglia di contadini nasce Vito, destinato dalle sue origini a una vita semplice, scandita da necessità contingenti e consuetudini secolari. Ma fin da bambino Vito manifesta una sensibilità particolare, bizzarre pulsioni sessuali, curiosità inquietanti.Quando la sua famiglia al termine della guerra si trasferisce a Verona, Vito percorre tutte le tappe della sua formazione, fino agli studi in medicina. Tra momenti di interesse morboso per la religione, esperienze sessuali vissute con un forte senso di colpa, affetti violenti e a volte quasi crudeli, si costruisce la sua brillante ascesa professionale, che lo porta a lavorare nei più prestigiosi istituti d'Italia e del mondo e a prendere una decisione fondamentale per la sua carriera: occuparsi dei pazienti del manicomio della sua città, alla ricerca di una diversa interpretazione delle malattie mentali e di terapie nuove e più umane.Dalla penna di uno dei nostri scienziati più noti, una storia intensa sul lato oscuro di tutti noi, che ha per sfondo l'Italia degli ultimi sessant'anni.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858627051

Dedica

a mio padre

Primo

Una nascita tra la povera gente è un evento benedetto o almeno lo era allora, nel 1940, quando nacque Vito Anderlini.
Venne al mondo il 21 aprile e sua madre verso le cinque della sera interruppe ogni altra occupazione per preparare la tavola in modo del tutto particolare. Sentiva, infatti, che entro qualche ora sarebbe nato.
Avvertiva spinte ritmiche, come se egli bussasse alla porta per uscire. Andò ad avvisare le vicine di casa e presto cinque donne, in abito nero, grembiule nero, fazzoletto nero attorno alla testa, erano pronte ad aiutarla.
Per qualche giorno sarebbe stata servita; un’eccezione per chi ha sempre accudito a tutti: al marito, naturalmente, ma prima di sposarsi al padre e ai fratelli.
Nell’ampia cucina tutto si svolse in un gran silenzio, in questa improvvisata sala-parto si era celebrato un rito della natura in un’atmosfera di mistero.
Il marito al ritorno avrebbe gioito nella certezza di avere ora, con la nascita di un maschio, garantita la continuità della stirpe.
Anche Lucia era contenta: comunque fossero andate le cose, quel neonato avrebbe avuto una moglie che si sarebbe occupata di lui per sempre.
In una famiglia povera, con la nascita si riattiva il ricordo che così si fa storia. Si parla di quando è nato il bisnonno, di come erano i raccolti di quell’anno, di quante bestie c’erano in stalla. Per il resto si è sempre presi dal quotidiano, dai bisogni della sopravvivenza che àncorano all’attimo presente.
Nessuno mai accennava alla nascita di zia Rachele, venuta al mondo in un anno bisestile, in un giorno di luna calante. C’era anche la siccità e una mattina la Grigia, la vacca da latte, era caduta fulminata.
L’evento storico più frequente in un casolare di campagna era proprio la nascita. Gli uomini usavano il bastone dell’amore con regolarità e, se avevano bevuto, anche con insistenza, e, dunque, seminavano il ventre delle donne come un campo a primavera.
Vito pesava quattro chili, aveva la testa coperta da capelli arruffati e biondi, ma soprattutto il pene era di dimensioni straordinarie. Lucia non poteva dire niente, ma le comari con una lunga esperienza non ricordavano un neonato con un uccello simile.
Quando lo vide, il padre tirò per la gioia una bestemmia, lo misurò e toccandolo ebbe l’impressione che fosse addirittura duro.
Lucia pregava. Doveva ringraziare la Madonna per quel bambino, per averlo avuto sano e forte e con quel coso tra le gambe, segno d’una grazia particolare.
Per una donna ogni occasione era motivo di preghiera, soprattutto la morte, se si pensa che l’orazione può portare in paradiso.
Doveva pregare per ogni malattia: come poterla superare senza il Signore e l’interessamento della Madonna santissima?
Lucia ringraziava sempre: se il raccolto era abbondante, se era scarso perché le cose sarebbero potute andare ancora peggio, come era accaduto a Marta, che in una notte aveva perso il suo uomo per un male alla gola e il maiale per maledizione.
Pregava sempre per Giuseppe, il marito: perché gli venissero perdonate le bestemmie. L’aveva richiamato i primi tempi, ma poi aveva smesso perché, come chi vuole spegnere un fuoco aggiungendo legna, otteneva per risposta bestemmie e offese.
Pregava anche per quel vizio di cui però non parlava a nessuno. Una vergogna che teneva dentro di sé, velata di dolore. Quando eccedeva nel bere voleva far l’amore come gli animali da stalla, ma per inesperienza lo infilava nel posto sbagliato. Un peccato che Dio aveva condannato a Sodoma e a Gomorra.

La corte era un grande spazio rettangolare su cui davano cinque abitazioni. Un luogo per lavorare tutti insieme: per sgranare il mais, per uccidere il maiale, per pigiare l’uva alla vendemmia. Anche le stalle si aprivano in questo spazio: le vacche si abbeveravano nella vasca situata proprio al centro.
Oltre alla famiglia di Giuseppe, c’era quella formata dai suoi genitori: vivevano insieme a una sorella non sposata che avrebbe voluto farsi suora, ma era troppo ignorante e troppo povera per entrare dalle Clarisse. C’era ancora la famiglia di Giorgio, suo fratello, e quella delle due vedove, mogli dei fratelli più giovani, caduti in Africa Settentrionale per conquistare le colonie.
Una corte piena di nostalgia, di passato. Vasta quanto i sentimenti. Oltre il suo confine c’era il nulla, anzi il pericolo, come addentrarsi in una foresta misteriosa.
Le due vedove non si amavano e prima di uscire nella corte una si assicurava che non ci fosse l’altra. Era sorto persino il sospetto che una raccogliesse le uova sul fienile e ne trattenesse qualcuna per sé, e dunque rubasse dal momento che tutto era in comune. Come avrebbe fatto altrimenti a comprare quell’abito a Natale se l’altra non aveva spiccioli per fare l’elemosina in chiesa?
Gli antagonismi però terminavano sempre di fronte agli eventi importanti, e alla nascita di Vito le due cognate collaboravano assieme alle altre donne della corte attorno a quel tavolo da cucina per aiutare nel parto. Tutte e cinque nell’attività quotidiana sembravano competere per primeggiare nella fatica e in lavori talora evitabili: una gara per il vittimismo.
L’acqua per la casa era tirata da un pozzo situato fuori della corte in un punto dove la falda era pura. Vi si recavano con secchi di rame, più volte al giorno, piegate sotto un bilanciere curvato da due secchi straboccanti che schizzavano acqua lungo tutto il tragitto. Perché non riempire una botte al pozzo e poi trasportarla col carretto tirato dall’asino fino davanti all’uscio di casa dove, senza tanta fatica, avrebbero potuto colmare i loro secchi?
Se si volesse leggere in termini razionali il lavoro delle donne di un casolare di campagna, si dovrebbe concludere che esse non hanno cervello. E il loro aspetto dimesso, inelegante? Tenevano l’abito a fiori nell’armadio per timore di rovinarlo, e ne indossavano uno antico e nero, come dovessero espiare chissà quale colpa. Un’immagine triste, sepolcrale.
Comunicavano a gesti o con qualche parola che usciva lamentosa. Spesso muovevano le labbra, ma se si chiedeva loro: «Cos’hai detto?», subito rispondevano: «Niente, sto recitando le orazioni».
È indubbio che le donne della corte non godevano nemmeno a letto. Vestite come suore di clausura, si disponevano all’amore come un condannato a morte, come se il corpo fosse luogo di sofferenza.
Giuseppe, a questo proposito, era di una semplicità straordinaria: si muoveva quando era già in erezione, alzava alcuni capi di biancheria e lo infilava dove capitava. Se le barriere erano insormontabili e gli mancava la pazienza per aprirsi un varco, lo introduceva nella bocca e spingeva come un mulo. Non teneva in alcun conto le suppliche che cominciavano puntualmente non appena Lucia ne intuiva le intenzioni: la pancia dolente, il sedere lacerato, la bocca piena di ascessi dentari. Non badava a chiacchiere, lo poneva duro e lo toglieva solo quando era totalmente crollato.
Se in quel casolare fosse d’un tratto capitata la ricchezza, tutte le donne avrebbero stazionato nell’ambulatorio del medico per curare un corpo marcio dappertutto, distrutto da ogni sorta di fatiche. Si rivolgevano invece al prete. In confessionale, ma in particolare durante le frequenti visite alla cascina. Le incontrava tutte nella corte, ma poi entrava nella cucina di ciascuna e qui ascoltava le miserie e svolgeva anche il ruolo del dottore. Sapeva dare una cura per le emorroidi, per i dolori della pancia, era esperto del basso ventre: i dolori delle vergogne.
La terapia, naturalmente, era la preghiera, ma sapeva accostarvi anche ausili terreni: decotti, clisteri. «Avete lo stesso disturbo della Pia dei Vergoti... consolatevi, vedeste il sedere della Gemma dei Morari...» La consolazione faceva parte della cura.
Gli uomini erano un po’ gelosi del prete, anche se in modo del tutto particolare e con ammirazione per il suo straordinario potere: con l’estrema unzione assicurava per sempre un posto in paradiso.
In quella corte, in verità, il suo comportamento aveva seguito sempre i comandamenti e ciò appariva dal grande numero di polli e di uova che riceveva a ogni visita. Laddove era gratificato con altra merce, si risparmiava in pennuti.

Vito doveva soltanto attaccarsi bene alle mammelle materne e succhiare. E quelle di Lucia erano straordinarie. I capezzoli pendevano da un’area scura, bitorzoluta, e davano latte al ritmo d’una vacca di stalla.
L’altro suo dovere era di defecare in corrispondenza dei pasti, producendo feci ben formate, puzzolenti e acide.
Mentre ispezionava questo prodotto, Lucia era sempre sorpresa, come si trovasse di fronte a un miracolo. E naturalmente ogni volta recitava un Salve Regina. Anche quell’evento era opera del Signore, anzi della Madonna, che di quelle cose se ne intende.
Il neonato rimaneva per lo più fasciato, come quel bambino Gesù di cera che confezionavano le Clarisse e che vendevano in chiesa poco prima di Natale.
A Vito doveva dispiacere di aver le mani bloccate poiché avrebbe desiderato toccare quelle poppe, accarezzarle sia pure con i movimenti automatici e grossolani di un neonato. Per un bambino il seno è il mondo intero. Tutta la sua certezza.
Perché la camicia di forza si semplificasse, bisognava aspettare i sei mesi, quando il parroco avrebbe celebrato il battesimo. Nel suo corpo entrava lo Spirito Santo e a quel punto tenerlo insaccato avrebbe voluto dire costringere Dio.
Vito esprimeva segni di grande vitalità e il giorno del battesimo era spiritato. Sorrideva, agitava freneticamente mani e piedi, gridava per richiamare l’attenzione. Quando gli versarono l’acqua sulla testa, e aveva già capelli lunghi, pianse.
Il pene cresceva con un ritmo che a Giuseppe sembrava superiore a ogni altra zona del corpo. Ed era convinto che spesso si erigesse. Vito pesava, a quella stessa età, tre etti più del padre e ciò stava a dimostrare la qualità delle tette di Lucia: una vera fonte di grazia.
Era soddisfatta, contenta che il Signore le avesse dato tanto seno. Quando lo guardava, la sera, prima di coricarsi e dopo aver allattato, era felice e se lo toccava con un senso di grande riconoscenza. Si accarezzava il capezzolo e subito si induriva. Le sarebbe piaciuto allattare anche Giuseppe, piano piano.

A un anno e mezzo Vito rincorreva sua madre e borbottando si attaccava ancora al seno e tirava con una forza mostruosa, morsicandolo con i dentini da latte. Lucia non diceva nulla, ma era rossa in volto e imbarazzata poiché quello strano modo di nutrire le produceva piacere e talora sentiva gonfiarsi tutto quanto teneva tra le gambe, con la voglia di toccarsi.
Allattava di nascosto o quando non c’era nessuno in giro. Vito era un po’ strano se si pensa che ora si metteva in piedi sulle ginocchia della madre, tirava fuori entrambe le mammelle, si attaccava a una per il latte e titillava l’altra con la mano, con la sapienza degna d’un demonio. Anche quando aveva incominciato a nutrirsi alla maniera degli adulti, non aveva voluto rinunciare al latte materno e così prendeva polenta e formaggio di pecora e poi latte di mamma. Nessuno si meravigliava che crescesse in modo straordinario.
A partire da due anni in quella corte i bambini usavano andare a pascolare le mucche: occorre stare attenti che esse non si allontanino per sconfinare nel terreno altrui e scatenare così una guerra tra vicini. Si doveva anche far attenzione che non si portassero sulle coltivazioni del mais.
Vito aveva capito perfettamente il suo compito e spesso rimaneva solo, seduto sotto una pianta. Doveva abituarsi a quei loro interminabili pasti, a quel ruminare instancabile. E così stava nel prato quattro o cinque ore di seguito, fino a che il padre non veniva a prendere le mucche. Subito guardava le mammelle, la pancia, e quando le vedeva gonfie sorrideva a Vito in segno di approvazione per il suo buon lavoro.
Quel prato era il suo campo-giochi. Di solito si appoggiava a un albero e con le gambe piegate delimitava una zona di fiori e d’erbe con i quali talvolta parlava. Alle margherite toglieva qualche petalo e talora le denudava completamente, giocava con il trifoglio in una curiosa verifica del tre, arrivava poi una farfalla, una cavalletta, qualche strano insetto. In quello spazio era racchiuso un mondo straordinario, sempre nuovo. Gli capitava anche di togliere un filo d’erba e tirandolo forte di scoprirne le radici: un mondo sotterraneo e misterioso. E allora con un legno scavava alla ricerca di un tesoro, fatto di fantasia. La terra qui è nera con vermi che si contraggono nervosi.
Alzando la testa dal prato immaginava una strada per poter raggiungere il cielo e sbucare dall’altra parte. Guardava quell’infinito sopra di lui e così fuggiva da quel campo e giungeva in un luogo dolce e silenzioso. Incontrava talvolta qualche nuvola che lo portava in giro per l’universo, con la percezione di un mondo completamente differente da quello della corte, del pascolo.
Così spaziava in un futuro fatto di cieli, mentre le mucche continuavano a masticare.

Secondo la tradizione, il primo nipote maschio doveva portare il nome del nonno, un trucco per far vivere i morti per sempre o quantomeno per ricordarli: era se stesso ma anche il proprio passato, come se la vita fosse un gioco di squadra. Gli altri nati, senza una regola fissa, potevano ricordare col loro nome uno zio morto in guerra, ma anche un fratellino spirato appena giunto su questa terra.
L’esistenza si attacca sempre alla morte. Quando si porta il nome di un trapassato si finisce anche per assomigliargli, come ricalcare la stessa storia che, poi, in quel casolare si ripeteva identica da sempre. Guardando Vito, si vedeva il nonno e in questi suo nonno e così via fino al nonno dei nonni che nessuno ricordava ma tutti sapevano che era identico a quel Vito che ora aveva poco più di due anni. Il nome serviva anche a caricare i vivi di qualità, dell’eroismo che apparteneva ai trapassati. Se si pensa che la memoria opera sempre sconti straordinari ai difetti, i piccoli erano già carichi di onori. «Come suo nonno!» «Ricorda persino il nonno di suo nonno, quello che aveva combattuto con Garibaldi: uno dei Mille.»
Il nonno di Vito aveva sessant’anni, ma era già curvo, un’andatura a piccoli passi, cappello sempre in testa, toscano in bocca, un viso segnato da rughe che parlavano di fatica. Era sdentato e la parola usciva biascicata assieme a fili di saliva che disegnavano tele di ragno. Non si arrabbiava mai, con un fare giocoso ispirava fiducia. Lavorava ancora ed era convinto di essere insuperabile per certe operazioni.
Nessuno lo eguagliava nel fare il letto alle vacche e ai buoi. Non sapevano disporre la paglia, con spessore identico, non avevano capito come le bestie si coricano e dormono, e lui invece ne conosceva anche i sogni.
Nel piantare i cavolfiori era un gran maestro, mentre gli altri non riuscivano a spingere il legno nella terra e nello stesso tempo a ruotarlo in senso orario di un quarto di giro e poi toglierlo obliquamente per estrarre quel po’ di terra necessaria a creare il nuovo abitacolo.
Lavorava, ma aveva anche tempo per stare con il nipotino, di cui era fiero per quello stesso nome di razza. Spesso lo accompagnava al pascolo e magari nel silenzio riempiva il tempo che anche in un bambino talora scorre troppo lento.
Vito guardava il fumo del toscano, le braci che si illuminavano a ogni boccata. Un gioco che avrebbe voluto imitare, ma che poteva solo emulare con un pezzetto di legno che teneva tra medio e indice e di tanto in tanto portava tra le labbra. Fingeva di accenderlo e il nonno stava allo scherzo consumando qualche fiammifero oppure avvicinandovi la parte accesa del toscano.
È facile innamorarsi di un nonno quando si è piccoli, se poi sa fare tutti i versi degli animali da stalla e da cortile!
Quel nonno era una vera fattoria e Vito lo stava a guardare ammirato e lo spronava a qualche prodezza non appena gli sembrava che avesse deciso di non recitare più. Conosceva talmente bene la personalità degli animali da prevederne i movimenti: «Guarda la Mora, sta brucando tranquilla, attento, adesso alzerà la testa e la girerà verso destra: uno, due, tre». Immancabilmente accadeva.
«Guarda ora bene le zampe, sono ferme, osserva bene quella posteriore di sinistra, si alzerà per raggiungere il ventre: uno, due, tre.» Inutile dire che succedeva proprio quello, magari perché sulla mammella si erano accumulate delle...

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  2. Frontespizio
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