Il linguaggio grafico della follia
eBook - ePub

Il linguaggio grafico della follia

  1. 464 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il linguaggio grafico della follia

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

La follia è il grande mistero con il quale Vittorino Andreoli si confronta ormai da decenni. Ma la follia non manifesta se stessa soltanto attraverso comportamenti fisici inconsulti o produzioni verbali anomale. Anche le creazioni grafiche possono essere rivelatrici, se non apertamente di un sintomo, comunque di uno stato di affezione e di sofferenza psichica. È il 1959 quando Andreoli, ancora studente al liceo, accede per la prima volta all'atelier di pittura nel manicomio di Verona: in qualche modo comincia a vedere la follia dentro i colori che i pittori disponevano sui loro quadri. Da lì è iniziato un lungo percorso di conoscenza e di amore per i "suoi matti". Questo volume raccoglie la summa delle sue osservazioni empiriche e delle riflessioni teoriche elaborate in cinquant'anni di professione medica, una vera e propria antologia sul linguaggio non verbale in psichiatria. Disegni, dipinti, "espressioni" che sono al contempo indizio di malattia mentale e arte a tutti gli effetti, nella lettura lucida e partecipe di un grande esperto degli studi clinici internazionali.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il linguaggio grafico della follia di Vittorino Andreoli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Psicologia e Storia e teoria della psicologia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858627037

INTRODUZIONE

Un sogno a colori

Era il 1959, cinquant’anni fa. A Verona si tenevano Le giornate lombrosiane: un appuntamento che si ripeteva ogni due anni per ricordare che nella città, la mia città, era nato Cesare Lombroso, un autore discusso, ma indubbiamente tra i più significativi e noti tra Otto e Novecento in tema di follia e di criminalità.
Io ero un giovane studente che, finito il liceo, aveva preso la decisione di iscriversi alla facoltà di Medicina, con l’obiettivo preciso di diventare uno psichiatra.
Frequentavo il San Giacomo della Tomba, il manicomio della città e fu il suo direttore, il professor Cherubino Trabucchi, a segnalarmi l’evento che era da lui stesso presieduto.
Il tema quell’anno era centrato sull’attività pittorica dei malati di mente. Un argomento che si associava perfettamente a Cesare Lombroso, il quale nel 1880-82 aveva pubblicato un’opera, Genio e follia, in cui sosteneva che se la pazzia era una degenerazione del cervello, altrettanto accadeva per la genialità.
Ma più che dalla concezione positivistica di cui Lombroso era, assieme a Scipio Sighele e a Leonardo Bianchi, il rappresentante più insigne della scuola italiana, ero stato affascinato dai molti studiosi di livello internazionale, che avevano fatto un’analisi del problema della cosiddetta pittura alienata. C’erano Jean Bobon, Robert Volmat, Jean Vinchon, Gaston Ferdière.
Avevano in quell’occasione cancellato il termine pittura alienata sostituendolo con psicopatologia dell’espressione. E il 20 ottobre 1959, nacque la Société Internationale de Psychopathologie de l’Expression (SIPE).
Avevo diciannove anni ed ebbi l’impressione di trovarmi all’improvviso davanti a una finestra aperta sul mondo intero. Ne rimasi affascinato e poiché esisteva nel manicomio di Verona un atelier di pittura che ospitava sei malati maschi e sei femmine, chiesi al direttore il permesso di potervi accedere.
Lo ottenni e da allora ne divenni anche l’animatore instancabile.
Posso dire, per paradosso, di aver incominciato a fare lo «psichiatra» occupandomi di «arte», sia pure eseguita dai folli. D’altra parte mancavo di qualsiasi formazione clinica e scientifica.
In qualche modo cominciai a vedere la follia dentro i colori che i pittori matti del manicomio disponevano sui loro quadri.
È questo l’inizio di un percorso ed è anche il momento della nascita di questo volume.
Ma un altro episodio incise, ancor più profondamente, in questo mio interesse.
Avevo acquisito molte informazioni sulla Compagnie de l’Art Brut. L’aveva fondata Jean Dubuffet, un ricco commerciante di vini di Parigi il quale nel 1940-41 si era messo a raccogliere delle opere pittoriche brut. Questo termine aveva il significato di non-culturel e dunque egli era interessato a produzioni artistiche eseguite da pittori che non fossero stati contaminati dalla cultura.
Più avanti egli scrisse un libro Asfissiante cultura1 in cui esponeva l’idea della cultura ufficiale come omicida dell’arte.
Egli pensava che il vero museo doveva essere quello dell’Art Brut.
Alla fine degli anni Cinquanta aveva messo insieme una ponderosa collezione conservata a Parigi al numero 127 di rue de Sèvres.
Si era accorto che l’85 per cento delle opere in catalogo provenivano dai manicomi o comunque che erano eseguite da malati di mente. E questo divenne un punto di grande meditazione sul rapporto non più tra arte e follia, alla maniera di Lombroso, ma tra art brut e follia.
Oltre al museo, la Compagnie riuniva alcuni personaggi straordinari del mondo parigino di allora. Basta il nome di André Breton per indicarne il livello e il fascino.
Occorre aggiungere che tra i soci non vi era alcuno psichiatra, se si esclude Breton che era specialista in psichiatria ma non aveva mai esercitato la professione, perché la psichiatria era vista come una persecutrice dei folli.
E la dimostrazione indiscutibile si legava al caso di Antonin Artaud, l’uomo di teatro e del cinema, il fondatore del «Teatro della crudeltà», «curato» con una sessantina di elettroshock e che fu salvato proprio da un Comitato di intellettuali di cui Breton era presidente e Dubuffet segretario.
La scoperta della Compagnie mi convinse nel 1961 a recarmi a Parigi per mostrare a Jean Dubuffet alcune opere pittoriche composte da un matto del San Giacomo della Tomba: Carlo Zinelli.
Senza un appuntamento giunsi in rue de Sèvres e spiegai alla segretaria il mio desiderio, mostrando le opere che ne dovevano costituire l’occasione e il contenuto.
Non era facile incontrare Dubuffet, che a partire dal 1951-52 era diventato anche pittore, ma intanto venni in contatto con Slavko Kopac, un pittore che svolgeva la funzione di segretario della Compagnie.
Dovetti impressionare positivamente il «curato», perché, finalmente, venni ricevuto dal «monsignore» e insieme a lui, in un memorabile pomeriggio, incontrai André Breton.
Naturalmente tutto era centrato sulle opere di Carlo Zinelli, sull’interrogativo se egli fosse un pittore brut, sul suo livello culturale, sul rapporto tra la malattia di cui soffriva, la schizofrenia, e la cultura.
Certamente non si sono chiusi in quel giorno tutti gli interrogativi, ma senza ombra di dubbio, si disse che Carlo non solo era un pittore brut, ma tra i suoi più grandi rappresentanti.
Entrò a formare una famosa triade insieme ad Aloyse (del manicomio di Losanna), di Wölfli (del manicomio di Vienna).
Fui invitato a scrivere la biografia e a descrivere la sua produzione artistica, e nel 1966 contro ogni aspettativa e rompendo un dogma della Compagnie, fui nominato membro della Compagnie de l’Art Brut.
Al di là di questi eventi, il mio impegno aveva una sua continuità dentro l’atelier di pittura del manicomio che, oltre a essere storicamente il primo nella psichiatria in Italia, divenne certamente il più attivo e famoso.
Nel contempo ero diventato un conoscitore di quella materia, portavo i miei personali contributi nei Convegni internazionali, ero uno dei membri della SIPE, nata a Verona. E nel 1966 ero già medico e specializzando in psichiatria.
Proprio sull’attività scientifica è sorto un altro evento, per me molto significativo.
Era nata anche in Italia una Società scientifica che riuniva gli studiosi di questo curioso aspetto della psichiatria. Un campo che non ha mai raggiunto tanti adepti e che, per coloro che vedevano il futuro della psichiatria nelle scienze «dure», la Società italiana di psicopatologia dell’espressione appariva come un’ancella di poco conto.
La Società italiana celebrava convegni e quindi proseguiva i propri scopi nell’ambito nazionale. Indubbiamente però i riferimenti, da questo punto di vista più importanti, erano i congressi internazionali, a cui io ero non solo un costante partecipante, ma anche un collaboratore dei vari comitati promotori.
Nel 1979 fui incaricato di organizzare il IX Congresso internazionale a Verona. Era l’occasione anche per celebrare i vent’anni di vita de la Société Internationale de Psychopathologie de l’Expression.
Ma non è ancora questo l’evento chiave. Capitò qualche anno più tardi.
Questo settore della psichiatria ottenne il riconoscimento da parte della World Psychiatric Association (WPA) e divenne una delle sue sezioni: parte dunque del più alto organo scientifico della psichiatria mondiale. Ciò comportava che ogni quattro anni, il ritmo dei convegni mondali, si tenesse al suo interno il Convegno della Section on Psychopathology of Expression.
Se prima la lingua principale era il francese, ora viene assunta quella ufficiale del consesso mondiale: l’inglese.
Il presidente della Société Internationale de Psychopathologie de l’Expression e della Section della World Psychiatric Association era il professor Robert Volmat, il decano di questa disciplina, autore di un volume fondamentale, L’art psychopathologique.2
Nel 1992 il convegno si tiene a Rio de Janeiro e nell’assemblea il professor Volmat comunica che era tempo per lui di lasciare la presidenza in seno alla WPA e, con mia somma sorpresa, mi indica come suo successore.
Alla votazione ottengo il consenso unanime e divento presidente. Certamente un evento, perché inatteso, perché non entrava nei miei desideri.
Provai un’emozione forte perché ricordavo l’ammirazione con cui avevo ascoltato Volmat alle Giornate lombrosiane dell’ormai lontano 1959 e ora lo trovavo amico e nel ruolo di sostituirlo al vertice di una comunità scientifica che nel frattempo era fortemente aumentata.
Rimasi per otto anni presidente della Section on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association e, certo di una terza elezione, ma convinto anche che una società scientifica ha bisogno di ricambi e di idee sempre nuove, prima della votazione proposi un cambiamento di statuto limitando a soli due mandati la presidenza che invece prima non aveva limitazione.
Il mio successore fu il prof. Carlos Carbonell, psichiatra di Madrid. Io venni gratificato con il titolo di President of Honour.
Di questa esperienza l’aspetto più straordinario fu di poter conoscere e partecipare a tutte le iniziative che il linguaggio grafico della follia promuoveva nel mondo: dai paesi più sviluppati fino a quelli legati ancora a concezioni magiche, come in alcuni Stati del Continente africano.
Una delle tappe nello sviluppo di questa disciplina si lega al concetto di linguaggio grafico, con un riferimento preciso al linguaggio verbale.
Venne sostenuta l’ipotesi che l’attività grafica dovesse condurre a una analisi grammaticale e sintattica, analogamente ai fondamenti strutturali del linguaggio verbale. In questa ipotesi si allontanava la dimensione clinica, che fino a quel momento aveva dominato e che era giunta all’idea di una cartella clinica grafica come rilievo dei sintomi delle differenti categorie psichiatriche espressi graficamente.
L’esempio più chiaro era dato dalla schizofrenia, ridotta verbalmente a una serie di «errori» sintattici, fino a una vera destrutturazione linguistica. Altrettanto si proponeva l’indagine dei segni grafici della patologia: l’individuazione di rilievi clinici ottenuti attraverso una via di comunicazione diversa e per questo anche nuova e dunque arricchente l’indagine.
Fu in questo momento che l’interesse verso la linguistica divenne predominante e si giunse all’istituzione di veri e propri laboratori di linguistica grafica.
Si era deciso di scoprire le regole per poter capire una comunicazione grafica. Ed è così che divenne importante seguire la nascita, in un dato paziente, di un alfabeto segnico, fino ai simboli grafici.
In questo ormai lungo periodo di attività avevo pubblicato Il linguaggio grafico della follia (1969). Un’opera che ha visto degli aggiornamenti e che dunque è servita a molte generazioni di psichiatri che vedevano nella comunicazione non verbale uno strumento per far «parlare» quei pazienti che presentavano sul piano verbale difficoltà o addirittura una incomunicabilità.
Basterebbe riferirsi ancora alla schizofrenia cronica che dentro la frammentazione dell’Io cont...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il linguaggio grafico della follia