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Scenari di guerra
Che bella cosa espugnare Gaeta
sotto i baffi di Tinan. Non avrei di vita mia
provato maggiore soddisfazione.
Se Gaeta cade, ad onta dello sconcio
intervento francese, l’Italia è fatta.
La impresa è sommamente difficile,
ma è altresì sommamente gloriosa;
la compia Ella e sarà il più benemerito
dei figli d’Italia.
Lettera di Cavour al generale Cialdini,
4 gennaio 1861.
A Napoli, da una settimana, si era insediato il luogotenente generale di Vittorio Emanuele II nelle province napoletane: Luigi Carlo Farini, già governatore a Modena, simbolo in carne e ossa del nuovo assetto di potere nell’ex capitale delle Due Sicilie. Ciò nonostante, a nord dell’ex Regno meridionale si combatteva ancora. Si era creata una situazione di grande ambiguità istituzionale soprattutto a causa di un decreto firmato da Garibaldi durante la sua gestione di dittatore che, il 14 settembre 1860, aveva subito dichiarato Napoli «italiana», dando sigillo politico a una realtà conquistata con le armi. In quello stesso provvedimento scrisse anche che lo Statuto Albertino era «legge fondamentale di questa Italia meridionale».1
Quando l’assedio di Gaeta stava per iniziare, Garibaldi era partito per Caprera solo da pochi giorni. Per andar via e passare la mano, aveva aspettato l’ingresso di Vittorio Emanuele II a Napoli, il 7 novembre 1860. Dopo due mesi in cui nella ex capitale del Sud si erano avvicendati due governi nominati dal generale di quello che era chiamato «l’esercito meridionale», la dittatura era finita. Al suo posto, cominciava il potere amministrativo della prima luogotenenza generale del re Savoia a Napoli. Da Torino, Cavour premeva per accelerare l’annessione immediata dei territori meridionali al resto dell’Italia, spinto da una serie di considerazioni di politica interna. Se le era ripetute più volte e le aveva illustrate ai suoi collaboratori: bisognava togliere ossigeno ai radicali, dare respiro ai bilanci piemontesi, assicurare tranquillità con i fucili ai proprietari terrieri del Sud che sollecitavano ordine e sicurezza, nel terrore che le rivolte dei contadini diventassero sempre più un pericolo per le loro proprietà.
In quello scenario precario e caotico, a Francesco II non restava altra alternativa politica che cercare di mantenere contatti e relazioni con le diplomazie estere. Non poteva portare la sua causa all’isolamento più di quanto già lo fosse. Doveva piuttosto puntare a ravvivare le residue simpatie delle nazioni meno amiche del Piemonte – come Austria, Prussia e Russia – dimostrando che, nonostante fosse ridotto tra le mura di Gaeta, lo Stato delle Due Sicilie non era morto. Ma l’impresa era disperata: sugli equilibri internazionali in quel momento prevalevano soltanto i condizionamenti di Francia e Inghilterra.
Gaeta, anche per la sua vicinanza con lo Stato pontificio, era sempre stata la più importante fortezza difensiva dei confini a nord del Regno. La piazzaforte era collegata alla terraferma solo dall’istmo di Montesecco, mentre gli altri tre lati erano protetti dal mare e da rocce a strapiombo scavate nel corso degli anni per costruirvi mura e bastioni difensivi. Strutture messe a dura prova da ben venti assedi sostenuti in varie epoche.2
Il fronte di terra3 era meno esteso, con 1200 metri allargati su una linea convessa tra il monte Orlando e l’istmo, difeso da una cinta principale e una esterna. Nonostante la minore estensione, era il fronte più agguerrito e attrezzato, con la poderosa «batteria Regina», che nella parte centrale in direzione del mare si innalzava per 58 metri. Era armata con 45 tra i più potenti cannoni della piazza, in grado d’opporsi a eventuali assalti nemici in arrivo dall’istmo. Di quell’armamento, facevano parte anche 2 obici a lunga gittata.4
Osservate dall’esterno, le strutture difensive davano un impressionante colpo d’occhio: gli scavi compiuti interamente nella roccia, senza rivestimenti di parapetti o barriere in muratura, sembravano opera di titani. Sul fronte di terra erano sistemate 6 batterie di cannoni («Trinità», «Malladrone», «denti di sega Trinità»,5 «Piattaforma», «Fico», «Cittadella»), 5 bastioni6 (Transilvania, Philippsthal, San Giacomo, Conca, Cappelletti), 2 cortine7 (Sant’Andrea e Cappelletti-Cittadella) e alcune opere di protezione esterne, come la falsabraca Sant’Andrea,8 il fronte a scaloni, il nuovo ridotto a porta di terra, la controguardia Cittadella.9 Tutti i cannoni erano privi di protezioni, tranne quelli all’interno del ridotto Cinquepiani che erano riparati da una casamatta. I ricoveri fortificati per gli artiglieri si trovavano a ridosso delle batterie «Regina» e «Cittadella», ma anche sotto la cortina Cappelletti-Cittadella. Alla porta che dava all’esterno della piazza si arrivava attraversando un lungo androne, chiamato Gran sortita, che si trovava sulla falsabraca Sant’Andrea e finiva su un ponte levatoio.10
Di grande suggestione appariva l’immagine del fronte di mare, che si allungava per circa 2200 metri ed era protetto da mura esterne molto spesse. L’acqua impregnava le mura e l’odore di salmastro, accompagnato dallo stridio dei gabbiani, rendeva il paesaggio inconfondibile. Poesia, nel contrasto evidente tra la bellezza della natura e la massiccia fortezza che la violentava.
Proprio su quel lato, erano state realizzate 15 batterie («Riserva», «Spirito Santo», «Favorita», «Ferdinando», «Granguardia», «Poterna», «Vico», «Santa Maria», «Guastaferri inferiore», «Guastaferri superiore», le distaccate «San Montano», «San Domenico», «Maria Teresa», «Torrione francese», «Duca di Calabria»), 2 cortine (denti di sega Sant’Antonio e Addolorata), 2 bastioni (Sant’Antonio e Annunziata).
Tra i due fronti, dunque, in totale erano installate 23 batterie e 32 opere di fortificazione, cresciute di numero nel corso di dieci secoli di storia. I cannoni potevano modificare il bersaglio e coprire un’area molto estesa, in base alle necessità della difesa: dal fronte di terra, le batterie riuscivano a tenere sotto tiro l’intero istmo di Montesecco, mentre dal fronte di mare le cannonate potevano spostarsi sull’intero golfo tra nord e nord-est. Ma il maggiore Pietro Quandel osservò con realismo:
Pochi magazzini ha l’Artiglieria per depositarvi macchinario di ricambio, e questi sono di debolissima costruzione e coverti da semplici tettoie, in modo che non possono guarentire gli oggetti che vi sono riposti.11
Il 12 novembre, quando l’assedio cominciò, l’armamento totale delle truppe di Francesco II di Borbone era costituito da 462 cannoni, 35 obici e 48 mortai pronti per far fuoco, mentre in cantiere erano bloccati, per riparazioni o manutenzione, 97 cannoni, 31 obici e 19 mortai. Un arsenale, quindi, di 559 cannoni, 66 obici e 67 mortai.12 Ma i numeri ingannavano. Alla quantità del potenziale di guerra non corrispondeva la qualità: non tutti i cannoni erano di ultima generazione e in buone condizioni. I rigati, gli unici in grado di colpire anche a distanza di molte migliaia di metri, erano pochissimi e non potevano certamente competere con quelli piemontesi. Su questo piano, la lotta era impari. Proprio mentre stava per entrare nel vivo una battaglia che si sarebbe giocata soprattutto sulla potenza dell’artiglieria, sui bombardamenti, sui calcoli balistici e sull’efficienza delle fortificazioni. Ma non era tempo di recriminazioni, o lamentele. Almeno non quando cominciava l’ultima resistenza del Regno delle Due Sicilie.
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Sul fronte piemontese
Cara madre, ha piovuto… piovuto…
così da temere una seconda edizione
del diluvio, pure si lavorò sempre
ai preparativi d’assedio, malgrado
fossimo nell’acqua fino al ginocchio,
senza esagerare.
Lettera del capitano Emilio Savio
alla mamma Olimpia,
22 novembre 1860.
Il primo obiettivo di quelle manovre era predisporre il terreno, spianandolo, per consentire il passaggio di un enorme quantitativo di materiale bellico che andava trasportato da quelle parti. Nei loro spostamenti, le truppe piemontesi dovevano fare attenzione a non scoprirsi: gli ufficiali raccomandavano a tutti di tenersi al riparo quanto più possibile per non fornire ai napoletani alcun indizio su come si spostavano e su cosa avevano sui carri. Niente informazioni al nemico, bisognava confondergli le idee, soprattutto sul numero di cannoni a disposizione. Strategie da effetto sorpresa.
Al generale Luigi Federico Menabrea, comandante del genio, fu assegnato l’incarico più impegnativo: organizzare con efficienza e rapidità l’intera area del fronte piemontese. Arduo compito con quella stagione dal tempo impossibile. Il quartier generale del genio fu installato in un palazzo vicino a villa Caposele, dove si era insediato Cialdini: una scelta significativa che sottolineava l’importanza dell’arma del genio e delle sue decisioni in quell’assedio.
Menabrea lavorava in stretta collaborazione con il generale Leopoldo Valfré di Bonzo, comandante dell’artiglieria, ma ogni loro iniziativa doveva essere comunicata in tempo reale al generale Cialdini, che non tollerava gli si nascondesse il benché minimo dettaglio. Non passava giorno senza che i responsabili del genio e dell’artiglieria incontrassero il comandante in capo al quartier generale per confrontarsi sul loro lavoro. Esaminavano problemi, lo informavano sulle difficoltà affrontate e si lasciavano andare anche a non poche lamentele, quando ce n’era bisogno. Altre informazioni venivano raccolte quotidianamente dal tenente Baldassarre Orero per incarico del capo di stato maggiore, Carlo Piola Caselli. Orero si spostava a cavallo da Castellone agli avamposti dei Cappuccini e del Lombone per ricevere i rapporti dei quattro comandanti dei battaglioni avanzati. Un incarico spesso svolto sotto le cannonate napoletane, che costringevano il tenente a esplorare le stradine interne più riparate dai tiri nemici.1
Cialdini si vantava di conoscere quasi a memoria il libro-giornale di Andrea Massena, il generale francese che aveva espugnato la fortezza cinquantaquattro anni prima. Era un documento strategico prezioso, con annotazioni militari e osservazioni illuminanti, utili per fare tesoro delle difficoltà incontrate e risolte nell’assedio del 1806.2 Il testo di Massena divenne riferimento indispensabile per i piani d’avvio, come riferì anche il corrispondente della «Perseveranza», il giornale moderato milanese diretto da Pacifico Valussi, in un articolo pubblicato il 29 novembre 1860.3 Per preparare meglio i piani d’attacco, venne prelevato dalla reggia di Caserta un plastico di Gaeta e dintorni trovato da Garibaldi che lo segnalò all’esercito piemontese. Si rivelò uno strumento molto utile per studiare quei luoghi.4
Dopo ogni colloquio tra gli alti ufficiali, da villa Caposele partivano per Napoli richieste di vario tipo sulle necessità organizzative da soddisfare. Per fortuna, il generale Manfredo Fanti, interlocutore e destinatario dei messaggi d’aiuto, era persona assai paziente, che si faceva in quattro per esaudire le segnalazioni in arrivo dal fronte.
Più dei cannoni napoletani, per molti giorni fu soprattutto la pioggia l’ostacolo più insidioso da superare all’inizio delle operazioni d’attacco: scrosci d’acqua implacabili e ininterrotti trasformavano rapidamente il terreno in fanghiglia che rallentava e bloccava le ruote dei carri. Diventava una faticaccia qualsiasi spostamento di materiale pesante, anche quelli sui carri trascinati dai buoi: si impantanavano a ogni metro, rendendo inutile qualsiasi sforzo per andare avanti.
Nei giorni di novembre, il comando piemontese dovette quindi escogitare un sistema per rifornire il campo. Mancava quasi tutto e bisognava cominciare da zero. Non esistevano neanche ripari sufficienti per i soldati che, inzuppati e infreddoliti, erano a volte costretti ad arrangiarsi a dormire all’aperto, senza un tetto o una stufa calda. Fanti si rese subito partecipe di quelle difficoltà e ne scrisse a Torino. Se in Piemonte volevano che si facesse sul serio, dovevano sbrigarsi a far arrivare il materiale di cui c’era bisogno. E anche in fretta. A proposito della mancanza di alloggi da campo per i soldati scrisse:
È indispensabile mandare con sollecitudine qui al Generale Cialdini un migliaio di tende turche per metter al coperto parte delle truppe dalle incessanti piogge di questa stagione.5
Cialdini eseguì molte ricognizioni, studiò i luoghi, analizzò le carte topografiche a disposizione. E dopo aver esaminato diverse soluzioni con i suoi ufficiali, decise finalmente in quale area si dovesse realizzare il parco d’assedio: non gli ci volle molto a capire che non esistevano alternative alla strada diretta a Itri dietro al monte Conca. Si trovava a 4,5 chilometri dalla fortezza, ma possedeva alcune importanti caratteristiche favorevoli che la rendevano l’unica scelta possibile. Innanzitutto, si trovava su un esteso tratto di terreno pianeggiante, vicino a fonti d’acqua potabile. Poi, circostanza non trascurabile, non lontano sorgevano alcune case di contad...