Presentazione
di Mino Milani
Quando John Speke, nel 1862, scoprì le sorgenti del Nilo, spedì alla Reale Società Geografica Britannica un breve telegramma: «Nile is settled», qualcosa come «Il Nilo è sistemato». Era risolto insomma un secolare e appassionante problema.
Ecco. Conclusa la lettura di questo libro, immerso o forse meglio commosso nell’avventura da esso evocata, quelle storiche parole di Speke mi sono venute. Sì. Salgari è sistemato.
Bene. So benissimo che nessuna biografia può realmente essere considerata definitiva; ma probabilmente i possibili particolari a venire non varranno a modificare il quadro salgariano che Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi hanno creato con tanta diligenza e tanta passione. Sappiamo, infine, la storia di uno dei nostri più importanti scrittori: non uno dei più grandi, ma certo uno dei più amati; quello che ha introdotto alla lettura generazioni e generazioni di italiani. E i cui libri, a dirla con le ingenue parole dette dal sindaco di Verona nell’orazione funebre sulla bara dello scrittore, «aprono la mente del lettore e lo fanno amante dello studio, non solo, ma gli schiudono la via alla speranza, gli suscitano la fede nelle proprie forze, ne temprano lo stimolo alla battaglia della vita, sto per dire, alla voluttà del pericolo e della lotta».
Di Salgari e dei suoi romanzi s’è naturalmente scritto molto; e molto spesso con un tono bonario, ben più che affettuoso: più o meno come si parlasse del vecchio zio che con i suoi racconti ci divertiva da bambini, e del quale c’è rimasto un buon ricordo, ma che infine non era e non è da prendere troppo sul serio. Da noi ancora grava, su un certo tipo di letteratura, l’ipoteca crociana o, più semplicemente, provinciale; ancora i libri sono giudicati dal titolo e dalla copertina: infinite schiere di lettori del Corsaro Nero, oltre i confini dell’Isola del tesoro, sono ininfluenti di fronte a sparute pattuglie che di pagina in pagina arrancano su per noiosissimi libri ufficialmente dichiarati «grandi»; milioni di copie del Ciclo di Mompracem o del Richiamo della foresta nulla contano, comparate alle scarse migliaia di testi tanto celebrati quanto illeggibili. Tanto è.
Questa biografia (su materiale di prima mano, e arricchita da un impressionante apparato di note e di riferimenti d’ogni tipo e che tra l’altro informa particolarmente sui primi giornali italiani per ragazzi) ricostruisce puntigliosamente la formazione culturale di Salgari, chiarendo i suoi rapporti con Scapigliatura e Positivismo, con la sua città, con la cultura del suo tempo; la sua iniziazione letteraria; narra il suo arduo percorso professionale, le sue esperienze di giornalista, i suoi momenti di discussione, di polemica, di incursioni nel teatro, i suoi naturalmente lunghi e vari rapporti con gli editori, infine il suo grande successo. È un lavoro diligente, rigoroso e insieme appassionante, che toglie di mezzo leggende, fantasie consolidate, e luoghi comuni, e che di Salgari indaga anche il privato, i suoi amori, la passione (viene da chiamarla così) per la moglie, il suo febbricitante e fatale incedere verso l’autodistruzione. E lo fa (Gallo e Bonomi tengono a dichiararlo fermamente) «senza fini agiografici o dissacratori».
Ne esce un personaggio complesso, tormentato, che può piacere o no: ma di cui si deve riconoscer l’intelligenza, la determinazione, l’energia, diciamo pure il genio; uno scrittore di continuo teso a migliorarsi, quasi ossessionato dal fare. Un uomo, malgrado il successo, dalla vita amara e sempre difficile, in un’ansia incessante di lavoro, alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile e di sconosciuto. Il traguardo era stato, probabilmente o forse certamente, raggiunto: ma aveva richiesto uno sforzo insostenibile. Di qui la disperazione, la resa, il suicidio crudelissimo, assurdo e, viene da dire, incredibile.
Qualcuno oggi potrà magari storcere la bocca (come qualcuno fa per un suo illustre collega, Edmondo De Amicis), ma pure Emilio Salgari (appartenente al gotha mondiale dei grandi scrittori d’avventura) occupa un posto importante nella nostra cultura, nel nostro sentire, nella nostra letteratura. Ben a ragione Giovanni Spadolini lo giudica «uno dei profeti più lucidi e arditi del gusto contemporaneo», per cui lo mette tra i «Padri della Patria». Se non altro (ma altro c’è!) per aver indotto o conquistato alla lettura innumerevoli italiani.
Tra i quali, chi scrive; che ammirato ricorda ancora la straordinaria capacità salgariana di rendere attuale quanto narrava. Nemmeno per un momento Sandokan, Yanez e i tigrotti erano personaggi di carta o di qualche buon tempo andato: erano vivi mentre li leggevi, combattevano l’Inghilterra mentre tu andavi a scuola, percorrevano la giungla o gli immensi delta tropicali intanto che ti distendevi nel letto. Di lì a qualche anno, nell’imminenza della guerra, la propaganda fascista avrebbe fatto ogni sforzo possibile per rendere odiosi gli inglesi, e «Dio stramaledica gli inglesi!» era lo slogan col quale Mario Appelius, un tuttavia geniale giornalista, chiudeva una sua rubrica radiofonica. E sì, anche a me gli inglesi non piacevano: ma perché erano i nemici della Tigre della Malesia; e contro di essi avrei volentieri combattuto, senza odio, senza stramaledizioni, ma soltanto per sentirmi al fianco di Sandokan e aver avversari degni di lui. Non avevo dubbi.
Ma è passato molto tempo da allora. E oggi?
Nemmeno oggi ho dubbi. Dovessi combattere, sceglierei quale nemico l’Inghilterra (possibilmente quella imperiale: già, non è possibile, peccato). Non ho dubbi nemmeno su Salgari, scrittore per chiunque abbia cuore avventuroso, giovane o vecchio non conta: per chi insomma consideri l’anagrafe una casualità, quando non un’astrazione.
Perché Salgari è l’avventura, e l’avventura non ha età. È oggi che Sandokan e Yanez si preparano alla battaglia; che i thugs tentano di strangolarti in onore di Kalì; è oggi che il Leone di Damasco guarda dalla prua a Oriente. Oggi che il Corsaro Nero piange, incurante d’esser visto dai suoi esterrefatti marinai.
L’ultimo viaggio
Del suicidio e della sepoltura a Verona
La carrozza 82681
A Verona la Stazione di Porta Vescovo è un vasto edificio a tre piani, «grigio, severo, ingresso ampio, decoroso». Sopra il timpano un grande orologio illuminato durante le ore notturne. All’interno un’imponente tettoia a vetri. Il ristorante, gestito da Giovanni Masprone, dispone di un’ampia sala ed è un punto di riferimento per la borghesia cittadina, e per i più distinti passeggeri in transito. Il piazzale antistante brulica di gente, di vetture pubbliche, di tram a cavalli.1
Oggi, 12 febbraio 1912, è una giornata uggiosa e grigia; fin dalle prime ore del mattino cade la pioggia, incessante continua implacabile... È un pianto dirotto che accoglie Emilio Salgari al suo ritorno, dopo anni di lontananza, a casa. È l’ultima sua meta, quella definitiva; ora e per sempre, qui, a Verona.
Emilio Salgari ha compiuto il suo ultimo viaggio da Torino2 a Verona, in una bara di legno giallo (sul cofano una croce dorata fissata da cerchi metallici), nella carrozza 82681: il bagagliaio del treno accelerato proveniente da Milano. È tornato finalmente nella sua città che aveva lasciato nel 1894 per intraprendere la professione e la vita dello scrittore, alle quali si sentiva consapevolmente destinato. L’amata Verona è stata ingrata nei suoi confronti: per ben quindici anni ha pressoché ignorato la sua folgorante attività letteraria, e anche nei giorni della sua tragica morte sembra non avervi prestato grande attenzione. È qui che lo attende la tomba che ospita, da tempo, il padre e la madre... Forse in quest’ultima dimora Salgari troverà la pace, l’oblio, lontano dagli affanni, dalle maldicenze, dall’ingratitudine...
Verona si è commossa per la sorte infelice di questo suo figlio. Il Municipio ha deliberato di trasportare in modo solenne la salma da Torino a Verona, e il Sindaco ha fatto affiggere un manifesto con il quale ha invitato i veronesi ad accompagnare il loro concittadino nel suo ultimo viaggio. Lo scrittore tormentato e dimenticato è ora un caso nazionale, l’opinione pubblica si è inchinata dinanzi alla sua salma. Verona sente fortemente l’obbligo morale di onorarlo, nel momento in cui Emilio Salgari si appresta a riposare sotto la coltre di quella terra che lo ha generato.3
La sua città, in questa mesta occasione, ha ritrovato il figlio ambizioso e a sua volta ingrato che l’ha disertata, e ora una gran folla di cittadini e di autorità accorre alla stazione ferroviaria di Porta Vescovo dove il convoglio è arrivato alle due pomeridiane.4
Straordinario il numero di «signore e signorine», nota l’attento cronista: una presenza femminile di commosse lettrici sta a dimostrare come le grandi storie salgariane siano, sì, d’avventura, ma anche d’amore. Una folla strabocchevole lo «attende tempestata dall’acqua con i piedi guazzanti nel fango».5
La pioggia, inclemente, non concede alcuna tregua:
«Un tempo orribile volle ostacolare con la sua acqua noiosa e fitta e il suo fango, l’entusiasmo di una manifestazione solennemente dovuta ad un grande e geniale concittadino nostro».6
Staccato dal convoglio «il carro fu accompagnato nel piazzale della grande velocità: era addobbato di nero e sulla cassa grandeggia[va]no due mazzi di fiori freschi. [...] La salma fu levata dal carro e deposta nella carrozza di prima classe».7 Alle tre del pomeriggio la carrozza è aperta al pubblico, poi la bara di legno giallo è posta sul carro funebre.
Tre sole corone: quella del figlio primogenito Nadir, quella della cognata e dei cugini, quella degli altri suoi figli e della moglie, ricoverata nel manicomio di Torino. La salma è accompagnata da Nadir e dalla suocera di Salgari, Giustina Peruzzi che vive a Torino. Sono presenti anche il cognato Ugo Peruzzi, applicato ferroviario a Modane, Gabriele Peruzzi e la cugina Ida, che ha lo stesso nome della moglie dello scrittore.
Un lungo corteo si muove alle quattro del pomeriggio: alla sua testa la squadra di pompieri, i militi della Croce Verde, i rappresentanti dei collegi Artigianelli e Derelitti coi direttori Frigo e Puritani, il Collegio Convitto Provinciale col direttore Chiampan, il Collegio Pindemonte col direttore Sartori. Tutti con la loro bandiera.
Ecco il carro funebre, circondato da uscieri comunali, pompieri e vigili... A passo lento procedono i congiunti, tra loro Luigi Salgari, e altri parenti e amici, Attilio ed Enrico Salgari, Stefano Veronesi... Poi il sindaco Gallizzioli, gli assessori Goldschmiedt e Cabianca; i consiglieri comunali Girelli, Andrioli, Cremona, Stegagno e Venturelli; il segretario capo avv. Fassio; il procuratore del re Toschi. Infine altri amici, conoscenti e tanti ammiratori...
Dappresso, sempre con le proprie bandiere, le rappresentanze di varie scuole: le Elementari con il direttore Darra; le Scuole Tecniche Sanmicheli con il direttore Benedetti; le Scuole Tecniche Caliari, un tempo frequentate dal giovanissimo Salgari; l’Istituto Tecnico; il Regio Ginnasi...