Menzogna, autoinganno, illusione
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Menzogna, autoinganno, illusione

  1. 352 pagine
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Menzogna, autoinganno, illusione

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la tendenza a illudere se stessi e a non guardare in faccia la realtà è un atteggiamento difensivo che riguarda ognuno di noi: nel tentativo di allontanare situazioni sgradevoli o dolorose, alteriamo – spesso inconsciamente – la loro interpretazione per evitare l'ansia e sentirci più sicuri. Ma l'abitudine all'autoinganno ci conduce spesso a scelte sbagliate e dannose per noi e per gli altri, ed è proprio sul riconoscimento e il debellamento delle sue insidie che si concentra l'analisi di Goleman: dalla rimozione di esperienze traumatiche all'impiego di menzogne per edulcorare circostanze negative, dalla speranza che i problemi collettivi non ci coinvolgano alla tendenza a isolare chi evidenzia i punti deboli di una comunità, l'autore esamina numerosi casi di illusione individuale e collettiva e indica come raggiungere quel giusto equilibrio fra tranquillità e consapevolezza che ci permetta di affrontare i problemi senza rinunciare al nostro benessere interiore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858628492

RINGRAZIAMENTI

Nella primavera del 1978 ebbi il piacere di incontrare Gregory Bateson. Sebbene respirasse male per il cancro ai polmoni che diversi mesi dopo avrebbe posto fine alla sua vita, il suo morale era alto e la mente vivace come sempre.
Bateson stava ricostruendo la sua odissea intellettuale. Aveva avuto una prima rivelazione subito dopo la seconda guerra mondiale, alle conferenze della Macy Foundation, dove il gruppo di Norbert Wiener si occupava di cibernetica. «In quel momento», disse Bateson, «mi accorsi di essere sul binario giusto: potevo vedere più chiaramente le caratteristiche degli interi sistemi, dei modelli intercomunicanti che connettono le cose.»
Bateson abbandonò le opinioni, allora imperanti, dei comportamentisti: «Quelle teorie sull’uomo che inizia il suo viaggio da una psicologia quasi animale, inadatta e umorale, si sono rivelate una premessa improbabile da cui partire per rispondere alla domanda del salmista: ’Dio, che cos’è l’uomo?’ Questa ristrettezza di vedute ci impediva di discernere il modello connettivo».
«Qual è», chiesi, «il modello connettivo?»
«Il modello connettivo», rispose Bateson, «è un ’metamodello’, un modello di modelli. Nella maggior parte dei casi non riusciamo a vederlo. Eccetto che per la musica, siamo abituati a pensare ai modelli come a qualcosa di fisso. La verità è che il modo giusto di intendere il modello connettivo è di vederlo come un balletto di parti che interagiscono fra loro e che vengono, in un secondo tempo, fissate da tutta una serie di limiti fisici, dalle abitudini e dall’attribuzione di un nome alle situazioni e alle entità che lo caratterizzano.»
Un balletto di parti che interagiscono; il modello connettivo: questi concetti mi colpirono. Negli anni successivi mi stimolarono a una ricerca.
Ero stato a lungo incuriosito da una serie di fatti e di introspezioni che sembravano tutti rimandare allo stesso modello, ma da angolazioni diverse. Il mio training alla Clinica di psicologia di Harvard mi aveva messo a contatto con pazienti i cui disturbi mentali sembravano proteggerli da qualche più profonda minaccia. Un seminario con Erving Goffman, il sociologo degli scambi quotidiani, mi portò a vedere come le regole base dell’interazione faccia a faccia comportino, perché ci sentiamo a nostro agio, che alcune zone della consapevolezza siano estromesse.
La ricerca sulla psicobiologia della coscienza dimostrò come la conoscenza — e la nostra stessa esperienza — sia il prodotto di un delicato equilibrio tra vigilanza e disattenzione.
Questi indizi disparati mi colpirono come espressione di un modello che si ripeteva in modo diverso a ogni più importante livello di comportamento: biologico, psicologico e sociale. Mentre riflettevo e raccoglievo ulteriori prove, il modello veniva sempre più messo a fuoco.
Il modello è un balletto i cui partner sono l’ansia e l’attenzione. In questo minuetto c’è uno scambio tra alterazione dell’attenzione e senso di sicurezza. Questo libro descrive quel modello, come lo vedo io.
Lungo il cammino molte persone hanno svolto un ruolo importante fornendomi pezzi del puzzle, parti del modello. Mi sono state di grande aiuto le conversazioni con le seguenti persone, esperte in questo o quel campo di cui il libro s’è occupato: Dennis Kelly, Solomon Snyder, Monte Buchsbaum, Floyd Bloom, Richard Lazarus, R.D. Laing, Donald Norman, Emmanuel Donchin, George Mandler, Howard Shevrin, Ernest Hilgard, Carl Whitaker, Karl Pribram, Robert Rosenthal, Irving Janis, Freed Bales, Anthony Marcel e Robert Zajonc. Sono stati di inestimabile valore i consigli di Aaron Beck, Matthew Evdelyi e Ulric Neisser.
Se ciascuno di loro mi ha fornito un pezzo del modello, la sintesi è mia, mie le possibili distorsioni o i blocchi del pensiero.
Sono particolarmente grato a Richard Davidson, Shoshona Zuboff, Kathleen Speeth e Gwyn Cravens per le accurate letture, le sincere osservazioni e la stretta amicizia. Suggerimenti sono venuti anche da diversi insegnanti e colleghi, particolarmente da David McClelland e George Goethals.
A.C. Qwerty ha mostrato grande pazienza, diligenza e perspicacia nella redazione del manoscritto.
E Alice Mayhew mi ha aiutato a seguire il filo del ragionamento, con una precisa consapevolezza dello scopo di questo libro.

Dedica

FOR TARA
«OM, TĀRE, TUTTĀRE, TURĒ, SWAHA!»

PREFAZIONE

Stiamo attraversando un momento particolarmente insidioso, in cui l’abitudine ad illudere se stessi, evitando di guardare in faccia la realtà, è un tema di crescente attualità. Il pianeta stesso sta affrontando una minaccia in altri tempi sconosciuta: la sua completa distruzione.
Sia che ciò avvenga per mezzo di una morte immediata, provocata da una guerra nucleare e dai cambiamenti catastrofici che inevitabilmente seguirebbero, o per mezzo del lento annientamento ecologico, conseguenza dell’inesorabile distruzione delle foreste, delle terre coltivabili e delle risorse idriche, l’abilità tipica dell’uomo di illudere se stesso avrà comunque contribuito a tutto ciò.
Soffermiamoci a considerare i danni ecologici in continuo e rapido aumento: l’erosione del suolo, lo sfoltimento delle foreste, i terreni fertili che mutano in aridi deserti, l’assottigliamento dello strato protettivo di ozono dell’atmosfera terrestre, l’avvelenamento e il prosciugamento delle falde acquifere.
La nostra abitudine al consumismo, su scala mondiale, sta distruggendo le risorse del pianeta con una velocità che non ha eguali nella storia passata. In effetti, stiamo distruggendo il mondo che erediteranno i nostri nipoti solo perché non vogliamo riconoscere gli effetti che il nostro modo di vivere può provocare sul pianeta.
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Le foreste vergini pluviali dell’Amazzonia, per esempio, stanno scomparendo ad incredibile velocità per fare spazio a pascoli per il bestiame. E questi animali vengono allevati, per lo più, per soddisfare la fame di carne del mondo.
Quanti hamburger si producono distruggendo un acro della giungla vergine amazzonica? Non lo sappiamo: la risposta potrebbe essere calcolata, ma nessuno ancora si è preso la responsabilità di un tale compito. Questo è il punto: conduciamo la nostra vita senza pensare alle conseguenze che essa potrebbe avere sul pianeta, sui nostri discendenti. Noi ignoriamo le connessioni che esistono tra le nostre decisioni quotidiane — per esempio l’acquisto di un prodotto piuttosto che di un altro — e l’impatto che tali decisioni hanno sul pianeta.
È possibile quantificare, più o meno accuratamente, lo specifico danno ecologico insito in una qualsiasi impresa industriale. Fatto ciò, siamo in grado di creare un’unità di base che riassuma l’entità del danno ecologico provocato, per esempio, dalla costruzione di un’automobile o di un foglio di alluminio.
La consapevolezza di tutto questo ci renderebbe più consapevoli, nelle nostre scelte di vita, dell’impatto che esse potrebbero avere sul pianeta. Questo genere di informazione, però, non è disponibile e anche coloro tra di noi che si sentono più coinvolti a livello ecologico non hanno assolutamente idea della catena di effetti provocata sul pianeta dalle loro abitudini di vita. E per la maggior parte di noi l’essere inconsapevoli di simili correlazioni ci permette di vivere nella grandiosa illusione che le piccole e grandi decisioni della nostra vita materiale non hanno importanti conseguenze.
La domanda che tutti dobbiamo porci è, dunque, come possiamo sfuggire a queste e a tutte le altre illusioni che ci intrappolano nella loro trama?
La soluzione proposta da questo libro è di capire, innanzitutto, in che modo noi vi siamo intrappolati. Perché per la sua stessa natura l’illusione è il più ambiguo dei processi mentali: noi non siamo in grado di capire che cosa é ciò che non vogliamo vedere.
L’illusione opera sia a livello della coscienza individuale che della consapevolezza collettiva del gruppo. Il diritto di appartenenza ad un gruppo di qualsiasi tipo ha un tacito prezzo da pagare, che consiste nell’essere uniti nel non vedere i sentimenti di disagio e di timore di ciascuno e certamente nel non mettere mai in discussione una qualsiasi cosa che metta in dubbio i modelli di comportamento del gruppo.
Il pericolo per il gruppo che ha adottato un simile ordinamento è che il dissenso, anche nella sua forma più positiva, viene represso. Prendiamo in considerazione l’esplosione dello shuttle. La notte prima del lancio due ingegneri si opposero fermamente alla missione, affermando che le guarnizioni di tenuta del razzo propulsore non erano adatte per resistere alle basse temperature. Le loro obiezioni non furono mai comunicate a coloro che erano a capo della missione, alcuni dei quali erano già a conoscenza del pericolo ma avevano deciso di non tenere conto della sua entità. Vi erano già stati numerosi ritardi e la gente cominciava a domandarsi se la NASA sarebbe stata mai in grado di far funzionare lo shuttle e riuscire così a pagare i suoi debiti.
Il risultato dell’inchiesta che seguì al disastro, in cui gli stessi ingegneri testimoniarono quanto era accaduto, fu che essi furono retrocessi ad un grado inferiore. E questo anche se ciò che avevano fatto era nell’interesse dell’intera missione. Se fossero stati ascoltati la tragedia sarebbe stata evitata. Soltanto in seguito allo scalpore suscitato dalla vicenda presso l’opinione pubblica i due ingegneri vennero riabilitati.
Questo avvenimento sembra essere un monito per tutti coloro che vogliono aprirsi un varco tra le mura di silenzio che tengono lontane dalla coscienza collettiva le verità vitali. È solo il coraggio di cercare la verità e di farsene portavoce che può salvarci dall’effetto ipnotico dell’illusione. E ognuno di noi ha accesso a una piccola parte di quelle verità, una parte che seppur esigua deve essere comunicata agli altri.
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È un paradosso del nostro tempo che coloro che detengono il potere stanno troppo comodi e al sicuro per notare i disagi di coloro che soffrono, mentre coloro che soffrono non hanno potere.
Per sfuggire a questa trappola bisogna avere il coraggio di far conoscere la verità al potere, come ha affermato Elie Wiesel.

DANIEL GOLEMAN

INTRODUZIONE

È difficile presentarvi l’argomento di cui mi occuperò, anche se si tratta di qualcosa che è molto familiare a tutti. La difficoltà sta nel fatto che non ci sono le parole esatte per farlo. E questa è proprio una delle ragioni per cui ne sono così affascinato: esistono, a quanto pare, parti essenziali della nostra vita che sono, in un certo senso, mancanti — vuoti dell’esperienza nascosti da lacune del vocabolario. Che non ne abbiamo esperienza lo sappiamo vagamente, o lo ignoriamo addirittura.
Questi vuoti dell’esperienza costituiscono l’argomento del mio libro.
L’incapacità di riconoscere questi aspetti della nostra vita sembra dovuta a cause che risiedono nel profondo della nostra coscienza. Il risultato è l’incapacità di portare l’attenzione a tollerare certi elementi cruciali della nostra realtà, lasciando così un vuoto in quel raggio di consapevolezza che definisce di momento in momento il nostro mondo.
Il mio argomento è, quindi, il modo in cui notiamo e il modo in cui non notiamo le cose. In altre parole un pezzo mancante nella consapevolezza. Un buco nell’attenzione. Una lacuna.
«Parte cieca» è la metafora fisiologica con cui si indica l’incapacità di vedere le cose come sono in realtà. In fisiologia la parte cieca è quel vuoto nel nostro campo visivo connaturato alla struttura dell’occhio.
Dietro a ogni bulbo oculare c’è un punto dove il nervo ottico, che arriva al cervello, si attacca alla retina. In questo punto mancano le cellule che coprono il resto della retina per registrare la luce che arriva attraverso il cristallino. Come risultato in quel punto della visuale c’è un vuoto nelle informazioni inviate al cervello. La parte cieca non registra nulla.
In genere un occhio compensa ciò che l’altro non vede, quindi di solito non avvertiamo le nostre parti cieche. Ma quando uno dei due è chiuso, la parte cieca risalta. Per notare la vostra parte cieca, chiudete l’occhio sinistro e tenete il libro con il braccio destro teso in avanti, poi fissate la croce. Muovete molto lentamente il libro verso di voi. A una distanza fra i 25 e 40 cm circa il cerchio sembrerà scomparire.
Disegno di una X e di un cerchio
Riconoscere la propria parte cieca è utile perché offre il destro per un parallelo psicologico ben più sottile.
Lasciate che vi porti alcuni esempi, tratti da diversi aspetti della vita. Suggeriscono tutti il modello al quale voglio arrivare.
Prendete il caso di una donna in terapia che si ricorda di aver sentito piangere di notte la madre quando era una bambina di cinque anni. Il ricordo è una sorpresa per la donna, non si inserisce affatto nei ricordi coscienti di quel periodo della sua vita, poco dopo che il padre se n’era andato. Mentre la madre faceva lunghe telefonate al padre implorandolo di tornare, in presenza della figlia manifestava diversi sentimenti: negava di sentire la mancanza del marito, assumeva un atteggiamento disinvolto e noncurante. Dopotutto erano felici, o no?
La figlia capì che non bisognava accennare alla tristezza della madre. Dato che lei aveva bisogno di nascondere questi sentimenti, anche la figlia doveva negarli. La figlia sentì ripetutamente una versione del divorzio che corrispondeva all’immagine che la madre voleva comunicare: questa storia divenne una verità provata nella sua memoria. I ricordi più angosciosi della madre che piangeva di notte si dissolsero dalla memoria e furono ricuperati solo molti anni dopo, in analisi.
Il tema dell’impatto devastante di simili segreti sepolti è così familiare nella letteratura da suggerire che si tratta di un’esperienza universale. La vicenda di Edipo ruota attorno a questa scoperta, lo stesso vale per Il buon soldato di Ford Madox Ford e per molti drammi di Ibsen. In verità Ibsen chiama questa sorta di segreto «bugia vitale»: il mito della famiglia che prende il posto di una verità meno comoda.
Queste bugie vitali non sono poi così rare. Uno psichiatra riferisce d’aver sentito una donna raccontare durante una cena:1
Sono molto legata alla mia famiglia. Erano sempre così espansivi e affettuosi. Quando avevo dei diverbi con la mamma lei mi tirava la prima cosa che le capitava per le mani. Un giorno fu la volta di un coltello e così mi dovettero dare dieci punti a una gamba. Qualche anno dopo mio padre cercò di strozzarmi perché uscivo con un ragazzo che non gli piaceva. Si preoccupano veramente di me.
La negazione evidente in questi ricordi è il marchio fabbrica della bugia vitale. Se la portata dei fatti è troppo brutale per essere ignorata, allora se ne alterano i significati. La bugia vitale rimane nascosta, protetta dal silenzio della famiglia, dagli alibi, dalla totale negazione. La complicità viene mantenuta allontanando l’attenzione dal fatto che spaventa o riformulando il suo significato per renderlo accettabile. Uno psichiatra che si occupa di famiglie con problemi quali l’incesto e l’alcolismo osserva come operano le bugie vitali:2
Gli indizi vengono minimizzati, ridicolizzati, contestati o chiamati in altro modo. La semantica gioca un ruolo importante nella minimizzazione di ciò che sta in realtà accadendo. Un «buon bevitore», «diverbi» coniugali o «rigida disciplina» possono significare alcolismo, violenza tra coniugi, abuso sul bambino. La spiegazione «è stato un piccolo incidente» viene accettata per giustificare gli ematomi e le fratture del bambino o la violenza sulla moglie. L’«i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Menzogna, autoinganno, illusione
  4. NOTE