Partire per rimanere:
comunione e missione in Russia
di Paolo Pezzi*
Venticinque anni fa ero tra i volontari che montavano questo palco. C’era un mio amico, Aldo, che si occupava della supervisione del lavoro. A colpo d’occhio era in grado di valutare quanti “nodi” e quanti tubi innocenti sarebbero serviti! Era semplice, perciò, sapere cosa fare: bastava seguire, obbedire, per sentirmi partecipe di un’opera molto più grande di me.
Su questo stesso palco, oggi, mi è stato chiesto di parlare. Ma nella sostanza è la stessa cosa: nella vita ho sempre cercato soltanto di rispondere: «Sì!» al mistero di Dio, perché, come dice Claudel, la vita va cavalcata, non sgrossata per renderla apparentemente più facile.1
Rispondere: «Sì» al Mistero
Nella mia vita ho sempre detto di sì al Mistero, forse a volte un po’ ingenuamente, a volte un po’ incoscientemente, ma così facendo ho potuto scoprire, con stupore crescente, un disegno buono sulla mia vita, e al centro di questo disegno ho potuto conoscere sempre più chiaramente i lineamenti del volto di Colui che ne è l’Autore.
Col passare del tempo, ho potuto così accorgermi del fatto che il vero protagonista della storia è l’uomo che vive tutta l’esistenza come rapporto col mistero di Dio: l’uomo, io sono rapporto col Mistero e sono protagonista nella misura in cui vivo questo rapporto, e non nella misura in cui gli altri uomini parleranno di me.
Il Papa mi ha chiamato a diventare Arcivescovo della diocesi della Madre di Dio a Mosca. A parte la denominazione – che già di per sé mostra la delicata complessità della situazione in cui sono chiamato a servire il Signore –, vi è una semplicità di fondo che permane: si tratta sempre di dire: «Sì», di sapere a chi rispondi. E, perdonatemi la banalità, dire: «Sì» a Cristo è oggi per me semplice e concreto come quando lo dicevo venticinque anni fa ad Aldo, quando mi chiedeva: «Portami un tubo da cinque o da tre o da quattro metri, portami otto nodi per i tubi». Chiunque, vedendoci, avrebbe potuto dire: «Ecco lo schiavo che risponde al padrone», operando così una riduzione, che potremmo definire materialista, del rapporto col Mistero. Oppure: «Ecco l’attivista che cerca di distrarsi o rimuovere le difficoltà della propria vita facendo qualcosa per gli altri». Qualcun altro, però, vedendoci, avrebbe potuto dire: «Ecco due amici che servono l’opera di un Altro, che partecipano a qualcosa di grande».
C’è un racconto della tradizione popolare russa che esprime suggestivamente quanto sto dicendo. Si narra di un vecchio pellegrino che, camminando per la sua strada, arriva a un grande spiazzo dove fervono lavori di costruzione. Gli viene incontro un uomo, che spinge una pesante carriola colma di massi. «Cosa stai facendo, fratello?», chiede il vecchio. «E non lo vedi?!», si ferma l’uomo, asciugandosi il sudore, «trascino questa maledetta carriola di sassi». Il vecchio prosegue e incontra un altro uomo, anche lui spinge una carriola di pietre: «Fratello! Che cosa stai facendo?». L’uomo si ferma a riprendere fiato: «Non vedi? Sto guadagnandomi il pane col sudore della fronte». Ripreso il cammino, ecco un terzo uomo piegato nello sforzo di spingere una carriola di pietre: «Cosa stai facendo, fratello?». L’uomo si ferma un istante, si asciuga il sudore dalla fronte: «Non lo vedi? Sto costruendo la santa chiesa di Dio». E conclude: «Come sarebbe bello se tutti, lavorando, fossero coscienti di costruire la santa chiesa di Dio!».
Claudel, nel suo bellissimo dramma teatrale L’Annuncio a Maria, dice la stessa cosa in modo diverso: «Santità non è farsi lapidare in terra di Paganía o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più in alto».2 E ciò si motiva col fatto che «non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro dell’Opera che l’ha scelta».3
Insomma, si tratta di rispondere al mistero di Dio, di svolgere la vocazione della propria vita, di dire: «Sì» a Dio. Io ringrazio Dio di averGli detto: «Sì», di avere finora continuato a dire: «Sì». Per molto tempo, soprattutto da ragazzo, ho pensato che il problema della vita fosse quello di acquisire capacità, di diventare efficiente. Quando a quindici anni sentii una canzone da un disco di Bob Dylan, Forever Young,4 mi sembrò una bestemmia. Come ci si può augurare di rimanere sempre giovani? In effetti, se si concepisce la vita come tensione a raggiungere un’autosufficienza, allora si può essere interiormente vecchi già a quindici anni, vecchi come l’acqua di uno stagno, che non si alimenta più ad alcuna fonte esterna a se stessa.
Poi, attraverso la grazia di incontri con uomini toccati, presi, attirati dal mistero di Dio, insomma, attraverso l’incontro con uomini che vivevano della risposta al mistero di Dio presente nella loro vita, ho scoperto che non è affatto vero che la vita consista nel raggiungere l’eccellenza in un dettaglio. Ma è vivere rispondendo, istante per istante, al mistero di Dio che chiama: che fa rimanere, o meglio, diventare, sempre più giovani. C’è una icona della Madre di Dio col Bambino, della Theotókos, nella quale il bambino Gesù ha il volto da adulto, ha la fronte alta del sapiente, e il corpo da infante, del bimbo che ancora non sa parlare: la vera saggezza, o maturità, non sta in un sapere statico, chiuso in se stesso; la sapienza suprema è, invece, nel nascere sempre, nel riconoscersi sempre nascenti, attualmente generati da un altro… come un eterno bambino, vechnyj rebjenok, semper natus est et semper nascitur, come dice Origene del Figlio eterno del Padre. Da questa coscienza scaturisce, come da una fonte inesauribile, la giovinezza del cuore: «Ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti di questo mondo, e le hai rivelate ai piccoli».5
Allora tutta la questione per me è diventata una sola: «Come servire Dio?». Ma questa domanda ne porta con sé un’altra: per potergli dire di sì, devo poter vivere una familiarità con Dio, con la Sua voce, così da essere certo di rispondere davvero a Lui, se è da questo che dipende la realizzazione della mia vita, la possibilità di diventare “forever young”. Tenendo viva in me questa domanda, ho capito, nel tempo, che dire di sì a Cristo coincideva sempre con il sì detto a persone e a circostanze precise, persone e circostanze che portavano qualcosa di più di se stesse, Qualcuno di infinitamente più grande di loro. E così sono andato scoprendo che è proprio il sì detto a certe persone e a certe circostanze che rende sempre più familiare Cristo, e da questa familiarità con Cristo nasce una certezza di bene che tende a investire anche il rapporto con tutte le altre circostanze e persone, anche le più esteriormente avverse. Ciò che ci rende veri testimoni di Cristo, infatti, è la capacità realizzata in noi dallo Spirito di riconoscere Cristo presente sotto e dentro l’apparenza di ciò che accade, così che in noi si forma un modo di giudicare le cose e le persone diverso da quello del mondo. Ti scopri, così, con commozione a dire di sì a Lui anche quando perdi una infinità di ore negli “intasamenti” del traffico moscovita, e tali intasamenti possono essere anche, per così dire, “umani”, non solo dovuti alla concentrazione spaventosa di autovetture lungo il raccordo anulare di Mosca! A un certo punto, quindi, ha cominciato a interessarmi molto di più il sì detto a Cristo nelle circostanze, piuttosto che il sogno di circostanze più favorevoli.
Il frutto di questa “conversione” dello sguardo è una scoperta che condenserei in una frase: ciò che fa fiorire il deserto anche più arido è la quotidiana offerta. Tanti anni fa, era una torrida domenica d’estate, accortomi che mia madre stava stirando, mi avvicinai a lei, e le chiesi: «Mamma, perché stiri la domenica pomeriggio, anziché andare al cinema?». «Perché voi veniate su buoni secondo la volontà di Dio», fu la risposta. Tanti anni dopo, l’incontro col movimento mi ha fatto scoprire il valore profondo di questa risposta di mia madre, che allora mi aveva stordito. E, forse, oggi solamente la capisco davvero: la vita quotidiana da Vescovo è spesso piena di cose che sono di per sé aride, poco appassionanti, questioni amministrative, burocratiche, problemi di governo, eccetera. Insomma, per gran parte del tempo, si può provare lo stesso sentimento che ti assale quando ti trovi imbottigliato nel traffico di Mosca, a certe ore del giorno: il tempo scorre e tu non ci puoi fare nulla. Tutto questo diviene una grande occasione di protagonismo, nell’offerta, fino a imparare a dire: «Ti offro, o Cristo, questo rapporto, questa questione amministrativa che devo affrontare. Tu che sei la consistenza di tutte le cose, mostrati ora e fa che Tu sia riconosciuto attraverso la mia povera persona, che Tu hai preso e fatto così».
E poi, il giorno dopo, ti ritrovi invitato dal Presidente della Repubblica russa, o dal Patriarca della Chiesa ortodossa russa. Insomma, non decidi tu a che “livello” trovarti, giorno per giorno. Ma sei chiamato a offrire sempre tutto in ogni circostanza. E la circostanza in cui mi trovo ora io è quella di essere stato chiamato dal Papa a essere Vescovo a Mosca. Vorrei raccontare ora come ho vissuto il fatto di questa chiamata.
Quando il Papa mi ha nominato Vescovo di Mosca mi si è posto il problema, che io stranamente non avevo mai avvertito prima, della nomina di un Vescovo “straniero” in terra russa. Per qualcuno ciò era una vera e propria obiezione, ma quando l’ho sentita rivolta direttamente contro la mia nomina, mi sono reso conto di un problema più profondo e radicale: si comincia a sentirsi stranieri quando si perde la coscienza viva del rapporto col Mistero. Senza Cristo, senza la coscienza di questo rapporto, infatti, io stesso divento straniero, estraneo a me stesso, e allora nulla mi è più familiare. Viceversa, dentro la familiarità con la Fonte del mio essere, come di quello di ogni uomo e di tutto ciò che esiste, posso sentirmi a casa mia ovunque.
Missione: partire per rimanere
Un secondo sentimento che mi ha dominato, a partire dall’ordinazione, è che quello che mi era chiesto segnava per me un nuovo inizio, una nuova partenza. Ma cosa significa nuovo inizio?
Alcuni anni fa con un caro amico monaco ci eravamo detti, lasciandoci in occasione di una mia nuova ripartenza: «Tu rimani (in monastero) perché io possa partire (in missione), ma non si rimane se non per partire, così come non si parte se non per rimanere».
In questi mesi ho riscoperto la profonda verità di questo. Nuovo inizio non significa affatto rottura o “stacco” rispetto al passato. Ogni partire è l’occasione perché il proprio rimanere si approfondisca, si radichi sempre più in profondità. Che vale, infatti, possedere il mondo intero, conquistarlo, se poi perdo me stesso, se non ho, cioè, un posto in cui è per me bello rimanere?6
Allora potrei dire che la domanda dominante è diventata: «A chi rispondi?». O, forse, più esplicitamente: «Come rispondi a Cristo?».
Mi accorgo che, innanzitutto, questa domanda mette in questione la mia fede: «Signore, anche io non capisco, ma se vado via da Te, dove vado?».7 Quando penso a questa risposta molto geniale, ma anche profondamente umana, di Pietro, penso che anche per me la fede è prima di tutto, e soprattutto, risposta alle mie domande sull’esistenza.
Ecco: il primo modo con cui rispondo a Cristo è, dunque, scoprendoLo come risposta permanente alla mia umanità.
Ciclicamente si torna a parlare di separazione della fede dalla vita e della necessità di un nuovo incontro tra loro. Ma nell’intelligenza dell’avvenimento cristiano, accolto sine glossa nella sua semplicità elementare, fede e vita si scoprono unite all’origine; come dice san Paolo: «Questa vita nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me».8 Si può immaginare che per un solo momento della sua esistenza san Paolo abbia sentito la memoria di Cristo, la memoria di quel Fatto misterioso, ma realmente accaduto, che nella fede afferrava, come non pertinente alla sua vita?
È, allora, proprio e soltanto nel rimanere nella posizione di stupore dei primi, nel rimanere, per così dire, in presenza dell’avvenimento sempre attuale di Cristo, che ritrovo, in ogni istante, il gusto dell’avventura della vita, il gusto della mia missione.
Ho imparato a gustare questa avventura della missione nella Fraternità San Carlo, in compagnia di don Massimo Camisasca. In un bellissimo dialogo con don Massimo, di alcuni anni fa, sulla missione, mi colpì la percezione chiara della riduzione dell’originalità della missione che può insinuarsi facilmente nella nostra vita.9 Oggi, a mio parere, corriamo due rischi, che corrodono la capacità di mordenza dell’annuncio. Individuo tali rischi con i termini di “spiritualismo” e “burocrazia”. La riduzione spiritualista concepisce il cristianesimo unicamente come rapporto individuale con Dio, dello spirito dell’individuo con lo Spirito di Dio, rendendo, così, difficile alla gente percepire la concretezza della presenza di Dio, della Sua presenza nella storia reale degli uomini. Il secondo rischio si traduce in un attivismo che, favorito dalla burocratizzazione della vita ecclesiale, riduce la vita cristiana a riunioni, convegni, documenti, in una parola, a una serie di attività concepite come un “fare per gli altri”, da cui è, però, assente la consapevolezza e la responsabilità di annunciare Cristo.
Nell’uno e nell’altro caso manca proprio l’essenziale: uno stupore per una comunione, goduta e sperimentata nel presente; invece, a mio avviso, è questa l’unica esperienza che può accendere e alimentare l’entusiasmo della missione. Ciò che manca è la consapevolezza di appartenere a Cristo e l’esperienza, vissuta in modo sempre attuale e nuovo nel luogo dove si è stati chiamati, di questa appartenenza che continuamente “manda”. Quando non sai più di chi sei, a chi appartieni, quando la tua appartenenza non determina la tua quotidianità più banale, allora significa che in te si sta impercettibilmente sfocando la coscienza del fatto, sommamente reale, che dipendi dal mistero di Dio, del fatto che il valore di ciò che vivi sta solo nel rispondere a Lui, e così la giornata diviene il ricatto delle cose da fare e a cui devi titanicamente tentare di rispondere.
Voglio insistere su questo punto, che trovo centrale. Non è che si viene mandati, per così dire, all’inizio, una volta per tutte; ciò che capisco sempre meglio è che si è permanentemente mandati. Mi ha spesso colpito un brano di san Marco, che si trova all’inizio del suo vangelo: «Gesù chiamò a sé quelli che egli volle. E li chiamò a sé perché stessero con Lui. E poi perché fossero mandati in missione».10 La mia missione, penso sempre, è una dimensione della mia esistenza che trae alimento dall’esperienza permanente della comunione vissuta nella comunità cui appartengo. In questi mesi si è come acuita per me l’evidenza che, se non rimango ancorato all’esperienza vissuta quotidianamente della compagnia di Cristo alla mia vita, non svolgo in realtà alcuna missione, poiché il mio affannarmi diviene il canto sgraziato di un cigno solitario.
«La vita apostolica e la missione apostolica non sono due segmenti di tempo che si escludono l’un l’altro – dice l’esegeta Lohfink –, ma due modi di esistenza del gruppo dei dodici che si compenetrano l’un l’altro, il secondo dei quali implica sempre il primo. Solo se i dodici imparano la nuova modalità di rapporto reciproco, possono annunciare il Vangelo e scacciare demoni. Incontri di fine settimana, periodi di formazione, settimane di aggiornamento non bastano a questo scopo, perché questo processo di apprendimento è possibile solo nella comunità della vita apostolica. La vita apostolica non è solo un essere uniti spiritualmente, ma in ogni ambito di vita. Essa comprende l’intera esistenza.»11
Ciò che lega la storia della Chiesa, fino all’inizio dell’età moderna, è la consapevolezza viva di essere un popolo, una tradizione che continua. La tradizione è la permanenza dell’avvenimento originario nel presente.
È solo quell’Avvenimento, sperimentato adesso, che dona all’esistenza la sua autentica misura ideale. Senza il contatto continuo con l’evento di Cristo presente, la misura del vivere diviene quella del calcolo, misura che porta inevitabilmente a un irrigidirsi che logora e sfibra, nella preoccupazione continua per tutto quello che ancora non c’è. Mi accorgo della necessità di una lotta e di una grande vigilanza per non cedere a questa logica mondana, che ritengo essere ciò che conduce molti nostri fratelli a una sorta di annegamento spirituale: la vita come un essere sommersi dal “mare delle cose da fare”.
L’allora cardinale Ratzinger, in una intervista poi pubblicata con il titolo di Il sale della terra, parlava di un «enorme processo in atto di perdita di importanza della realtà cristiana», di «un momento di stanchezza che non permette più di far venire alla luce la bellezza e la necessità umana della realtà di fede». Anche «la vivacità, la ...