Non è musica per vecchi
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Non è musica per vecchi

  1. 210 pagine
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Non è musica per vecchi

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Il termine "musica classica" è quanto mai improprio. Odora di museo, evoca quei corridoi interminabili pieni di statue grigiastre, sciami di Afroditi e Giuli Cesari mezzi rotti. Ma può una musica "classica", normalmente ascoltata da un pubblico di quattro pensionate e quattro studenti nerd del Conservatorio, parlare alle giovani generazioni, ai figli di Internet, in un'epoca così frenetica ed entusiasmante? La risposta é: sì! Sì, e io lo vorrei gridare ai quattro venti! Con queste parole Andrea Battistoni, giovanissimo direttore d'orchestra-rivelazione, si rivolge con brio ed energia ai suoi coetanei e in generale a tutti coloro che hanno sempre considerato noiosa la musica composta dai grandi del passato. Spesso una prima esperienza d'ascolto traumatica può compromettere il nascere di una passione: è successo proprio ad Andrea da piccolo, a cui la madre propinava sofisticati brani di musica da camera. Poi, per fortuna, ha scoperto l'orchestra e l'universo elettrizzante di emozioni che essa può suscitare. In Non è musica per vecchi Battistoni offre a tutti l'opportunità di fare la sua stessa eccitante esperienza. A questo scopo costruisce un divertente percorso tra parole e musica (nel testo ci sono numerosi QR Code che consentono l'ascolto immediato dei brani presentati) per innamorarsi della sinfonica, appassionarsi a quei meravigliosi romanzi cantati che sono le opere liriche, entrare nella vita dell'orchestra e svelare i segreti che hanno ispirato i grandi compositori. Da Bach "il Big Bang" al Rigoletto "opera pulp", dalla Sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorák "dolce cavalcata in una terra selvaggia" a Stravinskij "il ritmo del futuro", passando per Beethoven "che ci ha donato la propria anima" e per la seduzione (difficile) di Wagner, questo libro regala emozioni che forse non avreste mai pensato di provare ed è uno strumento eccezionale per abbandonarsi a una nuova, splendida passione. Ragazzi, non chiudete il libro spazientiti dicendo "non è roba per me!", perché vi parla uno che in casa ha appesi i poster degli AC/DC e di Frank Zappa! Perché, sulla scrivania tiene un busto di Beethoven… Perché dei pazzi come me dovrebbero spendere ore della loro vita per studiare le opere di compositori morti secoli fa? Il perché proverò a spiegarvelo, e la mia non sarà certo una lezione… vi dico solo che la noia ha poco a che fare con la musica che voglio raccontarvi. Ta-ta-ta-taaaa, è proprio lei! Ogni volta che comincio a dirigere la Quinta di Beethoven, il suono dell'orchestra mi colpisce come un pugno nello stomaco, quasi che tutta l'energia dell'universo fosse stata convogliata in un istante davanti al mio podio, e io ne potessi disporre a mio piacere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858624876

Preludio

Aida mi fa strada scendendo le scale, alle nostre spalle la notte insolitamente calda è rischiarata da una luce suggestiva, quasi di lanterne.
Stiamo scendendo in una specie di cripta, un sotterraneo dalle pareti antiche; la volta a botte reca tracce dell’umidità e del passaggio dei secoli.
Mi fanno cenno di attendere, c’è movimento, una leggera agitazione serpeggia nel gruppo che mi accompagna; mi indicano di aspettare di fronte a quello che sembra un grande salone, completamente buio.
Non nascondo la mia curiosità mentre vedo sempre più persone entrare nel salone lanciandomi un sorriso di sfuggita; La Traviata mi stringe la mano velocemente, lo stesso fa Il Trovatore, prima di raggiungere gli altri nel buio.
Sono solo ora, di fronte alla cripta; avverto i respiri e i piccoli movimenti del gruppo oltre la soglia.
Poi comincia la musica, così familiare da fare ormai parte di me: quelle carezze di archi che richiamano al cuore quasi un rullo di tamburo lontano, un sussulto inatteso nel mezzo di un grande deserto. All’improvviso, anche se me lo aspetto ogni volta, il fortissimo di un’intera orchestra in collera, minaccioso come il profilo senza tempo di una statua babilonese.
Una voce mi chiama dal buio: «Può entrare, adesso».
Appena due passi e sono anche io nell’oscurità: distinguo appena le volte di mattoni, alcuni scranni accostati alle pareti, dei quadri, una lunga tavola al centro della sala; proprio di fronte a me, ventisette figure, varie altezze e fisionomie, ma un unico organismo che respira musica all’unisono.
«Ci diriga, maestro» dice un’altra voce, però io non voglio dirigere, non le rispondo; e, quando arriva il momento, mi unisco alle loro voci, cantando a occhi chiusi.
Le voci sono tutte diverse, non si mescolano assieme come in un coro: ognuna preserva la sua individualità, ognuna sottolinea un passaggio del testo, quello che forse le è più caro; i corpi ondeggiano piano al ritmo cullante di questo canto immortale e, man mano che mi abituo al buio del salone, comincio a scorgere anche gli occhi dei cantori, inumiditi per l’ennesima volta dalla forza della musica.
Il coro si conclude con un’unica nota sospesa magicamente nell’aria: riempie tutto lo spazio di attesa e speranza, e si spegne d’incanto come era cominciato.
Scoppia un applauso a interrompere in modo un po’ brusco l’atmosfera, e tutti sappiamo che questo applauso non è rivolto a me, non celebra nemmeno l’occasione per cui ci siamo riuniti: ci lega all’autore del canto, di questa musica per la quale sia io sia i misteriosi amici nutriamo un amore vero, viscerale.
La luce viene accesa di colpo, rivela agli occhi quello che potevo solo intravedere; i Ventisette mi si affollano intorno per stringermi la mano con calore.
Sono stato chiamato nel loro sancta sanctorum, questa notte celebriamo la musica di Giuseppe Verdi. L’invito mi è arrivato inaspettatamente una sera, al termine di una recita nel teatrino di Busseto, dove stavo dirigendo Attila.
Hanno bussato alla porta del mio camerino, cogliendomi come sempre di sorpresa, senza i pantaloni dell’abito da concerto.
«Un momento!» grido; poi, rendendomi presentabile alla bell’e meglio, apro la porta.
Mi trovo di fronte un signore alto e sorridente, dall’aria appena mefistofelica: «Piacere, Aida» si presenta, tendendomi la mano.
Stringo la mano con un sorriso titubante e, altrettanto perplesso, accolgo gli accompagnatori di Aida: «Piacere, Messa da Requiem», «Piacere, Alzira». Entra per ultimo un signore visibilmente orgoglioso: «Piacere, Attila! Grazie maestro!». In fondo, quella è stata una recita in suo onore…
Il Club dei 27 è un’associazione nata a Parma nel 1958 e da allora raccoglie con una nomina esclusiva alcuni dei più appassionati ed esperti ammiratori della figura e della musica di Giuseppe Verdi.
Memoria storica della vita musicale parmigiana, critici spettatori di ogni avvenimento operistico in scena al Teatro Regio, sono tra i più esigenti ascoltatori che un direttore d’orchestra possa incontrare.
A titolo onorifico, ognuno porta il nome di una diversa opera di Verdi – ventisette in totale, appunto – e si riuniscono nella loro splendida sede, ricavata nei sotterranei di Palazzo Cusani, per discutere di musica e teatro; ogni loro riunione comincia solennemente intonando in coro il «Va’, pensiero». Durante l’anno sono promotori di numerose iniziative tese a diffondere l’amore per la cultura musicale nella città e soprattutto nelle scuole, tra i giovani.
Ho avuto il piacere di visitarli più volte e di ricevere una targa in occasione del mio debutto verdiano a Busseto.
Ciò che mi ha immediatamente colpito di queste persone è il legame straordinario che avvertono con la musica del loro patrono, un amore che supera le mode e i secoli per vincolarli febbrilmente alle opere del maestro. Possono passare intere mezz’ore a descrivere le sensazioni di gioia, estasi, terrore o tristezza che un dato passaggio musicale di Verdi scatena in loro; avvertono che queste note riempiono di emozioni la loro vita; nutrono rispetto, quasi devozione, per il genio che ce le ha donate scrivendole su un semplice pentagramma.
Ogni volta che vedo i Ventisette e la loro divorante passione non posso fare a meno di pensare a quanti ancora non hanno avuto l’opportunità di incontrare la musica lirica e sinfonica.
Il termine “musica classica” è quanto mai improprio, e incute una certa diffidenza nelle giovani generazioni di ascoltatori, che a tutto sono interessate meno che a qualcosa che si definisce “classico”. L’aggettivo stesso odora di museo, evoca quei corridoi interminabili pieni di statue grigiastre, sciami di Afroditi e Giuli Cesari mezzi rotti cui personalmente, quando visito una galleria, non dedico mai più di un’occhiata distratta.
Ciò che è classico, nella moderna accezione del termine, può essere accessorio, e i giovani bramano la novità. Ma, sopra ogni cosa, vogliono l’emozione, vogliono essere rapiti da una musica che parli di loro, delle loro aspirazioni, delle loro battaglie, delle loro voglie.
Può una musica “classica”, normalmente ascoltata da un pubblico di quattro pensionate e quattro studenti “nerd” di Conservatorio, parlare alle nuove generazioni, ai figli di Internet, in un’epoca così frenetica ed entusiasmante?
La risposta è: sì!
Sì, e lo vorrei urlare ai quattro venti!
Mi rivolgo a voi tutti, ragazzi, e non chiudete il libro spazientiti dicendo: «Non è roba per me!», perché sono uno che in casa ha appesi i poster degli AC/DC e di Frank Zappa! E che però, sulla scrivania, tiene un busto di Beethoven.
Dimenticate per un momento il flauto delle scuole medie, quella non è la musica di cui si parla qui; dimenticate per un attimo i ritratti severi di Bach e Haydn che ci guardano storto dalle pagine dei libri di storia.
Perché dei pazzi come me (e sono in nutrita compagnia) dovrebbero spendere ore della loro vita per studiare le opere di questi signori morti secoli fa?
Perché ipotechiamo il nostro futuro col desiderio di spendere la nostra vita al servizio di questa musica?
Io non potrei vivere senza il suono di un’orchestra, senza le passioni dell’opera. Il perché proverò a spiegarvelo, se avrete la bontà di proseguire, e la mia non sarà certo una lezione… Vi dico solo che la noia ha poco a che fare con la musica che voglio raccontarvi.

1

Scoprire l’orchestra

La prima volta che ho suonato in orchestra è stata anche la prima volta in cui ho sentito gli strumenti dell’orchestra così da vicino, e tutti assieme. Studiavo ancora il violoncello in Conservatorio a Verona, la mia città, avrò avuto quattordici o quindici anni, e francamente ero stufo marcio di studiare musica.
Chiunque abbia provato a studiare seriamente uno strumento si sarà di certo reso conto del sacrificio, anche piccolo ma comunque costante, che richiede in termini di tempo e impegno. Ho passato una buona parte della mia infanzia seduto con questo grosso strumento addosso, cercando di cavarci fuori note intonate, e conosco la frustrazione delle ore trascorse a studiare un passaggio che immancabilmente, durante un saggio o un concerto, non si decide a uscire pulito ma, anzi, compromette la buona riuscita del brano gettandoti nello sconforto.
Il lato poetico della musica mi aveva sempre colpito, la possibilità di esprimermi attraverso le note dei grandi compositori mi affascinava, ma mi chiedevo come il mio povero violoncello, per di più suonato appena decentemente dal sottoscritto, potesse diventare la voce della mia anima come favoleggiavano tutti i grandi interpreti di cui mi capitava di leggere le interviste e i racconti. Ero arrivato quasi al punto di rottura, incapace di trovare la mia strada nel campo musicale.
Questo fino alla mia prima prova d’orchestra: ricordo di essere stato chiamato d’urgenza alla lezione di esercitazioni orchestrali perché c’era mancanza di violoncellisti dei corsi superiori che avrebbero dovuto formare la fila nell’orchestra del Conservatorio; io frequentavo ancora i corsi inferiori e non avrei potuto partecipare alle prove ma, essendo il concerto di fine anno alle porte, il direttore, preoccupato di non raggiungere il numero sufficiente di violoncellisti necessari, aveva fatto chiamare me e altri compagni nella speranza che fossimo abbastanza svegli da cavarcela.
Non avevo la minima idea di cosa volesse dire partecipare a una prova d’orchestra e di cosa dovessimo suonare: mi ritrovai così un po’ spaesato a decifrare la parte della Prima sinfonia di Beethoven che mi avevano messo sul leggio.
Dal primo momento in cui il direttore alzò la bacchetta e dette l’attacco per l’inizio del brano, mi si aprì un mondo nuovo, segnando la mia vita; tutti gli strumenti, i più diversi, contribuivano insieme alla nascita di una musica eccezionale, vibrante, divertente… in una parola: emozionante. Una sensazione che mai avevo provato studiando a casa o esibendomi accompagnato da un pianoforte ai saggi di classe.
Mi sentivo parte di un grande organismo fatto di musicisti, un’entità indefinibile eppure reale; non potevo semplicemente eseguire la mia parte: dovevo ascoltare attentamente gli altri strumenti e partecipare della loro agitazione, della loro reattività, della loro bravura. Non potevo semplicemente suonare le mie note: dovevo fare attenzione al respiro degli strumenti a fiato prima di far uscire il suono dallo strumento al momento giusto e osservare le arcate dei miei compagni affinché il suono fosse quello adatto; non il MIO suono, ma il NOSTRO suono.
E poi c’era la musica. Che musica per me nuova e vivissima stavamo eseguendo, seppur con molte incertezze e ingenuità; lo slancio vitale che emanava mi riempiva di una forza nuova, mi consolava e mi esaltava. Forse, a distanza di tanto tempo, ho idealizzato quella prima prova d’orchestra, eppure il ricordo delle emozioni che mi ha suscitato è ancora vivo.
Terminata la lettura della sinfonia, corsi in biblioteca alla ricerca della partitura: volevo vedere come Beethoven avesse messo per iscritto una tale magia, impossessarmi dei suoi segreti. La sera stessa mi sedetti tranquillo a casa, con il volume vecchissimo della Prima sinfonia di Beethoven presa a prestito tra le mani e, con l’aiuto di un vecchio vinile recuperato dalla libreria di mio padre, cercai di decifrare per la prima volta la scrittura di un grande autore. Va da sé che continuai a perdermi, non riuscivo a seguire i pentagrammi di tutti gli strumenti allo stesso momento; la partitura, infatti, raffigura l’insieme di tutti gli strumenti, che suonano parti diverse nello stesso momento per dare vita a quell’insieme magico di suoni che solo un’orchestra riesce a creare.
Da lì nacque per me una vera e propria ossessione; saccheggiai biblioteche e negozi di musica, cominciando a creare una mia personale collezione di partiture e cd. Non ero mai sazio di scoprire nuove composizioni e di appassionarmi al linguaggi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Preludio
  4. Interludio
  5. Postludio
  6. Prontuario semiserio di termini musicali
  7. Ringraziamenti