La Masai bianca
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La Masai bianca

Storia di una vera passione africana

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La Masai bianca

Storia di una vera passione africana

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Informazioni sul libro

Una donna bianca, Corinne - una giovane del tutto "integrata" nella società - decide di trascorrere tre settimane di vacanza nel Kenya. Ma l'incontro con Lketinga, un guerriero masai, cambierà la sua vita per sempre.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
ISBN
9788858627860

Dedica

A Napirai

Arrivo in Kenya

Quando, all’aeroporto di Mombasa, siamo accolti da una magnifica aria tropicale, ho già il presentimento che questo diventerà il mio paese, che qui mi troverò bene. Ma pare che la splendida aura che ci avvolge impressioni solo me, mentre Marco obietta secco: «Che puzza!».
Sbrigate le pratiche doganali il safari-bus ci porta al nostro albergo. Strada facendo dobbiamo attraversare con un traghetto un fiume che separa la costa meridionale da Mombasa. Sull’autobus fa un caldo insopportabile. Ancora non so che quel traghetto nell’arco di tre giorni cambierà, anzi sconvolgerà, tutta la mia vita.
Sull’altra sponda attraversiamo per quasi un’ora piccoli insediamenti lungo strade di campagna. Le donne avvolte in panni neri in piedi davanti alle capanne sembrano musulmane. Finalmente raggiungiamo il nostro albergo, l’Africa-Sea-Lodge. È una struttura moderna, ma costruita ancora in stile africano. Noi alloggiamo in una piccola casa rotonda, arredata con gusto e accogliente. Una rapida passeggiata sulla spiaggia rafforza la prima travolgente sensazione: questo è il più bel paese che abbia mai visitato, mi piacerebbe tanto restarci.
Dopo due giorni, quando siamo ormai sistemati, decidiamo di prendere l’autobus pubblico e il traghetto Likoni e di visitare per nostro conto la città di Mombasa. A un tratto ci passa davanti un rastaman sussurrando: «Hascisc, marijuana». Marco fa cenno di sì: «Yes, yes, where we can make a deal?». Dopo aver scambiato alcune parole ci invita a seguirlo. «Lasciamo stare,» dico a Marco, «è troppo pericoloso!» Ma lui non bada alle mie perplessità. Il rastaman ci porta in una zona squallida e abbandonata, e proprio quando sono sul punto di porre fine a questa avventura, scompare invitandoci ad attendere. Mi sento a disagio, e alla fine anche Marco riconosce che dovremmo andarcene. Ce la svigniamo appena in tempo prima che il rastaman ricompaia accompagnato dai poliziotti. Sono furiosa, l’incoscienza di Marco mi esaspera: «Lo capisci adesso che cosa ci sarebbe potuto succedere?».
Nel frattempo si è fatto tardi, è il momento di pensare al ritorno. Ma in quale direzione dobbiamo andare? Non ricordo da dove parte il traghetto e Marco non ha più memoria di me. Alla fine, dopo una lite furiosa e un lungo girovagare, lo vediamo in lontananza. Tra le macchine in attesa ci sono centinaia di persone con cartoni pieni zeppi, carretti e galline: vogliono tutti salire sul traghetto a due piani.
Quando finalmente siamo a bordo, accade una cosa incredibile. «Corinne, guarda là,» dice Marco, «quello è un masai!» «Dove?» chiedo io, e mi volto nella direzione indicata. Mi colpisce come un fulmine. Là, sul parapetto del traghetto, sta seduto un uomo bellissimo: alto, scuro di pelle, esotico. Con i suoi occhi neri guarda noi, gli unici bianchi in quella confusione. Dio mio, penso, quant’è bello, non avevo mai visto niente di simile.
Indossa solo un succinto panno rosso avvolto attorno ai fianchi, ma in compenso porta ricchi ornamenti. Sulla fronte ha un grande bottone di madreperla luminoso incastonato in perline variopinte. I lunghi capelli rossi sono raccolti in fini treccine e il viso è dipinto di segni che arrivano fino al petto, sul quale si incrociano due lunghe collane. Porta numerosi braccialetti. I tratti del suo viso hanno una grazia quasi femminile, ma il contegno, lo sguardo fiero e la struttura muscolosa tradiscono una forza virile. Non riesco più a distogliere gli occhi da lui. Seduto in quella posizione, alla luce del tramonto, sembra un giovane dio.
Ancora cinque minuti e non vedrai mai più quest’uomo, penso rattristata; il traghetto attraccherà e tutti si metteranno a correre, saliranno sugli autobus e spariranno ai quattro punti cardinali. Il cuore si fa pesante, mi manca l’aria. Accanto a me Marco sta per terminare il suo commento: «... dobbiamo star attenti: questi masai derubano i turisti». Ma io sono troppo impegnata a escogitare un modo per entrare in contatto con quell’uomo mozzafiato. Non so l’inglese e fissarlo non porta a nulla.
Quando il portellone si abbassa, tutti si precipitano a terra tra le auto in partenza. Del masai vedo ormai solo la schiena luccicante mentre sparisce agilmente tra i passeggeri che trascinano a fatica i propri carichi. Fine, andato, penso, e mi viene da piangere. Non riesco a capire per quale motivo mi sconvolga tanto.
Una volta sbarcati, ci incamminiamo in direzione degli autobus. Nel frattempo si è fatto buio - in Kenya la sera cala in mezz’ora. I numerosi veicoli si riempiono rapidamente di persone e bagagli, ma noi, non sapendo su quale spiaggia si trovi il nostro albergo, restiamo a piedi, sconsolati. Impaziente, esorto Marco a informarsi presso qualcuno. Lui mi risponde che è affar mio, anche se non sono mai stata in Kenya e non parlo l’inglese. Ma è stata sua l’idea di andare a Mombasa! Ripenso tristemente al masai, che è già un chiodo fisso nella mia mente.
Si è ormai fatto buio e noi continuiamo a litigare. Sono già partiti tutti gli autobus quando a un tratto qualcuno ci saluta a bassa voce. Ci voltiamo contemporaneamente e quasi mi si ferma il cuore: il «mio» masai. È di una testa più alto di me, anche se io sono già uno e ottanta. Ci guarda e ci parla in una lingua che nessuno dei due comprende. Sento il mio cuore battere fin quasi a scoppiare e mi tremano le ginocchia. Sono sconvolta. Intanto Marco cerca di spiegare dove dobbiamo andare. «No problem,» dice il masai, «basta aspettare.» Trascorre circa mezz’ora, durante la quale non faccio altro che guardarlo. Lui quasi non bada a me. Marco invece è molto irritato: «Che cosa ti sta succedendo? È addirittura insolente il modo in cui stai fissando quest’uomo, mi vergogno. Controllati, non ti riconosco più!». Il masai rimane vicino a noi senza dire una parola. Avverto la sua presenza attraverso il profilo del suo lungo corpo e il suo profumo voluttuoso.
Accanto alla stazione degli autobus ci sono piccoli negozi che sembrano baracche. Offrono tutti gli stessi prodotti: tè, dolci, verdura, frutta e carne appesa con i ganci al soffitto. Davanti alle botteghe, solo scarsamente illuminate da lampade a petrolio, stanno in piedi alcune persone vestite di stracci. Qui i bianchi danno molto nell’occhio.
Marco è preoccupato: «Torniamo a Mombasa e cerchiamo un taxi. Il masai non capisce cosa vogliamo e poi non mi fido di lui, sembra che ti abbia proprio stregato». A me, a dire il vero, pare un caso del destino che proprio lui, tra tutti i neri, si sia avvicinato a noi.
Quando poco dopo si ferma un autobus, il masai ci chiama, sale con un balzo e occupa due posti. Mi chiedo se scenderà o verrà con noi, e quando si siede dall’altro lato del corridoio proprio dietro a Marco mi tranquillizzo. L’autobus percorre una strada di campagna completamente al buio. Ogni tanto tra le palme e i cespugli si intravede un fuoco che suggerisce una presenza umana. Di notte sembra tutto diverso, e così perdiamo completamente l’orientamento. A Marco il tratto sembra troppo lungo e vorrebbe scendere. Cerco di convincerlo a restare, e dopo qualche parola del masai capisce che possiamo fidarci. Io non ho paura, al contrario. Vorrei che questo viaggio continuasse per sempre. La presenza di Marco invece incomincia a seccarmi. Vede tutto negativo e mi oscura la visuale! Fremo dal desiderio di sapere che cosa accadrà quando arriveremo all’albergo.
Dopo un’ora buona giunge il momento temuto. L’autobus si ferma. Marco, sollevato, ringrazia e scende. Guardo ancora una volta il masai e senza dire una parola mi precipito fuori. Lui prosegue, non so per dove, forse addirittura per la Tanzania. Da quel momento l’atmosfera spensierata delle vacanze svanisce.
Rifletto molto su me stessa, su Marco e sul mio lavoro. Da quasi cinque anni stavo gestendo a Biel una boutique d’élite di vestiti di seconda mano con un reparto per abiti da sposa. Dopo le iniziali difficoltà gli affari andavano benone, e nel frattempo avevo tre sarte alle mie dipendenze. A ventisette anni il mio tenore di vita era già piuttosto alto.
Avevo conosciuto Marco in occasione di alcuni lavori di falegnameria per l’allestimento della boutique. Era gentile e allegro. Ero appena arrivata a Biel e non conoscevo nessuno. Un giorno avevo accettato il suo invito a pranzo. Lentamente la nostra amicizia si era approfondita e a sei mesi di distanza ci eravamo messi insieme. A Biel eravamo considerati la «coppia dei sogni», avevamo molti amici e tutti erano in attesa della data del nostro matrimonio. Ma io ero completamente assorbita dal mio ruolo di donna d’affari e stavo cercando un secondo negozio a Berna. Non mi restava molto tempo per pensare al matrimonio o ai figli. Marco, da parte sua, non era molto contento di questi progetti. Il fatto che i miei guadagni superassero di molto i suoi indubbiamente lo preoccupava e, negli ultimi tempi, avevamo avuto dei contrasti.
E ora questa esperienza completamente nuova! Cerco di comprendere cosa mi sta succedendo, e mi accorgo che i miei sentimenti per Marco si sono raffreddati al punto che quasi non lo vedo più. Questo masai si è impresso nella mia testa. Non riesco nemmeno a mangiare. In albergo abbiamo ottimi buffet, ma non posso ingerire nulla, mi sembra di avere un nodo nello stomaco. Per tutto il giorno scruto la spiaggia o faccio passeggiate nella speranza di incontrarlo. Qua e là vedo qualche masai, ma sono meno alti e molto lontani dalla sua bellezza. Marco mi lascia fare, anche perché sa di non potersi opporre. È fermamente convinto che al nostro ritorno tutto si normalizzerà e non vede l’ora che ciò accada. Ma questo paese ha sconvolto la mia vita: nulla sarà più come prima.
Marco decide di fare un safari nel Masai-Mara. L’idea non mi alletta molto, perché in questo modo non avrò più alcuna chance di rivedere il masai, ma acconsento a una gita di due giorni.
Il viaggio in autobus verso l’interno del paese è lungo e faticoso. Già dopo alcune ore Marco comincia a lamentarsi: «Non valeva la pena di addossarsi tanta fatica per questi pochi elefanti e leoni, li avremmo anche potuti vedere a casa, allo zoo». Invece a me il viaggio piace. Dopo poco tempo raggiungiamo i primi villaggi masai. L’autobus si ferma e l’autista chiede se vogliamo visitare le capanne e incontrare gli abitanti. «Certo» dico io attirando su di me gli sguardi critici dei partecipanti. Dopo che l’autista ha contrattato il prezzo, possiamo scendere e camminare sul pantano argilloso con le nostre scarpe da ginnastica bianche, stando attenti a evitare lo sterco di mucca. Non appena raggiungiamo le loro capanne, chiamate manyatta, le donne, con una schiera di bambini attorno, si precipitano su di noi tirando e strappando i nostri vestiti: vogliono scambiare ciò che indossiamo con lance, tessuti o ornamenti.
Nel frattempo gli uomini sono stati attirati nelle capanne. Io non sono in grado di fare un passo di più in questo pantano. Quindi mi allontano dalle donne e mi precipito nel safari-bus, con centinaia di mosche al seguito. Anche gli altri partecipanti s’affrettano in direzione dell’autobus e gridano all’autista: «Andiamocene». «Ora,» dice lui sorridendo, «siete avvertiti su questa tribù, su questi ultimi incivili del Kenya. Perfino il governo ha dei problemi con loro.»
Sull’autobus c’è una puzza terribile e le mosche sono una vera piaga. «Ecco,» dice Marco ridendo, «ora almeno lo sai da dove viene il tuo belloccio e com’è la vita da loro.» Stranamente, in quei minuti non avevo più pensato al mio masai.
Continuiamo il viaggio in silenzio, passando in mezzo a grandi branchi di elefanti. Nel pomeriggio arriviamo in un albergo turistico. Pensare di pernottare lussuosamente in questo luogo quasi deserto dà una sensazione irreale. Per prima cosa occupiamo le nostre camere e ci buttiamo sotto la doccia. Il viso, i capelli, tutto è appiccicoso. Poi viene organizzata una sontuosa cena e persino io, dopo quasi cinque giorni di inappetenza, sento qualcosa che assomiglia a un languore. La mattina seguente ci alziamo molto presto per vedere i leoni, e infatti troviamo tre animali ancora addormentati. Quindi inizia il lungo viaggio di ritorno. A mano a mano che ci avviciniamo a Mombasa, si impossessa di me uno strano senso di felicità: nella settimana scarsa che trascorreremo ancora qui devo ritrovare il mio masai.
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Di sera in albergo viene presentato un ballo masai seguito dalla vendita di ornamenti. Spero ardentemente di rivederlo qui. Quando entrano i guerrieri siamo seduti in prima fila: sono circa venti uomini bassi, alti, belli, brutti, ma il mio masai non è tra loro. Sono delusa. Ciò nonostante la rappresentazione mi piace e riconosco già il loro sudore, decisamente diverso da quello di altri africani.
Si dice che nelle vicinanze dell’albergo ci sia una pista da ballo all’aria aperta, la Bush-Baby-Disco, frequentata anche dagli indigeni. «Marco, vieni, andiamo a cercare questo locale» dico. E nonostante lui non sia entusiasta - la direzione dell’albergo ha avvertito che è pericoloso -, riesco a impormi. Dopo una breve camminata lungo la strada buia si intravede qualche luce e si sente della musica rock in lontananza. Entriamo e l’atmosfera mi piace subito. Finalmente! Non una delle solite discoteche da albergo, spoglie e climatizzate, ma una pista da ballo a cielo aperto con due o tre bar disseminati tra le palme. Ovunque ci sono turisti e indigeni sugli sgabelli davanti ai banconi. L’ambiente è informale. Ci sediamo a un tavolo. Marco ordina della birra e io una coca-cola. Poi ballo, da sola perché a lui non piace.
Verso mezzanotte fanno il loro ingresso nella discoteca alcuni masai. Li guardo con attenzione ma riconosco soltanto quelli che hanno partecipato alla rappresentazione in albergo. Delusa, torno al tavolo. Decido di trascorrere le restanti serate in quella discoteca, mi sembra di non avere altra possibilità di ritrovare il mio masai. Marco protesta, ma non vuole stare da solo in albergo. Così, ogni sera dopo cena ci incamminiamo verso la Bush-Baby-Disco.
Alla seconda serata, siamo al 21 dicembre, Marco è già stanco di queste uscite. Gli prometto che sarà l’ultima volta. Come sempre prendiamo posto al tavolo sotto la palma, di cui, in qualità di avventori abituali, ci siamo ormai impadroniti. Decido di fare un ballo solitario tra una folla di neri e di bianchi. Deve venire a tutti i costi!
Alle undici, quando sono già in un bagno di sudore, si apre la porta: il mio masai! Dopo aver affidato la sua lancia agli agenti della sicurezza, con passi lenti va verso un tavolo e si siede con la schiena rivolta a me. Le ginocchia mi tremano, riesco a malapena a reggermi in piedi. Sono in un bagno di sudore. Per non cadere mi appoggio a una colonna a lato della pista.
Cerco di riflettere sul da farsi. Da giorni stavo aspettando questo momento. Con la massima calma possibile torno al nostro tavolo e dico a Marco: «Guarda, c’è il masai che ci ha dato una mano. Invitalo al nostro tavolo e offriamogli una birra per ringraziarlo». Marco si gira, e in quell’istante il masai ci vede. Fa un cenno con la mano, si alza e viene da noi: «Hello, friends!». Sorridendo ci porge una mano liscia e morbida.
Prende posto accanto a Marco, proprio di fronte a me. Perché non so l’inglese! Marco tenta di imbastire una conversazione e scopriamo che anche il masai lo parla a stento. Cerchiamo di farci capire a gesti. A un certo punto guarda Marco, poi me, e quindi chiede, indicandomi: «Your wife?». Sul «yes, yes» di Marco reagisco indignata: «No, only boyfriend, no married!». Il masai non capisce. Chiede se abbiamo dei figli. Ripeto: «No, no! No married!».
Non era mai stato tanto vicino a me prima d’ora. Soltanto il tavolo ci separa, posso mangiarmelo con gli occhi a mio piacimento. È di una bellezza incantevole: gli ornamenti, i capelli lunghi, lo sguardo fiero! Vorrei che il tempo si fermasse. A un certo punto chiede a Marco: «Perché non balli con tua moglie?» e quando Marco gli risponde che preferisce bersi la sua birra, colgo l’occasione per fargli capire che vorrei ballare con lui. Allora guarda Marco, e non essendoci alcuna reazione acconsente.
Balliamo, lui salterellando come fosse un ballo popolare, io alla maniera europea. Non muove un solo muscolo del viso. Non riesco a capire se gli piaccio. Che strano uomo: così estraneo e al tempo stesso magnetico come una calamita. Dopo due pezzi arriva un lento e mi viene voglia di abbracciarlo forte. Ma cerco di trattenermi, e per non perdere il controllo della situazione lascio la pista.
Tornata al tavolo, la reazione di Marco è pronta: «Vieni Corinne, torniamo in albergo, sono stanco». Ma io non ne ho voglia. Il masai gesticola ancora con Marco. Vuole invitarci, per il giorno seguente, a visitare il posto dove abita e presentarci una sua amica. Acconsento prontamente prima che Marco possa rifiutare. Ci diamo appuntamento davanti all’albergo.
Quella notte non riesco a prendere sonno, e verso l’alba vedo con chiarezza che la relazione con Marco è finita. Di fronte al suo sguardo interrogativo, d’un tratto esplodo: «Marco, non ne posso più. Non so che cosa mi sia successo con quell’uomo del tutto estraneo. So solo che questo sentimento è più forte di ogni ragione». Marco mi consola e mi dice in tono comprensivo che una volta tornati in Svizzera tutto si sistemerà. Pateticamente rispondo: «Non voglio tornare. Voglio restare in questo bel paese, con la sua gente amabile e soprattutto con questo incantevole masai». È chiaro che Marco non può capirmi.
Il giorno dopo, sotto un sole cocente, come d’accordo ci troviamo davanti all’albergo. D’un tratto compare dall’altro lato della strada, e l’attraversa. Dopo un breve saluto dice: «Come, come!», e noi lo seguiamo. Camminiamo per circa venti minuti in mezzo alla sterpaglia. Qua e là ci saltano davanti delle scimmie, alcune sono grandi la metà di noi. Il suo portamento mi incanta di nuovo. Pare quasi che non tocchi terra, ma si libri nell’aria, anche se ha i piedi infilati in pesanti sandali fatti di pneumatici. Al confronto io e Marco sembriamo due pachidermi.
Spuntano cinque capanne rotonde, disposte a cerchio e simili a quelle dell’albergo, ma molto più piccole. Al posto del calcestruzzo ci sono pietre naturali disposte a strati, intonacate con argilla rossa. Il tetto è fatto di paglia. Davanti a una casetta sta una donna robusta con un grande seno. Il masai ce la presenta come una sua conoscente, Priscilla, e solo in quel momento veniamo a sapere anche il suo nome: Lketinga.
Priscilla ci saluta cordialmente, e il suo buon inglese ci sorprende. «You like tea?» ci chiede. Io accetto ringraziando. Marco ritiene che faccia troppo caldo e preferirebbe una birra. Ma è chiaro che questo resta un desiderio. Priscilla tira fuori un piccolo fornello a spirito, lo appoggia in terra ai nostri piedi e aspettiamo che l’acqua incominci a bollire. Raccontiamo della Svizzera, del nostro lavoro e chiediamo da quanto tempo vivono qui. Priscilla abita sulla costa già da dieci anni, mentre Lketinga è nuovo del posto – è arrivato solo da un mese -, per questo sa ancora poco l’inglese.
Facciamo delle foto e ogni volta che sono vicino a Lketinga sento un’attrazione straordinaria. Devo controllarmi per non toccarlo. Beviamo il tè, è squisito ma bollente. Quasi ci scottiamo le dita con le tazze smaltate.
All’imbrunire Marco dice: «Vieni, ora dobbiamo pensare al ritorno». Ci congediamo da Priscilla scambiandoci gli indirizzi con la promessa di scriverci. Con un peso sul cuore mi affretto dietro a Marco e Lketinga. Davanti all’albergo Lketinga chiede: «Tomorrow Christmas, you come again to Bush-Baby?». Lo guardo con occhi raggianti e prima che sia Marco a rispondere esclamo: «Yes!».
Mancano quattro giorni alla partenza e mi sono proposta di comunicare al mio masai che finite le vacanze lascerò Marco. Paragonato ai miei sentimenti per Lketinga, tutto quello che c’è stato prima mi appare ridicolo. Il giorno successivo vorrei farglielo capire in qualche modo e dirgli anche che presto tornerò da sola. Un’unica volta, per un attimo, mi chiedo che cosa provi lui per me, ma subito mi do la risposta: di certo le stesse cose!
È la vigilia di Natale. A quaranta gradi a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La Masai bianca
  4. Ringraziamenti