La posta in gioco
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La posta in gioco

Interventi e proposte per la lotta alla mafia

  1. 366 pagine
  2. Italian
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La posta in gioco

Interventi e proposte per la lotta alla mafia

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Trattamento e attendibilità dei pentiti, carcere duro ai mafiosi, intercettazioni telefoniche, separazione delle carriere: le proposte di Giovanni Falcone nella lotta alla mafia hanno contribuito allo sviluppo democratico del nostro Paese. A distanza di anni il suo pensiero sempre lucido è rimasto assolutamente attuale, e la sua lungimiranza lo ha portato ad affrontare quelle questioni che sono oggi al centro del dibattito politico. Oltre al Maxiprocesso e al patrimonio di conoscenze che ci ha tramandato su Cosa Nostra, questa raccolta di scritti ne restituisce le opinioni, le intuizioni, i progetti e le strategie per gestire e migliorare l'organizzazione della giustizia italiana. Finalmente un'immagine a tutto tondo del grande magistrato, ulteriore testimonianza della straordinaria passione civile che l'ha sempre animato e della sua perspicacia nell'individuare debolezze e criticità del nostro Stato. Una nuova edizione, perché le sue parole e le sue conquiste non siano perdute, dimenticate o, peggio, piegate a interessi particolari.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858613535
La posta in gioco

Il pensiero conteso

di Giovanni Falcone

di Giuseppe D’Avanzo
Giovanni Falcone, uomo solo in vita, a quasi vent’anni dal suo assassinio è un uomo solo anche da morto. Cercherò di spiegarlo per dire quanto sia necessario e imprescindibile questo libro, se avete un qualche interesse a comprendere questo strano italiano che spiegò – non solo all’Italia – il fenomeno mafioso e con competenza investigativa e sapienza giuridica aprì, in solitudine, strade che ancora oggi bisogna esplorare se si ha in animo di distruggere la mafia, le mafie.
Non c’è stato uomo nel nostro Paese che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Giovanni Falcone. È stato bocciato come consigliere istruttore (allora esistevano ancora gli uffici istruzione). Non l’hanno accettato come procuratore di Palermo (quando gli uffici istruzione furono cancellati dalla riforma del codice nel 1989). Si candida al Consiglio superiore della magistratura (è l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria) in una «corrente» che, peraltro, aveva contribuito a fondare. Lo silurano anche lì. Innova le strutture dello Stato dedicate al contrasto di Cosa nostra e delle mafie ideando la procura nazionale antimafia. Nata quella sua «creatura», sarebbe stato il naturale zar antimafia. Non c’è stato tempo per bocciarlo, in quest’occasione. Il 23 maggio del 1992 i Corleonesi si incaricano di ucciderlo. Qualche giorno dopo, esasperato dall’unanimità del cordoglio, dalle troppe ipocrite voci di dolore e di rimpianto, Mario Pirani ricorre a un personaggio letterario, all’Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte, per dar conto del rosario ineguagliato di sconfitte subìto da Giovanni Falcone e denunciare il tentativo «d’impadronirsi, annullare e distruggere definitivamente quel poco che potrebbe resistere dell’eredità di Falcone».
Timore lungimirante. Acuminato vaticinio, perché negli anni a seguire è appunto quel che accadrà. Umiliata in vita l’eccentricità «rivoluzionaria» del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o all’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica, la diversità di Falcone – in morte – viene indebolita, snervata. Ora che non bisogna più fare i conti con quel giudice, con la sua passione civile, il talento investigativo, l’estro, la tenacia, la forza delle sue idee, ora che ci si è liberati, con la sua presenza fisica, della sua testimonianza e del suo esempio si può prendere possesso della sua memoria. O meglio ci si può impadronire – della sua storia, delle sue parole e delle sue decisioni – di qualche brano, di qualche passo, di quella scelta e non di quell’altra, di quel che è utile oggi e ora nella mischia quotidiana e agitarlo come una mazza ferrata contro gli antagonisti del momento. Così i magistrati che hanno denigrato in vita Giovanni Falcone lo esaltano oggi, da morto, per difendere se stessi, le proprie idee o errori o iniziative, e politici che, in vita, hanno lavorato al suo ostracismo oggi ne esaltano i pensieri e i metodi, ma soltanto in quei segmenti che più tornano comodi. Ecco quel che accade. Anche se, quando era in vita, né il Paese né la magistratura né la politica, quale ne fosse il segno, hanno saputo accettare le idee di Falcone; in morte, la magistratura, la politica se ne riempiono le mani, deformandole secondo la convenienza, l’opportunità, la congiuntura. Soccorre questo programma la rituale celebrazione di Giovanni Falcone che mai riesce a liberarsi della morsa emotiva. Mai che si riuscisse a discutere di Falcone senza farsi afferrare da quell’onda di dolorose emozioni che interdice ogni riflessione e giudizio. Il rito celebrativo cristallizza il dolore, lo perpetua in un’infinita cerimonia funebre che ripropone rinnovandolo il lutto e quindi lo smarrimento di chi, anche dopo anni, avverte un vuoto non colmabile e ancora privo di un senso.
Paradossale è l’esito del rituale. Alla fine, si ricorda autocompiacendosi il proprio dolore (quanti anni avevi e dov’eri quando lo uccisero e che cosa pensasti e poi facesti qualcosa, che cosa? Dove, con chi?), ma si dimentica Giovanni Falcone che, trasformato in icona, s’eclissa. Chi era quel giudice? Che cosa volle, fece, pensò, desiderò davvero? Perché, nonostante i minacciosi ostacoli al suo lavoro, è riuscito a disseccare nel breve volgere di un lustro la più potente mafia (allora) dell’Occidente? Quali sono stati i modelli culturali e la sapienza professionale che gli hanno consentito questo risultato? Perché il successo delle sue innovazioni si è abbattuto sul suo capo come una maledizione – e sulla sua vita come un pericolo – ben prima che, anticipato dalle calunnie e dalle insinuazioni, il tritolo degli assassini lo distruggesse?
Nell’approccio sempre emotivo o strumentale alla vita di Falcone, queste domande finalmente legittime – perché non si dà memoria senza giudizio – scompaiono e la «memoria collettiva» appare per quel che è: «uno strumento e una mira di potenza» che ridisegna la vita e la morte del giudice; le sue ragioni; le sue sconfitte; la solitudine istituzionale che sempre lo accompagnò; la gelosia e il disprezzo della casta togata che lo schiacciò; la «differenza» e il solco che sempre lo divisero da una magistratura pigra o imbelle; l’inimicizia assoluta che si guadagnò nelle oligarchie politiche; la diffidenza che raccolse tra i media. Come accade a quegli oggetti di moda rétro, tanto desiderati dal «grande pubblico» ossessionato dal timore di un’amnesia, la vita di Giovanni Falcone viene raccontata e consegnata alla «memoria collettiva» tonda, senza spigoli o increspature, levigata come il sasso di un fiume in narrazioni discordanti e incompatibili. Così se il «narratore» vuole testimoniare la fondatezza delle iniziative giudiziarie di quel pubblico ministero o di quella procura o, per dire, le politiche dell’associazione magistrati o della consorteria togata può citare, di Falcone, i brani sui «delitti del terzo livello» che presuppongono la convergenza di interessi di Cosa nostra con poteri politici e istituzionali. O la valutazione delle rivelazioni dei «pentiti» dove si legge che «non si può condividere l’assunto che la chiamata di correo, se non assistita da riscontri estrinseci, rimane un mero, equivoco indizio». E ancora. Sull’«isolamento» del servitore dello Stato, prima causa della suo assassinio. Sul «calo d’attenzione» dello Stato. Si potrebbe continuare.
All’unilateralità di questa lettura possono contrapporsi – si contrappongono – discorsi unilaterali, uguali e contrari. Chi vuole manomettere l’assetto costituzionale dell’ordine giudiziario – pretendendo la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo – può scavare nel lavoro di Falcone le riflessioni più coerenti con i suoi desideri politici. Brani come questo: «I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione non equivalgono a sostanziale irresponsabilità». O come questo: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte che si parla di differenziazione delle carriere». O come quest’altro ancora: «È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge».
C’è qualcosa di umiliante in questa «sottrazione di cadavere». È avvilente che la storia di un uomo che abitualmente si ritiene un eroe nazionale, invece di unire, di rappresentare la communitas, quindi quel che noi abbiamo in comune – e dunque un dovere, un debito, la promessa di un reciproco dono (munus) che nessuno può tenere per sé – diventi anche al prezzo di sfigurarne il pensiero un’arma contundente per colpire e annientare l’avversario del momento. Come accade quando, tirandolo da una parte o dall’altra, si fa dire al Falcone morto quel che Falcone vivo non ha mai pensato. Vale la pena di ricordarlo con i tempi che corrono. L’indipendenza e l’autonomia della funzione giudiziaria erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a un privilegio di casta, come appare ad alcuni magistrati, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario, egli pensava che autonomia e indipendenza fossero le gravose responsabilità che la Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l’imparzialità del giudizio, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni Falcone sentiva l’indipendenza del magistrato come missione e risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso «estraneo e fuori posto» in ogni luogo in cui gli è toccato di stare, tra i magistrati tentati dal potere e tra i politici innamorati dei magistrati quietisti «sensibili» al comando del potere: così è diventato un «intruso» da eliminare, calunniare, demolire.
Quelli ora raccolti qui in volume sono gli «Interventi e proposte (1982/1992)» di Giovanni Falcone, già pubblicati dalla Sansoni Editore nel maggio del 1994 con un libro ormai introvabile. Questi saggi avranno il pregio di rimuovere gli alibi di chi in malafede vuole mettere al servizio delle proprie volontà e intenzioni la memoria del giudice. Sono pagine che consentono di toccare con mano il pensiero di Giovanni Falcone, i suoi dubbi, le sue convinzioni, i nuovi orizzonti investigativi, giuridici, processuali che il lavoro quotidiano di giudice istruttore, pubblico ministero e direttore degli Affari Penali del ministero di Giustizia gli hanno consentito di intravedere. È il pensiero di Falcone. È la sua eredità. Da oggi chi vorrà citare il giudice, evocarne la presenza, il sacrificio, l’intelligenza, le intuizioni dovrà fare i conti con tutt’intera la molteplicità delle sue idee e non sceglierne, fior da fiore, quel che torna utile alla convenienza del momento. È la ragione – credo – che fa questo libro necessario e imprescindibile. È un’opportunità per l’Italia immatura di coltivare, con la memoria affettiva, un’autentica memoria storica. È l’occasione per restituire a Falcone quel che è suo e finalmente concedergli la pace e il riposo che si è guadagnato tra di noi, nella sua breve e infelice vita.
Ottobre 2010
Non è retorico né provocatorio chiedersi quanti altri coraggiosi imprenditori e uomini delle istituzioni dovranno essere uccisi perché i problemi della criminalità organizzata siano finalmente affrontati in modo degno di un Paese civile.
G.F
Settembre 1991
Prefazione
La Fondazione Giovanni e Francesca Falcone pubblica in questo libro gli interventi – in gran parte relazioni congressuali, conferenze universitarie e contributi a incontri periodici dell’Associazione magistrati – pronunciati da Giovanni Falcone negli anni dal 1982 al 1992. Con questa raccolta la Fondazione intende far conoscere Giovanni Falcone non solamente come giudice antimafia, ma anche come studioso attento della realtà sociale contemporanea, sensibile ai problemi giuridici e giudiziari del nostro Paese.
Per seguire nel loro maturare le idee e le proposte ivi contenute, si è scelto il criterio di presentare i vari interventi per temi, conservando all’interno dei vari ambiti la naturale successione cronologica. Completa il volume una sezione di indispensabili note bibliografiche. Un particolare ringraziamento va alla dottoressa Filena Patroni Griffi che con amore, competenza e attenzione ha curato la raccolta dei testi, sottoponendosi a un grande lavoro di ricerca e di organizzazione.
IL PRESIDENTE
Maria Falcone

PARTE PRIMA

EMERGENZA E STATO DI DIRITTO

1

Emergenza e Stato di diritto

È comprensibile che, in relazione alla più incisiva azione della magistratura nella repressione del fenomeno mafioso, ci si interroghi se essa non abbia per caso travalicato i suoi limiti istituzionali, assumendosi compiti propri di altri organismi dello Stato. Al riguardo, non è seriamente contestabile che, nell’inerzia di altri poteri, talora la cosiddetta «attività di supplenza» della magistratura abbia portato quest’ultima a farsi carico di problemi che avrebbero potuto e dovuto essere più propriamente trattati in altre sedi istituzionali; parimenti, è ben noto che la stessa legislazione, specialmente in tempi più recenti, ha finito per assecondare questa tendenza, dando spazi sempre più ampi di discrezionalità all’attività giudiziaria in settori di intervento che, per la loro complessità, non si è ritenuto – o non si è potuto – disciplinare preventivamente. Una analisi esauriente di questa problematica porterebbe troppo lontano e mi sembra, dunque, più aderente al tema cercare di stabilire se le emergenze terroristica e mafiosa abbiano comportato un’accentuazione del fenomeno, e comunque se l’attività della magistratura sia stata condotta in questi settori conformemente ai princìpi dello Stato di diritto.
Per quanto riguarda il terrorismo, è un dato generalmente riconosciuto quello della complessiva soddisfacente tenuta delle istituzioni democratiche. Certamente, non può affermarsi ancora che questa emergenza sia cessata, ma si può essere orgogliosi di avere resistito a tendenze autoritarie, riuscendo sostanzialmente a contenere il fenomeno, senza gravi lacerazioni del tessuto democratico. È stata introdotta, è vero, tutta una normativa, significativamente indicata come «legislazione dell’emergenza», che ha inciso pesantemente soprattutto sul processo penale e sulla durata della custodia cautelare; né va dimenticato che i princìpi ispiratori del nuovo ordinamento penitenziario sono stati praticamente sospesi durante l’emergenza terroristica. Si è trattato di dolorosi ma necessari provvedimenti, emanati quando veramente c’era il pericolo che il terrorismo politico potesse travolgere la democrazia in Italia. Ma deve riconoscersi che, comunque, tali provvedimenti sono stati emessi senza violare le garanzie previste dalla Costituzione. Inoltre, deve ascriversi a merito della magistratura se i responsabili di gravissimi delitti contro lo Stato sono stati condannati dopo un’ortodossa fase di acquisizione delle prove e un regolare dibattimento, così attuandosi, in condizioni molto difficili, un’imprescindibile esigenza dello Stato democratico.
Non è questa la sede, né avrei la capacità di analisi necessaria per individuare compiutamente i fattori determinanti di questo successo. Ma mi sembra doveroso richiamare l’importantissimo contributo dato dalla società civile, attenta a che venissero rispettate le garanzie istituzionali del cittadino e, nel contempo, pienamente solidale con gli organi statuali preposti alla repressione del fenomeno. Anzi, mi sembra che, in pieno contrasto con le finalità del terrorismo, la società si sia maggiormente avvicinata alle istituzioni e abbia compreso meglio che la magistratura e gli organismi di polizia sono in Italia al servizio del cittadino e non corpi separati dominati da oscuri interessi.
Attualmente, la criminalità organizzata – e mafiosa in particolare – viene ritenuta una delle più gravi emergenze del nostro Paese, ma dico subito che non mi sembra corretto trattare il fenomeno mafioso come un’emergenza. Mi domando, infatti, sulla base di quali presupposti può essere considerato emergenza un fenomeno criminale che ha origine anteriore alla nascita dello Stato unitario, che ha resistito alle commissioni antimafia e che è divenuto, negli anni, un fattore sempre più destabilizzante della democrazia.
Certamente, i fatti più eclatanti della criminalità mafiosa sono avvenuti soprattutto negli ultimi anni, e solt...

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  1. Cover
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. La posta in gioco