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Tutto era cominciato con la morte, e con la morte si sarebbe concluso. Ma se in quel mattino così infausto fosse stata proprio l’ombra fuggevole di un presagio ad attraversare i sogni della ragazzina e a svegliarla, lei non l’avrebbe mai saputo. Tutto ciò di cui si rese conto nell’aprire gli occhi fu che il mondo appariva in qualche modo diverso.
Il bagliore rosso della sveglia le segnalò che mancava circa mezz’ora al momento di alzarsi. Rimase distesa immobile, senza sollevare il capo, cercando di capire che cosa fosse cambiato. Era ancora buio, ma meno di quanto ci si sarebbe aspettati. Sul lato opposto della stanza riusciva a scorgere chiaramente i lievi riflessi dei suoi trofei di equitazione allineati sugli scaffali, e sopra di essi le gigantografie delle stelle del rock per cui un tempo aveva creduto di andare pazza. Si mise all’ascolto. Anche il silenzio che invadeva la casa sembrava diverso, sospeso, come la pausa fra l’istante in cui si inspira e quello in cui ci si decide a parlare. Presto avrebbe udito il rombo attutito della caldaia che entrava in funzione in cantina, e il vecchio pavimento della casa avrebbe ripreso il suo solito cigolìo lamentoso. Scese dal letto e si avvicinò alla finestra.
Aveva nevicato. La prima neve dell’inverno. E, a giudicare dalla palizzata nei pressi dello stagno, sembrava che ne fosse scesa una trentina di centimetri. In assenza di vento, creava un manto perfetto e regolare, raccogliendosi in proporzioni minuscole sui rami dei ciliegi che suo padre aveva piantato l’anno prima. Una stella brillava solitaria, incastonata nella distesa blu scuro sopra gli alberi. La ragazzina abbassò lo sguardo e vide che lungo il lato inferiore della finestra si era formato un nastro di brina; vi posò un dito, imprimendo un piccolo foro. Rabbrividì, non per il freddo ma per l’eccitazione nel rendersi conto che quel mondo trasformato era per il momento interamente suo. Quindi si volse e corse a vestirsi.
Grace Maclean era giunta da New York la sera prima con suo padre. Quel viaggio la divertiva sempre, due ore e mezza lungo la Taconic State Parkway nel tepore della lunga Mercedes, ascoltando le cassette e chiacchierando della scuola o di qualche nuovo caso su cui il padre stava lavorando. Le piaceva sentirlo parlare mentre guidava, le piaceva averlo tutto per sé, osservarlo mentre si rilassava lentamente nel suo ordinato abbigliamento da weekend. Sua madre, come sempre, era impegnata con una cena, un evento mondano, o qualcosa di simile: sarebbe arrivata ad Hudson il mattino dopo in treno, soluzione che in ogni caso preferiva al viaggio in auto. Il traffico del venerdì sera la rendeva invariabilmente scontrosa e impaziente, e allora lei reagiva diventando prepotente, intimando a Robert, il padre di Grace, di rallentare o accelerare o imboccare chissà quale tortuosa deviazione per evitare le code. Lui regolarmente si sottraeva alle discussioni, limitandosi a eseguire gli ordini, sebbene a volte si concedesse un lieve sospiro e rivolgesse a Grace, relegata sul sedile posteriore, un’occhiata ironica attraverso lo specchietto retrovisore. Il rapporto fra i suoi genitori era da lungo tempo un mistero per Grace, un mondo complesso in cui il predominio e l’arrendevolezza non erano mai ciò che sembravano a prima vista. E così, per evitare di venirne coinvolta, lei si ritirava nell’isolamento del suo walkman.
Sul treno la madre avrebbe lavorato per l’intero tragitto, concentrata e inaccessibile alle distrazioni. Nel corso di un recente viaggio in sua compagnia Grace l’aveva osservata e si era stupita di non vederla mai guardare fuori dal finestrino, tranne forse nelle occasioni in cui vagava con lo sguardo mentre parlava al telefono cellulare con un giornalista importante o un vicedirettore particolarmente zelante.
La luce del pianerottolo era ancora accesa. Grace superò in punta di piedi la porta semiaperta della camera dei genitori e si fermò. Poteva udire il ticchettìo dell’orologio a muro nella sala al pianterreno e il russare lieve e rassicurante del padre. Scese le scale fino alla sala, le cui pareti e il cui soffitto azzurri già rilucevano dei riflessi proiettati dalla neve attraverso le finestre. Giunta in cucina, vuotò d’un fiato un bicchiere di latte e sgranocchiò un biscotto al cioccolato mentre scriveva un messaggio per il padre sul blocchetto accanto al telefono. «Sono andata a cavallo. Tornerò verso le 10. Ti voglio bene, G.»
Prese un altro biscotto e raggiunse il corridoio sul retro in cui tenevano le giacche e gli stivali infangati. Indossò il giubbotto di lana e, con il biscotto ancora stretto fra i denti, saltellò con grazia infilandosi gli stivali da cavallerizza. Si allacciò il giubbotto fino al collo, si mise i guanti e prese il berretto dallo scaffale. Per un istante si domandò se avrebbe dovuto telefonare a Judith per chiederle se aveva ancora intenzione di cavalcare nonostante la neve. Ma non ce n’era bisogno. Judith ne sarebbe stata altrettanto entusiasta. Mentre apriva la porta e usciva nell’aria gelida, Grace sentì la caldaia mettersi in moto in cantina.
Wayne P. Tanner guardò cupamente oltre l’orlo della tazza di caffè la fila di camion incrostati di neve fermi nel parcheggio di fronte al ristorante. Detestava la neve, ma più ancora odiava essere colto in fallo. E nello spazio di qualche ora erano successe entrambe le cose.
Quei poliziotti dello Stato di NewYork se l’erano goduta fino in fondo, sbirri supponenti che non erano altro. Li aveva visti raggiungerlo e stargli alle calcagna per tre o quattro chilometri, perfettamente consapevoli di essere stati notati e proprio per questo ancora più divertiti. All’improvviso avevano messo in funzione la luce intermittente, gli avevano segnalato di accostare e quel bulletto, poco più di un ragazzo, gli si era avvicinato con andatura tronfia e con lo Stetson calato sul capo come uno stramaledetto sbirro della Tv. Gli aveva chiesto la tabella delle corse; Wayne l’aveva trovata, gliel’aveva consegnata ed era rimasto a guardare mentre il ragazzo la studiava.
«Atlanta, eh?» aveva detto il poliziotto scorrendo le pagine.
«Sissignore» aveva risposto Wayne. «E laggiù fa molto più caldo, lasci che glielo dica.» Era un tono che di solito funzionava con gli sbirri, rispettoso ma fraterno, a suggerire una certa solidarietà fra utenti della strada. Ma il ragazzo non aveva sollevato lo sguardo.
«Hmmm. Lei sa che il rivelatore di radar che ha montato sul suo mezzo è illegale, vero?»
Wayne aveva lanciato un’occhiata alla scatoletta nera fissata al cruscotto e per un istante si era chiesto se non fosse il caso di fingere completa innocenza. Nello Stato di New York i radar antisbirri erano illegali per tutti i camion oltre le otto tonnellate. E il suo le superava abbondantemente. Ma fingendosi all’oscuro, si era detto, avrebbe fatto incazzare ancor più quel piccolo bastardo. E così era tornato a voltarsi verso il poliziotto con un sorriso colpevole, che però si era rivelato inutile, perché il ragazzo continuava a non sollevare lo sguardo. «Lo sa, vero?» aveva ripetuto.
«Sì... insomma, immagino di sì.»
L’altro aveva richiuso la tabella delle corse e gliel’aveva restituita, guardandolo finalmente negli occhi. «Bene» aveva replicato. «E adesso vediamo quella vera.»
«Mi scusi?»
«L’altra tabella. Quella vera. Questa va bene per le fate.» Lo stomaco di Wayne si era stretto in una morsa.
Per quindici anni, come migliaia di altri camionisti, aveva tenuto due tabelle, una con la verità sui tempi, le distanze e le soste, e l’altra, approntata proprio per situazioni come quella, in cui risultava come avesse rispettato i limiti stabiliti dalla legge. E in tutto quel tempo, nelle decine di volte in cui era stato fermato durante i viaggi da costa a costa, nessuno sbirro gli aveva fatto uno scherzo del genere. Cazzo, praticamente quasi tutti i camionisti di sua conoscenza tenevano doppie tabelle: le chiamavano gli albi a fumetti, erano una specie di barzelletta. Se guidavi da solo, senza nessuno co...