Prefazione
Tempo fa chiedevo a un collega israeliano perché, a suo parere, Pasque di sangue1 avesse suscitato così aspre reazioni, spesso urlate e quasi sempre sopra le righe, soprattutto in ambiente ebraico. «Sei stato imprudente! Perché sei andato a impelagarti nella Shoah?» ha ribattuto senza esitazione, sorprendendosi della mia apparente ingenuità. «Ma in quel libro parlavo di omicidi rituali, infanticidi... tutti avvenimenti di oltre cinque secoli fa, ancor prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America. Cosa c’entra la Shoah?» ho provato a rispondere, senza troppa convinzione. La sua replica è stata immediata e di una franchezza quasi brutale: «In un modo o nell’altro, la Shoah c’entra sempre. Ogni libro di storia ebraica si apre o si chiude – fa lo stesso – con un capitolo sulla Shoah, che viene usata in dosi massicce come fosse un deodorante». A sentire lui (e non solo lui) la questione era evidente: avevo agito come uno sconsiderato, e le reazioni – anche le più scortesi e violente – erano da considerarsi nient’altro che legittima difesa.
Questo saggio parte proprio da qui, da una considerazione pessimistica e gravida di pesanti implicazioni. Un ebraismo virtuale e oleografico, fatto di vittime invertebrate e di martiri innocenti, languido e molliccio, si è sostituito all’immagine vera e reale di un popolo di gente in carne e ossa, che tra mille contraddizioni ed errori, tra eroismi e viltà, ha saputo sopravvivere lasciando traccia indelebile di sé nella storia. Un popolo che ha scritto pagine luminose e ha firmato anche pagine oscure e poco gloriose, che è stato fedele a se stesso paradossalmente perfino nei momenti più difficili e pericolosi, ma talvolta è mancato ad appuntamenti all’apparenza meno ardui e problematici. Un popolo vivo e tutt’altro che passivo, anche quando era perseguitato.
Oggi sembra che i suoi eredi, soprattutto quelli della diaspora, abbiano deciso di inventarsi un altro ebraismo, con l’aureola della santità incorporata all’origine. Un ebraismo senza macchia, ma con molta paura. Anzi, ossessionato dalla paura, e alla continua ricerca di difensori a buon mercato o di apologeti ignoranti. Dinanzi alla nuova realtà dello Stato di Israele, verso il quale più o meno consciamente si sentono in colpa per averlo lasciato a se stesso senza affrontare la scomoda e pericolosa alternativa del sionismo realizzato, gli ebrei della diaspora, gli inventori di questo ebraismo virtuale alla moda, hanno ripiegato verso un comportamento totalmente acritico e privo di stimoli. Ogni scelta politica dei governanti israeliani diviene la loro scelta, automatica ed entusiasta, e tutti i partiti politici di Israele, in maniera intercambiabile, si trasformano nel loro partito. Ma con una netta preferenza per la destra nazionalista e fondamentalista, piagnucolosa e bellicosa.
Questo complesso di colpa, che richiede ammende compensative, magari annaffiate da elargizioni in denaro, benefiche e tutt’altro che disinteressate, li mette con il cuore in pace, ma d’altra parte li rende vulnerabili e ossessionati dalla paura dell’antisemitismo, sempre in agguato e pronto a profittare dell’accusa, difficilmente contestabile, della doppia lealtà (allo Stato di cui si è cittadini e a Israele) per rispolverare e dare credibilità ai Protocolli dei savi anziani di Sion. Una impasse che può essere superata soltanto facendo leva sull’aiuto di vecchi e nuovi amici: quelli che della difesa delle minoranze hanno fatto una professione e gli altri, che sperano che nelle giornate della memoria non ci si ricordi più di loro. «Renato», come spesso i preti chiamavano il nuovo convertito al cristianesimo, augurandosi che ci si dimenticasse del suo passato. Una impasse che si crede di poter eludere anche riscrivendo la storia ebraica in modo che sia sempre immacolata, celeste e ammonitrice. È questa una storia per forza di cose censurata, dove lo stesso tipo di fonti è di volta in volta utilizzato o respinto, a seconda dell’immagine relativa agli ebrei che fa emergere. È una storia dove non c’è posto per ladri, mostri e assassini, come per le altre genti, ma solo per i santi, i martiri, gli eroi e i virtuosi taumaturghi dai nobili comportamenti. La diatriba scoppiata con l’uscita del mio libro sulla credibilità delle fonti inquisitoriali, sulle confessioni apoditticamente vere e su quelle aprioristicamente false, su giudici terroristi e torturatori e rivelazioni estorte, di volta in volta incredibili o di lapalissiana veridicità, ne è prova evidente.
Se nella storia, come vogliono i soliti apologeti travestiti da storici, i comportamenti degli ebrei hanno sempre coinciso con le norme dettate da Dio, dai profeti e dai dotti di Israele, allora non c’è davvero posto per esempi che mostrino il contrario, per considerazioni dove si prenda in esame la possibilità che influenze esterne abbiano talvolta allontanato dai principi originari, che la forzata ricerca del compromesso nei rapporti con la società circostante abbia potuto inquinare in qualche frangente la norma. Per fare un esempio, anch’esso tratto dal mio libro, nel caso del consumo del sangue i rabbini sono stati categorici. Il divieto è per gli ebrei assoluto ed è sempre stato scrupolosamente osservato. Per i rabbini italiani quindi «l’unico sangue versato è stato quello degli ebrei, vittime innocenti». Eppure le cose non stanno proprio così, come ho inteso dimostrare senza cercare lo scandalo. Il discorso sul sangue, che affronterò di nuovo più avanti, anche per quanto concerne gli ebrei, e quelli delle terre tedesche in particolare, è assai più complesso di quanto si vuol fare intendere e non può essere liquidato facendo costante ricorso allo stereotipo calunnioso degli infanticidi rituali per evitare di affrontarlo.
L’apologia come l’agiografia sono nemiche della storia. Scoprire che ci sono stati ebrei esperti nell’alchimia e nelle arti magiche, imbevuti di superstizioni e dediti alle scienze occulte, che andavano a braccetto con i loro conterranei cristiani, senza esserne punto imbarazzati; rivelare che il loro linguaggio mentale, non importa se espresso in tedesco, in ebraico o in yiddish, era lo stesso dei contadini bavaresi o dei montanari della Carinzia, non comporta alcuna offesa all’ebraismo. Né a quello di ieri né a questo di oggi. La creazione e la messa in moto della macchina artificiale, intesa a dar vita e credibilità a un ebraismo virtuale, sempre probo, razionale e onesto, popolato da vittime mansuete e indifese, per comprendere i cui comportamenti basta aprire la Bibbia e leggere i Dieci Comandamenti, è invece un’offesa alla verità e al buon senso. Talvolta, quando è accompagnata dal coro dei piaggiatori in buona e malafede, finisce suo malgrado col precipitare nell’assurdo e nel ridicolo. È qui che questo mio saggio si pone per cercare di individuare le diverse fisionomie con le quali l’ebraismo virtuale si presenta oggi, insieme alle costruzioni culturali e agli abbellimenti storiografici che gli fanno da supporto.
Perché sia uno storico ad aver deciso di affrontare questi temi, che pur affondando le radici in un passato più o meno lontano possiedono valenze non soltanto attuali, ma spesso proiettate verso il futuro, è presto detto. Come insegna Fernand Braudel, lo storico, proprio perché è in grado di prendere le distanze dai fatti che esamina, senza coinvolgimenti emozionali e personali, può elaborare e presentare analisi e riflessioni collocate in contesti più ampi e prospettive più dilatate nel tempo. Inoltre dovrebbe avere la capacità di far funzionare la memoria in maniera che non sia parziale né selettiva, e di non asservirla a contingenti motivi di convenienza. Con una indagine attenta e approfondita, ma sempre sine ira et studio, come voleva Tacito.
Prima di tutto ho inteso affrontare il tema controverso della Shoah, la cui memoria sempre più ingigantita, onnipresente e clamorosa ha paralizzato il dibattito nel mondo ebraico e di fatto trasformato la sua storia in mito edificante, dove i confini tra terra e cielo sono ormai irrilevanti e le scansioni cronologiche inesistenti. La realtà frammentata di un popolo vivace e creativo che, come gli altri, talvolta si è allontanato dalla norma e ha dato vita a fenomeni di estremismo, violenza e intolleranza è stata ricomposta in un affresco oleografico dove tutto è virtuale e improbabile e dove il ricordo minaccioso della Shoah trasforma inevitabilmente i protagonisti in vittime innocenti. È un quadro che risulta sempre eguale a se stesso, previsto e prevedibile sia da chi lo ridipinge continuamente sia da chi lo guarda ormai con malcelato fastidio e insofferenza.
Questo fenomeno, che considero controproducente alla vera immagine degli ebrei e dell’ebraismo, con le loro differenze e contraddizioni, addormenta ogni discussione, cancella ogni possibilità di confronto sui temi reali e in ultima analisi non può che dar forza a vecchie e nuove manifestazioni di antisemitismo. Il ricordo e la memoria non possono servire da scusa e pretesto per non guardare al futuro, con coraggio, fiducia e speranza, imparando dagli errori del passato e correggendo senza timori e timidezze quelli del presente.
E ancora, non si può fare ricorso costante al ricordo e alla memoria per giustificare l’atteggiamento sempre più uniforme e acritico della diaspora ebraica nei confronti della politica dei diversi governi dello Stato di Israele e delle decisioni, anche le più controverse, da loro adottate. L’ebraismo diasporico, forse perché ancora alla ricerca di un equilibrio impossibile sul problema assolutamente reale e serio della doppia lealtà o perché assalito da complessi di colpa per non aver tradotto nella pratica la propria adesione al sionismo, ha rinunciato a occupare una posizione critica e costruttiva nei confronti di Israele. Impegnato nella continua ricerca di rassicuranti compensazioni, ha assunto il classico atteggiamento del «tifoso», sempre e comunque in difesa della propria squadra e dei propri giocatori, anche quando agiscono palesemente contro le regole e in maniera irritante.
Da tempo in Israele un mondo intellettuale vivace e innovatore, che non ha paura di guardarsi dentro, ha invece adottato una coscienza pluralistica e conflittuale, che mette continuamente in discussione i miti fondatori sia dell’ebraismo che dello Stato di Israele. Anima quindi un dibattito politico e ideologico franco, aperto e critico in una società che, tra mille errori e contraddizioni, lotta per la propria esistenza e sopravvivenza, ma che non cresce sotto la cappa minacciosa e ossessionante dell’antisemitismo. L’idea di un destino ebraico globale, accarezzata da gran parte dell’ebraismo diasporico come un mito rassicurante e protettivo, è contestata con vigore sempre maggiore nel dibattito intellettuale israeliano. Questa idea è posta a confronto con quella di un’entità storica differenziata e articolata al suo interno, tutt’altro che uniforme e solcata da profonde venature di conflittualità, talvolta estreme.
Di fronte a una comunità diasporica prevedibile e francamente noiosa, tutta proiettata verso il suo lagrimevole passato, in cui la Shoah costituisce l’ultimo anello di una catena ininterrotta di tragedie e l’unica chiave per comprendere e temere il presente, Israele rimane pur sempre l’unica arena, libera e democratica, dove si combatte la battaglia per il futuro del popolo ebraico. E questo nonostante i suoi grandi errori strategici, la sua politica tutt’altro che lungimirante, i suoi gruppi nazionalisti e ortodossi oltranzisti, che condizionano pesantemente i governi dal di fuori e spesso ne fanno direttamente parte, i suoi generali che abbandonano la divisa e lo stato maggiore per trasformarsi in leader politici spesso mediocri e talvolta corrotti. Qui anche il dissenso, politico e intellettuale, potrà trasformarsi in maggioranza finalmente consapevole che da questa battaglia si uscirà vincitori solo quando il traguardo di una pace giusta e realistica sarà raggiunto, al prezzo di inevitabili compromessi. È qui che si arriverà necessariamente alla comprensione che questa pace non dovrà essere più costruita sulle macerie e le sofferenze dell’altro. Allora le giornate della memoria e della commemorazione potranno e dovranno essere sostituite da occasioni d’incontro e di dialogo per preparare un futuro prospero e pacifico da raggiungere a fianco di vicini non più ostili, in una regione che attende soltanto tranquillità e progresso, ed è in grado, con molta buona volontà, giustizia e comprensione, di conseguirli. Da Israele potrà quindi partire un pressante invito alla diaspora, un sano appello a cessare finalmente di fare dell’ebraismo una mitologica selva oscura di fossili piangenti.
Il panorama attuale degli ebrei che vivono fuori da Israele si rivela purtroppo tutt’altro che confortante. In particolare nelle nazioni, come l’Italia, dove la loro consistenza numerica è di scarso rilievo, gli ebrei mostrano di non sentirsi pienamente integrati nella società circostante. Qu...