Ritorni di fiamma
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Ritorni di fiamma

Augusto, Virgilio, Ovidio e altri classici

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Ritorni di fiamma

Augusto, Virgilio, Ovidio e altri classici

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"Pensare che sui marmi di Roma si siano posate le impronte di duemila anni può dare un'emozione mentale." Per questo, indagare sulla fortuna della Roma antica costituisce una via privilegiata per capire che cosa ha reso e rende classico un classico. Riproducendo le molte sfumature che già avevano dato luce ai suoi Classici elettrici, Roberto Andreotti accompagna il lettore in un viaggio attraverso una tradizione che si scopre non pura o ideale, ma carica di contraddizioni. Un commento alle Metamorfosi riesce così a svelare le ragioni profondamente letterarie del revival di Ovidio. Una nuova traduzione delle Egloghe virgiliane si confronta con la pastorale "di lotta" di Seamus Heaney. Una biografia di Marco Aurelio smaschera i fraintendimenti convenzionali sull'imperatore-filosofo… In una originalissima esposizione "alla seconda", la riemergente voga delle testimonianze letterarie e figurative antiche è esaminata a partire dalla loro, talvolta oscillatoria, ricezione novecentesca, per arrivare ai giorni nostri. Le interpretazioni canoniche vengono così evocate e discusse mettendo in asse autori classici, interpreti moderni e lettori contemporanei, fondendo senza soluzione di continuità la filologia, la storia della tradizione e la cronaca esistenziale. Tra permanenze, inaspettati ritorni di fiamma e punti di vista inediti, nuove domande di senso si fanno strada, concorrendo a ridefinire i classici nella prospettiva del contemporaneo. Fino a una lettura a caldo dell'11 settembre filtrato attraverso la lente di Euripide

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858619070
Roberto Andreotti
Ritorni di fiamma
Augusto, Virgilio, Ovidio e altri classici
Proprietà letteraria riservata
© 2009 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-61907-0

Prima edizione digitale 2011 da edizione BUR Saggi settembre 2009




In copertina: calco della statua dell’Augusto
di Prima Porta (con restituzione dell’antica
colorazione) Musei Vaticani, Roma
foto © Musei Vaticani, Roma
Progetto grafico di Mucca Design
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
INTRODUZIONE
Marmi, bronzi e ritorni di fiamma
1. «Mentre l’antichità esiste per noi, noi per l’antichità non esistiamo. Non siamo mai esistiti né mai lo saremo.» Da questo truismo prendeva le mosse nel 1994 un omaggio di Josif Brodskij a Marco Aurelio, nel quale la figura impressiva dell’imperatore stoicizzante e la lettura dei suoi Ricordi, sceneggiate sullo sfondo delle rovine di Roma, danno luogo a un saggio-racconto che, sia pure in una prospettiva filtrata dalla letteratura, affronta il problema dello statuto dell’antichità, la cui «visione – scrive Brodskij – [è] radicata nel nostro terrore escatologico» di essere «senza precedenti o conseguenze». Suo «materiale da costruzione perenne» è il marmo. Il marmo, col suo corrispettivo cromatico che riduttivamente chiamiamo bianco, «permea la nostra immaginazione da un capo all’altro, fino agli estremi, quando le sue versioni del passato e del futuro assumono un aspetto metafisico o religioso. Il paradiso è bianco, e così lo sono l’antica Grecia e Roma». È una rappresentazione sintetica, quasi simbolista, che ci riporta adolescenti all’indimenticabile finale di Gordon Pym.
«Che cosa riconoscerebbe un antico romano, se dovesse risvegliarsi oggi?» si chiede retoricamente Brodskij, un po’ frastornato dall’impatto con la Roma moderna e dalla oggettiva difficoltà di correlarle gli aforismi stoici del “suo” imperatore. Ma non ci si deve fermare a certe visioni né a certe uova di Colombo: esse sono in realtà degli abili dispositivi vestiti di una particolare energia poetica, di cui egli si serve per la propria strategia narrativa. Brodskij ci attira subito in una dimensione agonistica, provocandoci e quasi sfidandoci, per condurci là dove ha previsto sin dall’inizio di farci arrivare – così fanno i grandi scrittori, anche quando indossano il vestito da saggisti.
È il caso di questo Omaggio a Marco Aurelio, nel quale Roma classica è dominata dalla presenza rarefatta e numinosa della statua equestre in piazza del Campidoglio. Stiamo parlando, è chiaro, del bronzo originale, non ancora sostituito, all’epoca del viaggio di Brodskij, dalla infelice copia che sembra ricordarci che noi oggi viviamo nell’epoca dei cloni.
L’immagine della statua soggioga lo scrittore russo e il suo testo, ancora a distanza di anni. A Brodskij sono sufficienti pochi tocchi, il nome «Marco» pronunciato dal tassista, che innesca una agnizione adolescenziale; il tentativo di inquadrare il monumento dai finestrini nella giungla di piazza Venezia; l’invasione delle automobili che hanno ucciso la regalità dell’imperatore a cavallo; e poi il finale allucinato, sotto una pioggia notturna nella deserta scacchiera michelangiolesca del Campidoglio – il «prisma verticale», come lo chiama a un certo punto –, con lo scrittore ubriaco (fa molto Russia) e l’imperatore che a un certo punto si muove, scortato da un dalmata randagio, mentre lo immaginiamo pronunciare alcuni dei Pensieri come nei fumetti.
Il corpo a corpo con la figura dell’imperatore-filosofo è anche il pretesto per una riflessione ora struggente ora pessimistica sul nostro (quanto disperato?) tentativo, probabilmente l’ultimo dei moderni, di toccare in qualche modo i classici, di continuare a tenerli costantemente alla nostra portata, mai troppo vicini mai troppo distanti, quantomeno di afferrarli con le pinze del pensiero, dell’estetica, della storia dell’arte, della filologia: insomma di farli parlare con noi e soprattutto di noi. Si tratta soltanto di una “illusione retrospettiva” – come in fin dei conti sembra lasciarci intendere il Marco Aurelio di Brodskij, o il nostro “sentimento” dell’Antico, al contrario, è costruito su solidi dati culturali e antropologici? La rivendicata filiazione dell’Occidente dai greci e dai latini è soltanto un’abile costruzione simbolica, basata su una visione idealistica e su un canone, per così dire, retroattivo, oppure può contare su un Dna culturale che struttura e orienta il nostro modo di pensare, di parlare, di costruire mondi?
Brodskij fa balenare una specie di frattura non ricomponibile tra noi e gli antichi (un «amore a senso unico» di cui Roma rappresenterebbe «la natura platonica» attraverso il dialogo con l’imperatore a cavallo); tuttavia l’effetto plastico e straniante di questa messa in scena finisce per avvolgere il lettore in una escalation emotiva e classificatoria, alla ricerca della definizione perduta:
Quanto alla nostra versione dell’antichità, essa ingoia voracemente sia i Greci sia i Romani, e comunque, nel peggiore dei casi, potrebbe citare il precedente latino in sua difesa. L’antichità è per noi un gran guazzabuglio cronologico, pieno di esseri storici, mitici e divini, collegati fra loro dal marmo e anche per il fatto che un’alta percentuale dei mortali raffigurati vantava discendenza divina o veniva divinizzata. Quest’ultimo aspetto, che si traduce nell’abbigliamento succinto, praticamente identico di tutti quei marmi, e nella nostra difficoltà di attribuzione dei frammenti (questo braccio scheggiato apparteneva a un mortale o a una divinità?), è degno di nota.
L’«antichità» può così assumere le sembianze piuttosto astratte, e confuse, di «un panorama mentale» nel quale svettano le rovine alla rinfusa di Roma. È una fotografia scattata molto tempo prima della stesura del testo, all’inizio degli anni Settanta: sia la metaforologia (la macchina per scrivere), sia lo stato di parziale, indecoroso abbandono che vi intravediamo, ci riportano di colpo dentro una stagione che ora avvertiamo lontana:
Quanto più ci si avvicina all’oggetto del desiderio, tanto più questo diventa di marmo o di bronzo, mentre i profili leggendari dei nativi si spargono all’intorno come monete animate sfuggite da qualche vaso di terracotta infranto. È come se qui il tempo mettesse, tra lenzuola e materasso, la sua carta carbone – perché il tempo conia nella stessa misura in cui si batte a macchina […] Si entra nel Foro Traiano con la sua colonna del trionfo avviluppata strettamente dai Daci sottomessi e svettante come un albero maestro sopra il marmoreo banco di ghiaccio in sospensione – colonne spezzate, capitelli, cornici. Oggi qui regnano i gatti randagi, piccoli leoni in questa città di piccoli cristiani. Le enormi lastre bianche e i blocchi sono troppo ingombranti e disposti a casaccio per poterli sistemare in un’apparenza di ordine o per trascinarli via. Sono lasciati qui ad assorbire il sole, o a rappresentare l’«antichità». E in un certo senso lo fanno; le loro forme male assortite sono una democrazia, questo luogo è ancora un foro.
2. Ripartiamo da qui. Nel momento in cui un affermato scrittore, esule da Mosca, entra per la prima volta nella inquadratura della statua equestre di Marco Aurelio a Roma, accade (e poco importa che ciò sia smentito o rovesciato dalla catena delle dichiarazioni contestuali) qualcosa che ci ricorda quel dispositivo di origine teatrale – psicologico-cognitivo, diremmo oggi – che Aristotele chiama anagnórisis, “riconoscimento”, e che trova nell’Edipo sofocleo il suo paradigma: passare «dall’ignoranza alla conoscenza», con le conseguenze che sappiamo. Qui non si tratta certo di sciogliere un intreccio, e comunque Brodskij sapeva già dell’esistenza della statua capitolina anche prima di vederla. Che razza di riconoscimento possiamo attribuire, allora, al meccanismo del racconto che abbiamo davanti? Brodskij, nel descrivere la propria esperienza davanti al fantasma di Marco Aurelio a cavallo – esperienza ben diversa da quella consumata, per esempio, durante la lettura dei Pensieri –, sembra trasmetterci nella propria visione da scrittore una nuova possibilità morfologica, classificatoria, nella mappa rappresentativa dell’Antico. Cominciando dal rammarico per l’aura che l’andare a cavallo, non solo l’essere ritratti a cavallo, conferiva ai potenti, e che adesso è irrimediabilmente spenta a causa del succedaneo automobilistico.
Queste moderne lacrimae rerum hanno l’effetto di farci desiderare un’immediata salita al Campidoglio, anche se non sarebbe più possibile l’impatto emotivo della prima volta; e comunque Brodskij in questo modo ci tiene prudentemente lontani dall’immaginario kitsch dei film sull’antica Roma, proiettandoci invece nel ben più astratto diorama delle grandi statue a cavallo imperiali – Giulio Cesare, Augusto, Domiziano, Traiano –, dalle quali discende il Marco Aurelio salvatosi “per miracolo” dal naufragio dei bronzi nel Medioevo e divenuto a sua volta modello per Donatello, per Pietro Tacca e gli altri grandi scultori equestri venuti dopo.
Se una forma di riconoscimento dell’Antico – che pure era già in incubazione e di cui il Marco capitolino è tuttora una delle più potenti sineddochi – è avvenuta in Brodskij, è perché questo incontro deve avergli rivelato qualcosa di decisivo. Utilizzando le vecchie categorie di Newman potremmo dire che l’esperienza di Roma sembra avergli concesso il passaggio dall’assenso nozionale (puramente intellettuale) a quello reale, con tutta la tavolozza di emozioni e di atteggiamenti che questa transizione porta con sé.
3. Grazie al più o meno esplicito corredo teorico (unidirezionalità e impenetrabilità del Classico, auctoritas e fascino struggente delle sue forme) e alla visionaria torsione temporale a cui sottopone il lettore e la sua idea di Roma imperiale, il singolare racconto di Brodskij può rivelarsi utile per illuminare dall’esterno la scena entro cui si muovono, più o meno apertamente, i saggi e gli articoli raccolti nella prima parte di questo libro.
Essi con diverse gradazioni affrontano alcuni aspetti della cultura romana e della sua fortuna moderna, soprattutto a partire dalla tradizione degli studi, e configurano perciò nel loro insieme un tipo di relazione con l’«antichità» – avalliamo il termine di Brodskij – alternativa se non opposta a quella appunto emozionale, provocatoria e in fondo poetica testimoniata dal suo testo. Naturalmente non è questione solo di linguaggi o di temperatura stilistica, né – è giusto precisare – la sensibilità e l’immaginazione dello scrittore russo devono essere valutate in modo riduttivo (come detto, occorre fare continuamente attenzione alla strategia retorica che intende depistare o disorientare i lettori). Il punto dirimente, o almeno quello che ci interessa, mi sembra però un altro: esso riguarda quella che potremmo chiamare “rappresentazione del Classico”.
Prima di affrontarla, sia pure nella brutale concisione che conviene a questo testo a carattere propedeutico, devo prevenire una legittima (e scontata) obiezione terminologica. “Antichità” e “Classico” vengono utilizzati qui alla stregua di concetti intercambiabili: non lo sono affatto, il che appare persino ovvio. Il loro impiego indifferenziato andrà inteso perciò in senso sufficientemente largo; come larghe sono le riflessioni che partono fuori quadro, cioè dall’outsider Brodskij, a introdurre la lettura di queste pagine provocate da altre pagine sul Classico. Si confida giusto nelle opportune integrazioni e distinzioni che i lettori più avvertiti saranno in grado, da soli, di fare caso per caso.
Il Classico come archivio e fonte dell’immaginario moderno e contemporaneo. Ecco un primo orientamento generale di lettura per il presente libro, una freccia concettuale cui dà figura il saggismo «metafisico» – lo ha definito qualcuno – di Josif Brodskij: eppure non è tanto il carattere ontologico del Classico che ci interessa qui – quello affrontato per esempio da T.S. Eliot – ma, piuttosto, il suo modo di manifestarsi nelle diverse forme linguistiche che consapevolmente o meno esprimono i nostri comportamenti culturali, le nostre rappresentazioni del mondo. L’idea stessa di Classico è già una rappresentazione.
Credo che sia possibile distinguere – ripeto – in estrema sintesi, tra due diverse cornici descrittive. Tutte e due idealmente fanno riferimento a quella struttura di connessione sociale che l’egittologo Jan Assmann, e altri tra i quali Aleida Assmann, hanno chiamato con formula tanto semplice quanto efficace «memoria culturale», cioè quell’insieme strutturato dei regesti, dei protocolli e dei meccanismi che regolano la trasmissione e il funzionamento sociale della tradizione. Collocato in questa scala prospettica, il Classico è come una Magna charta delle civiltà che chiamiamo occidentali, un riconosciuto e rielaborato atto fondativo – certamente non l’unico – dal quale discendono una concezione del patrimonio storico vigente (il passato, cioè, continua a operare nel presente) e una piattaforma di valori esemplari, vincolanti per la definizione dell’identità: «Noi siamo ciò che ricordiamo», secondo un fortunato slogan-Assmann.
Poiché in quel preciso passato ci riconosciamo culturalmente ma anche “biologicamente”, la sua influenza su di noi viene esercitata soprattutto in senso paradigmatico, attraverso serie di modelli con i quali siamo chiamati a confrontarci per comprendere natura e origine dei nostri connotati istituzionali (concetti come democrazia o estetica o filosofia reclamano di continuo i loro antecedenti greci). In questo genere di rappresentazioni – che naturalmente si traducono in una molto ampia gamma di valori sociali prima che di individuali atteggiamenti e luoghi mentali – la coscienza operativa del Classico può giocare ruoli differenti, quando non dialettici.
Non sarebbe possibile, se non a costo di inevitabili forzature, ricalcare o rifunzionalizzare ai nostri scopi la tassonomia teorica degli Assmann (penso in particolare alla coppia strategica «memoria-archivio/memoria funzionale»); sarà sufficiente al nostro scopo tracciare uno schema morfologico che, come anticipato, prevede due tipi di cornice o modelli di memoria culturale, strutturalmente collegati l’uno all’altro, che possono assumere di volta in volta differenti figure di relazione reciproca: ora in palese opposizione, ora disponendosi in un rapporto di primo piano/sfondo.
Nella prima cornice il Classico è il grande archivio-contenitore di cui si conoscono per tradizione gli oggetti, le testimonianze superstiti (dall’età di Omero a Bisanzio), la familiare persistenza tra noi; ma poi, in realtà, si ignorano i termini interpretativi che lo costituiscono: come si è passati alla organizzazione di una funzione-archivio? come esso è arrivato così fino a noi? secondo quali modalità ha influenzato e influenza il nostro immaginario? chi ha formato il canone? e così via. Sarebbe un po’ come credere che gli uomini vissuti nel Rinascimento pensassero a loro stessi come a dei rinascimentali. C’è una disinvoltura diffusa a entrare nel Classico allo stesso modo degli attori di un reality show televisivo (secondo la cui convenzione retorica sarebbe sufficiente “restare se stessi”): essi varcano il recinto del set senza attivare alcun genere di mediazione.
Un primo effetto di questa credulità culturale, che finisce per affollare l’orizzonte di ingombranti ipostatizzazioni, è lo schiacciamento prospettico. Tutti i rappresentanti di quello che chiamiamo Classico (testi, statue, memorie, rovine, siti archeologici) vanno ad abitare in una remota regione dagli indistinti confini temporali: i loro indizi e lacerti sono costantemente sotto i nostri occhi, ma appaiono troppo «confusi» e «a casaccio» – afferma il finto-turista Brodskij in visita alla Città eterna – per tentare di distinguere, di mettere in scala.
La questione è tutt’altro che trascurabile. Anche chi sia provvisto di un buon fondamento scolastico o di una educazione classica, che dovrebbero evitargli almeno di cadere in imbarazzanti anacronismi, tende a pensare il Classico come qualcosa di definito e sistemato “una volta per sempre”. Non sono morte le lingue nelle quali si esprimevano gli antichi? Non sono state inventariate e musealizzate – salvo qualche sensazionale nuovo ritrovamento – le testimonianze materiali della loro esistenza storica? Un grande patrimonio ormai immodificabile. Tutt’al più sarà compito degli specialisti fornire ricostruzioni sempre un po’ più esatte, così come i filologi lachmanniani, studiando scientificamente gli errori di trasmissione nei manoscritti, aspiravano a fissare la versione di testo meno distante dal perduto originale di Manilio o di Lucrezio.
4. Ma il Classico non è soltanto una eloquente e familiare fotografia del nostro passato remoto, che come uno scheletro conservato nel museo paleontologico sia in grado di dirci, in qualsiasi momento, “da dove” veniamo e chi siano i nostri antenati.
Esiste un altro modello di rappresentazione, assai più articolato e prospettico, nel quale la memoria è concepita come corredo funzi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR Rizzoli
  3. Frontespizio