Il circolo Pickwick
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Il circolo Pickwick

  1. 1,024 pagine
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Il circolo Pickwick

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Il curioso ed eccentrico signor Pickwick, e il suo "doppio", il saggio e malizioso servitore Sam Weller, intraprendono un viaggio per l'Inghilterra di inizio Ottocento a caccia di curiosità di costumi. Ad accompagnarlo tre strampalati compagni: un aspirante donnaiolo, un poeta sognatore e un cacciatore dilettante, in un alternarsi di esilaranti incontri con ciarlatani, seduttori, osti e ubriaconi, e drammatiche discese nelle tenebre della miseria e della violenza, tra genitori prepotenti e bambini maltrattati, carcerati e secondini. Una fitta schiera di personaggi bizzarri alle prese con affascinanti e picaresche peripezie danno vita al più mirabile affresco della società vittoriana in uno shakespeariano chiaroscuro di comico e follia, riso e malinconia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858618691
Argomento
Literature
Categoria
Classics
VOLUME SECONDO

CAPITOLO VENTINOVESIMO

STORIA DEI FOLLETTI CHE SI PORTARONO VIA UN BECCHINO
«Tanti e tanti anni fa, ma tanti che questa storia dev’essere vera perché fino i nostri bisnonni implicitamente vi credevano, nell’abbazia di una vecchia città di queste parti, faceva da sagrestano e da becchino del cimitero un certo Gabriele Grub. Non è affatto vero che un tale, perché fa il becchino ed è costantemente circondato dagli emblemi della mortalità, debba di conseguenza aver carattere triste e malinconico. Si sappia infatti che i nostri impresari di pompe funebri sono i tipi più ameni che vi siano al mondo, e proprio a me toccò una volta l’onore di essere grande amico di uno di costoro che, nella vita privata e nelle ore di libertà, era l’ometto più comico ed allegro che mai abbia intonato spensierate canzoni senza dimenticarne nemmeno una parola, o che abbia mai tracannato un bel bicchiere pieno senza tirare il fiato. Ma, ad onta di questi esempi in senso inverso, Gabriele Grub era scontroso, arcigno e antipatico; un uomo solitario e litigioso che, tranne con se stesso e con una vecchia borraccia cacciata in permanenza nell’ampia tasca del panciotto, non andava d’accordo con nessuno, e guardava tutte le facce liete che incontrava per via con un tale cipiglio bisbetico e scostante, che era difficile incontrarlo senza restarne disturbati.
«Poco prima di sera, una vigilia di Natale, Gabriele pose la vanga in spalla, accese la lanterna e s’incamminò verso il vecchio cimitero, perché aveva una tomba da scavare per l’indomani e sperava, sentendosi depresso, di rialzare il morale mettendosi subito al lavoro. Per strada, lungo l’antico sentiero del villaggio, poteva scorgere le fiamme dei camini, dalle finestre delle vecchie case, e udire le risate e le gioconde grida di coloro che vi stavano seduti attorno, e osservare i gai preparativi per la festa dell’indomani, e annusare i gustosi odori di vivande che, come nubi profumate, esalavano dalle cucine. Tutto ciò era fiele e veleno, al cuore di Gabriele Grub e, quando gruppi di fanciulli discendevano dalle soglie, traversavano la strada saltellando e, prima ancora di bussare all’uscio dirimpetto, venivano accolti da una mezza dozzina di piccoli furfanti ricciuti che si affollavano intorno a loro, e tutti insieme salivano le scale per passare la serata in giochi natalizi, Gabriele sorrideva biecamente e stringeva più forte il manico della vanga, fantasticando di morbilli, scarlattine, difteriti, tossi cavalline e molte altre fonti di consolazione dello stesso tipo.
«In questa bella disposizione d’animo, Gabriele tirava innanzi, rispondendo con un breve, tetro grugnito ai lieti auguri dei vicini che, di tanto in tanto, incontrava, finché svoltò nel buio viottolo che menava al camposanto. Sia detto di passata che Gabriele non vedeva l’ora di giungere a questo buio viottolo, poiché si trattava di un bel posticino lugubre e sinistro, dove la gente del paese non si recava volentieri, tranne di giorno e quando c’era il sole. Di conseguenza, viva fu l’indignazione che provò all’udire un ragazzo che cantava a squarciagola un giocondo ritornello natalizio proprio in quel luogo, chiamato Sentiero delle Bare fino dai tempi dell’antica abbazia e dei frati tonsurati. Come Gabriele procedeva, e facendosi quella voce sempre più vicina, il becchino si accorse che autore ne era un monello che correva a raggiungere i compagni verso la strada del villaggio. Per farsi compagnia in parte, e in parte per prepararsi all’occasione, costui strillava quel ritornello a pieni polmoni. Così Gabriele attese che il fanciullo gli arrivasse a portata di mano, poi lo spinse in un angolo e gli sbatté cinque o sei volte la lanterna in testa, per insegnargli a modulare la voce. E, mentre quello fuggiva via in tutta fretta, tenendosi il capo fra le mani e cantando una canzone di altro genere, Gabriele Grub rise fra sé di cuore ed entrò nel cimitero, richiudendo la porta alle spalle.
«Si tolse la giacca, pose a terra la lanterna e, sceso nella fossa già a metà scavata, vi lavorò per un paio d’ore con gran lena. Ma la terra era indurita dal gelo, difficile a rompersi ed a spalarsi fuori, e la luna, nuova e sottile, gettava poca luce sulla tomba, che si trovava all’ombra della chiesa. In qualsiasi altro momento, tali ostacoli avrebbero reso ancor più cupo ed acido Gabriele Grub, ma quella sera si sentiva così felice di aver interrotto il canto del fanciullo che, in luogo di prendersela per il lento progredire del lavoro, quando ebbe finito per quella notte, si limitò a guardare nel fondo della fossa, con sinistra soddisfazione, canticchiando, mentre raccoglieva i suoi strumenti:
«Camera a un letto, camera a un letto, due metri di terra, giaciglio perfetto; pietra alla testa, pietra sui piedi, i vermi ti mangiano e non te ne avvedi; erba sul capo, fango all’interno, letto ideale per starci in eterno».
«“Ah, ah!”, rise Gabriele Grub, sedendo su una lapide che era il suo luogo favorito di riposo e tirando fuori la borraccia. “Una bara a Natale! Una scatoletta natalizia! Ah, ah, ah!”.
«“Ah, ah, ah!”, rispose una voce, dietro a lui.
«Gabriele tacque, allarmato, nell’atto di portarsi la borraccia alle labbra, e si guardò intorno. La cripta della più antica tomba, fra quante ve ne erano lì presso, non avrebbe potuto essere più silenziosa e immobile del camposanto, sotto la pallida luce lunare. La brina scintillava sui marmi e splendeva come collane di gemme sulle pietre intagliate della vecchia chiesa. Al suolo, la neve era soda e friabile, stendendo sui monticelli di terra allineati e fitti l’uno accanto all’altro un tappeto così candido e liscio da sembrare che le salme giacessero là, coperte appena dai loro sudari. Non il più lieve rumore turbava la profonda quiete di quella scena solenne: pareva quasi che lo stesso suono si fosse raggelato, tanto ogni cosa era fredda ed immota.
«“Era l’eco”, disse Gabriele Grub, portando di nuovo alle labbra la borraccia.
«“Non era l’eco”, dichiarò una voce profonda.
«Gabriele balzò in piedi, ma rimase inchiodato dov’era dallo stupore e dal terrore, poiché il suo sguardo si era posato su un’apparizione che gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene.
«Accanto a lui, seduta su una lapide verticalmente infissa per terra, stava una bizzarra creatura soprannaturale, e Gabriele capì subito che un essere simile non apparteneva al mondo dei vivi. Le gambe, così fantasticamente lunghe che avrebbero potuto toccar terra, erano raccolte in su e attorcigliate l’una all’altra in guisa stramba, grottesca addirittura; nude le braccia muscolose, e le mani posate sui ginocchi. Il corpo breve e sferico indossava un giubbetto attillato, adorno di piccoli fronzoli; il colletto, bizzarramente frastagliato, teneva luogo di sciarpa e cravatta, e le scarpe si arricciavano alla cima in lunghissime punte. Col suo cappello ricoperto di candida brina, il folletto pareva essere rimasto comodamente assiso sulla lapide da due o tre secoli. Stava perfettamente fermo, ma con la lingua fuori, come a deridere, rivolgendo a Gabriele Grub uno di quei sogghigni di cui solo i folletti sono capaci.
«“Non era l’eco”, ripeté il folletto.
«Gabriele Grub, pietrificato, non riuscì a rispondere.
«“Cosa fai, qui, la vigilia di Natale?”, domandò il folletto, con severità.
«“Sono venuto a scavare una fossa, signore”, balbettò Gabriele Grub.
«“Chi mai osa vagare fra le tombe dei cimiteri, in una notte come questa?”, gridò il folletto.
«“Gabriele Grub, Gabriele Grub!”, rispose un coro selvaggio di voci, che parve riempire il camposanto. Gabriele si volse attorno, spaventato, ma non riuscì a scorgere nulla.
«“Che cos’hai, in quella bottiglia?”, chiese il folletto.
«“Rum, signore”, spiegò il becchino, tremando più che mai, perché l’aveva comprato dai contrabbandieri e temeva che, forse, chi lo interrogava appartenesse al reparto dogana dei folletti.
«“Chi osa bere del rum da solo, in un cimitero e in una notte come questa?”, soggiunse il folletto.
«“Gabriele Grub, Gabriele Grub!”, ripeterono le voci.
«Il folletto allora sorrise maliziosamente al becchino inorridito, poi, alzando la voce, esclamò:
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«“E chi, dunque, sarà nostra giusta e legittima preda?”.
«A questa domanda, le voci invisibili risposero con uno strepito che sembrava quello di un gran coro che cantasse sull’onda sonora dell’antico organo della chiesa; un urlo che parve giungere alle orecchie del becchino sulle ali di un vento furioso e dileguarsi in lontananza, ma la risposta era sempre la stessa: “Gabriele Grub, Gabriele Grub!”.
«Il folletto allargò la bocca in un ghigno più largo di prima e chiese: “E dunque, Gabriele, cos’hai da rispondere?”.
«Il becchino si senti mancare il fiato.
«“Che cosa ne pensi, Gabriele?”, disse il folletto, scalciando coi piedi per aria da una parte e dall’altra della lapide e guardandosi le punte arricciate delle scarpe con compiacimento, quasi stesse ammirando il più bel paio di calzature esposte nella vetrina di Wellington in Bond Street.
«“Penso… penso che sia… una storia assai curiosa, signore”, rispose il becchino, mezzo morto dalla paura; “molto curiosa e assai simpatica, ma, se permette, vorrei rimettermi a finire il mio lavoro”.
«“Lavoro!”, ripeté il folletto. “Che lavoro?”.
«“La tomba, signore: debbo scavare la tomba”, balbettò il becchino.
«“Oh, la tomba, eh?”, disse il folletto; “chi è che scava le tombe, quando ogni altro uomo è lieto, e ci gode a farlo?”.
«Di nuovo le voci misteriose risposero: “Gabriele Grub, Gabriele Grub!”.
«“Temo, mio caro Gabriele, che i miei amici ti desiderino”, proseguì il folletto, spingendo più di prima la lingua sulla guancia, ed era una lingua davvero sorprendente, “temo proprio che ti vogliano, Gabriele”, concluse il folletto.
«“Prego, signore”, mormorò atterrito il becchino, “credo che si sbagli, non possono volermi, non mi conoscono, non credo che neppure mi abbiano mai visto”.
«“Oh, sì che ti hanno visto”, affermò il folletto. “Noi conosciamo bene l’uomo dal viso ingrugnito e dal truce cipiglio che stasera è passato per via guardando i fanciulli di traverso e stringendo più forte fra le dita la vanga. Conosciamo chi ha battuto il ragazzo perché, nel fondo del cuore, ne provava invidia, vedendo in lui quell’allegria che egli non può provare. Lo conosciamo, lo conosciamo”.
«A questo punto il folletto proruppe in un riso stridente che l’eco rimandò centuplicato e, gettate per aria le gambe, si mise ritto sulla testa, o piuttosto sul cocuzzolo del suo cappello a pan di zucchero, proprio in cima alla lapide tombale su cui si era seduto; da qui, con straordinaria agilità, spiccò una capriola cadendo proprio ai piedi del becchino, dove ristette in quella posa solita ai sarti, quando stanno a cucire innanzi al banco di lavoro.
«“Credo, credo… di dovermene andar via, signore”, bisbigliò il becchino, sforzandosi a muoversi.
«“Andare?”, rimbeccò il folletto, “Gabriele Grub vuole andar via! Ah, ah, ah!”.
«Mentre il folletto rideva a questo modo, Gabriele Grub notò, per un attimo, un vivido chiarore dietro alle vetrate della chiesa, come se tutto l’edificio si fosse illuminato; poi il chiarore scomparve, l’organo intonò un’aria vivace, e frotte intere di folletti, perfettamente identici al primo che era apparso, cominciarono a fare “alla bella Teresina” sui sepolcri, senza fermarsi mai neppure un attimo per tirare il fiato, ma anzi scegliendo apposta quelli più alti, uno dopo l’altro, con destrezza straordinaria. Il primo folletto era il saltatore più fenomenale, nessuno poteva stargli a pari, e il becchino, sebbene al colmo del terrore, non seppe fare a meno di osservare come, mentre gli altri compagni si limitavano alle lapidi normali, costui si cimentasse perfino con le tombe di famiglia, ivi comprese le cancellate e tutto il resto, e con tale disinvoltura, come se si fosse trattato di paracarri puri e semplici.
«Il gioco giunse infine al culmine della frenesia: il ritmo dell’organo si faceva sempre più febbrile, e sempre più veloci balzavano i folletti, raggomitolandosi su se stessi, scattando in capriole, volando sulle lapidi come palle da calcio. Con la stessa velocità di quella sarabanda, il capo del becchino roteava, le gambe gli si afflosciavano, a vederseli guizzare sotto il naso; a un tratto, infine, il re dei folletti gli fu addosso con un guizzo, lo afferrò per il colletto e sprofondò sottoterra insieme a lui.
«Quando Gabriele Grub fu in grado di riprendere il fiato, che la precipitosa caduta gli aveva mozzato in gola, si trovò in una vasta caverna, circondato da ogni parte da schiere di folletti sinistri e mostruosi; al centro di essa, su di un alto seggio, stava l’amico del cimitero, e proprio accanto a lui si trovava Gabriele Grub in persona, paralizzato dallo spavento.
«“Freddo, stasera”, disse il re dei folletti, “molto freddo. Un bicchiere con qualcosa di caldo, qui, subito!”.
«A questo comando, mezza dozzina di ossequiosi folletti, con il volto soffuso da un perpetuo sorriso, per cui Gabriele Grub li giudicò dei cortigiani, scomparvero in fretta per ritornare poco dopo con una tazza di fuoco liquido che porsero al re.
«“Ah”, gridò il folletto, “questo riscalda davvero! Portatene un’altra tazza per il signor Grub”.
«Lo sventurato protestò invano di non essere abituato a prendere bevande calde dopo cena; un folletto lo tenne fermo, mentre un altro gli versava nella gola il liquido infuocato, e tutti quanti proruppero in stridule risate mentre il becchino tossiva e soffocava, asciugandosi le lacrime copiose che gli sgorgavano dagli occhi, dopo avere ingerito quella miscela ardente.
«“E adesso”, scattò il re, cacciando con straordinaria fantasia la punta del cappello a pan di zucchero nell’occhio del becchino e procurandogli perciò il dolore più sottile, “e adesso mostriamo a quest’uomo tetro e cupo qualche quadro della nostra collezione”.
«Il folletto ebbe appena pronunziato queste parole, che una densa nube, da cui il fondo della caverna era oscurato, scivolò via pian piano, rivelando, apparentemente a grande distanza, un appartamento modesto e miseramente ammobiliato, ma in ordine e pulito. Un gruppo di bambini stavano raccolti intorno a un fuoco scoppiettante, attaccati alla gonna della madre o saltellanti attorno alla sua sedia. Di tanto in tanto la madre si levava per scostare la tenda della finestra, come per cercare fuori qualcuno di cui fosse in attesa; una mensa frugale era apparecchiata sulla tavola e una poltrona stava collocata accanto al fuoco. Si udiva bussare alla porta, la madre ap...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Apparati
  6. Guida bibliografica
  7. Personaggi
  8. Verbali postumi del circolo Pickwick
  9. Volume primo
  10. Volume secondo