Campania infelix
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Campania infelix

  1. 224 pagine
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Informazioni sul libro

All'ombra del Vesuvio, in una regione che da Napoli a Caserta conta centinaia di comuni e milioni di abitanti, campi e pascoli cedono il passo a cumuli di spazzatura, scarti tossici, ammassi di amianto, residui industriali intombati da vent'anni e discariche abusive a cielo aperto, che vengono date alle fi amme al tramonto. E in quella che è stata una delle terre più fertili d'Italia la percentuale di casi di tumore è il doppio di quella nazionale. Dietro questa incredibile e cronica emergenza, la mano della camorra, i cui clan gestiscono il fruttuoso business dello smaltimento dei rifi uti. Ma, tra le inadempienze degli amministratori pubblici, le promesse non mantenute dei politici, l'ipocrisia delle regioni del Nord, la rabbia e la frustrazione della popolazione locale, colpe e responsabilità appaiono una matassa diffi cile da districare. Nell'ostinato viaggio che porta Bernardo Iovene attraverso la sua Campania natale alla ricerca dei molti perché e delle implicazioni di un problema che ha rubato la dignità a un intero Paese, la crisi della "monnezza" si rivela la punta dell'iceberg di una catastrofe ambientale generale e annunciata, che è anche specchio e causa di una dolorosa catastrofe sociale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858607084
Categoria
Sociology

1
Il triangolo della morte

La terra dei veleni

La città di Marigliano raggiunge da un lato le pendici del monte Somma Vesuvio, dall’altra le montagne di Avella, attraverso la piana ai confini di Nola e Acerra. Ha trentaduemila abitanti e il 50 per cento del suo territorio è utilizzato per l’agricoltura: quasi tutte le famiglie che abitano questi luoghi hanno origini contadine.
Nunzia Lombardi ha vissuto direttamente le stranezze che accadevano di notte nella campagne attorno alla città.
Nel 2004 un articolo pubblicato sulla rivista scientifica «The Lancet Oncology» definiva l’area tra i comuni di Nola, Acerra e Marigliano «triangolo della morte». L’autore, Alfredo Mazza, un ricercatore dell’Unità fisiologica clinica del Cnr di Pisa, aveva evidenziato l’alta incidenza di malattie tumorali, correlandola alla presenza di discariche illegali di rifiuti tossici disseminate sul territorio. Non si poteva più star fermi e lasciarsi massacrare: era giunto il momento di fare qualcosa.
Insieme ad alcuni amici Nunzia si fece promotrice di un comitato: attaccarono ai muri manifesti per invitare la popolazione a riflettere e ad agire. «Speravamo di riuscire, sulla scia della denuncia lanciata dal ricercatore, a coinvolgere quante più persone possibile e a iniziare con loro una battaglia.» Sui manifesti c’era un invito a incontrarsi in piazza il 30 settembre del 2004. Quella sera, in molti risposero all’appello e aderirono alla costituzione del Comitato per la tutela del diritto alla salute. Un nome – spiega Nunzia – forse un po’ troppo lungo e complesso, ma utile per ribadire un concetto: la questione ambientale è un elemento irrinunciabile per la vita della persone e per la salute delle popolazioni.
Nunzia è una combattente. Seguirla significa entrare in un mondo fatto di discariche, balle di rifiuti, acque avvelenate, terre contaminate, cisterne interrate, denunce, presidi, notti insonni a vegliare i campi.
Gli appuntamenti con lei sono sempre all’uscita o all’entrata di uno svincolo dell’asse mediano. Il problema è che le indicazioni su queste strade sono un optional, a volte ci sono e altre no, e allora è sempre lei a raggiungerti dove ti sei perso.
Con Nunzia si macinano chilometri. Ti porta in terreni in cui si coltiva l’insalata, e ti dice che sotto ci sono pozzi inquinati. Ti porta nei campi di patate, e ti racconta che in quella terra sono stati ritrovati fusti di solventi. Ti porta a vedere l’inferno, l’indifferenza della gente e nonostante tutto continua a credere che la battaglia che sta combattendo non sia affatto persa.
Nunzia non si rassegna alla bruttezza, è determinata a cambiare quello che la circonda. Secondo lei si tratta semplicemente di «buon senso, niente di più». A Marigliano i giovani vivono nella rassegnazione o nella speranza di poter andare via. Nunzia ha trent’anni e vuole ostinatamente restare. «Nel tempo ho visto cambiare la mia città, e soprattutto le campagne appena fuori dal centro abitato.»
Una lenta metamorfosi catastrofica: da Campania felix a terra dei veleni.

Voci di popolo

In città, si raccontava di strani movimenti notturni, di strani cumuli tra i campi. Ma i racconti rimanevano tali, «voci di popolo». Nessuno denunciava quello che aveva visto, soprattutto perché, nei pochi casi in cui erano stati vinti paura e limiti personali, ci si era trovati di fronte a una burocrazia scarsamente collaborativa, diffidente e incapace di comprendere il dramma. Per denunciare ci volevano i nomi e le prove. In alcuni casi i contadini, nelle cui terre erano stati abbandonati clandestinamente pneumatici e balle di stracci, avevano dovuto pagare di tasca propria la rimozione dei rifiuti. Meglio non denunciare allora, meglio far finta di nulla e, se scaricano nella tua campagna rifiuti tossici, un cerino e una latta di benzina ti risparmiano dall’avere il terreno sequestrato e dal non poter più coltivare.
«Le leggende ascoltate da bambina erano tante, si raccontava di pozzi per l’irrigazione acquistati da persone che non erano del posto e pagati profumatamente per poi essere otturati e chiusi; si raccontava di appezzamenti dove venivano scavate grandi buche che il giorno dopo venivano riempite. Ho sentito anche di interi camion scomparsi sotto terra, seppelliti per far sparire le prove oltre i rifiuti che contenevano. Si raccontava di acque gialle e schiumose, di sabbie blu, e di cumuli di terra fumanti.»
Con il tempo le tecniche utilizzate dai criminali coinvolti nello sversamento abusivo di rifiuti sono cambiate, si sono affinate. Infatti negli anni Settanta si preferiva acquistare i terreni dove «tombare» i rifiuti. Ma con il tempo, quando le discariche dei rifiuti tossici venivano scoperte, si risaliva al responsabile semplicemente individuando il nome del proprietario del terreno. Proprio per questo, la tecnica adottata si era rivelata poco astuta, seppure la prescrizione dei reati spesso non permettesse di arrestare o far pagare alla persona colpevole. Succedeva la stessa cosa con i pozzi artesiani da cui solitamente si attinge acqua per irrigare i campi; pozzi che da queste parti hanno diametri anche di un metro. Dopo l’acquisto, venivano anch’essi riempiti con fusti, quasi sempre dello stesso diametro. Inquinando irreparabilmente l’acqua.
Così i trafficanti di rifiuti preferirono usare come discariche i terreni demaniali, i cantieri per le opere pubbliche, le strade provinciali, i canali dei Regi Lagni.
Insomma, tra mito e realtà le storie sentite erano tante, storie fantascientifiche di cui nessuno sembrava in grado di individuare con precisione i luoghi, o di denunciare apertamente quello che stava accadendo. Tutti avevano sentito dire, ma nessuno aveva visto nulla. «Nessuno si chiedeva veramente a cosa servissero quelle buche, nessuno si preoccupava di cosa potessero causare quelle acque schiumose e gialle, o quei fumi che improvvisamente salivano dalla terra. Nessuno provava a chiedersi chi poteva guadagnare sull’interramento di un intero camion. Si continuava a vivere come se nulla fosse. Ci sono luoghi» ribadisce Nunzia «in cui non è necessario che qualcuno ti minacci per non farti parlare. Sai talmente bene che è inutile, che le istituzioni già sanno e lasciano correre e che alla fine ti troverai a combattere solo, che sarai schiacciato. Quando in un popolo si instaura un sentimento così, non si tratta più di voler denunciare e non avere la forza di farlo. Semplicemente, non ci pensi. Per questo la prima battaglia da vincere è contro la propria rassegnazione. Ma a volte accadono cose talmente gravi da superare quella soglia di sopportabilità quotidiana. Quando vedi morire i tuoi cari, quando li vedi consumarsi poco a poco, e capisci che non si tratta di un caso, di una fatalità. Allora dentro si sveglia qualcosa di più forte della rassegnazione.»

«Fermentare l’umanità»

Il comitato fondato a Marigliano da Nunzia è composto da un gruppo di persone, per lo più oltre i cinquant’anni, alcune delle quali in pensione. «Sono cittadini» dice Nunzia «che hanno smesso di stare alla finestra e, non avendo più nulla da perdere, hanno deciso di combattere.» La prima cosa da combattere, ribadisce, è la rassegnazione. Vinta quella, si possono portare avanti le battaglie, anche con la consapevolezza di poter perdere, di non essere capiti dal resto della popolazione. Youssef, un architetto di origini iraniane, attivo nel comitato di Acerra, disse una volta che gli uomini e le donne che si battevano per le cause comuni dovevano «fermentare l’umanità».
In realtà associazioni come questa non hanno un percorso facile. Le prime fasi di lavoro del comitato di Marigliano sono state difficili: non si capiva bene di chi fossero le responsabilità, come individuarle, come portare avanti strategie di risposta agli attacchi al territorio, a quelli della camorra e a quelli dovuti alle scelte affrettate della struttura commissariale. Poi il percorso è diventato più semplice, e man mano che gli obiettivi si alzavano e che le responsabilità si chiarivano, le persone che facevano parte del gruppo iniziale si sono defilate. Alcuni per scarso interesse, altri per paura di pestare i piedi a qualche «potente», altri per la lentezza dei risultati. «Dopo aver inviato le prime lettere e le richieste di informazioni a enti pubblici, Asl e autorità locali, ci trovammo davanti a un sistema di silenzi, dettati dalla paura, dall’omertà o da vera e propria collusione. Il terreno su cui agivano i trafficanti di rifiuti. Non si scherzava più, le voci di popolo erano sempre più verosimili, reali.»

Finalmente qualcuno denuncia

Un giorno un contadino, Raffaele, dichiarò di essere stato testimone di uno sversamento illegale. Di notte aveva visto strani movimenti in piena campagna: mezzi pesanti stavano scaricando qualcosa a fari spenti. Il mattino dopo trovò la terra sprofondata di un metro, dalle crepe usciva fumo e un odore nauseante. Il vecchio contadino andò alla stazione dei carabinieri per segnalare il fatto, e li convinse ad andare sul posto.
In caserma, però, fu invitato più volte a lasciar perdere, a interessarsi degli affari propri, gli furono ricordati continuamente i rischi a cui avrebbe esposto se stesso e la sua famiglia.
«Quando il vecchio contadino si è avvicinato al comitato» dice Nunzia «e ha raccontato cos’era successo quella notte di dieci anni prima, per me è stata una rivelazione. Finalmente mi trovavo di fronte qualcuno che aveva visto e che aveva denunciato, e che voleva continuare a farlo. Ci mettemmo immediatamente all’opera, iniziando a scrivere le prime denunce. Ma la lettera che inviammo alla procura era molto ingenua. Quando mi chiamarono in procura, ero entusiasta di poter finalmente collaborare con le autorità per individuare una discarica abusiva. Ma la polizia giudiziaria mi tenne due ore in una stanza sotto interrogatorio. Provarono a intimidirmi, pensando che anche io potessi essere una pedina di qualche disegno criminale. Quelle due ore furono un inferno: l’ingenuità e la buona fede si scontravano con la diffidenza di agenti abituati a lavorare con persone disoneste. Ero arrabbiata, delusa, umiliata. Sarei voluta sparire, avrei voluto rinnegare in un momento tutto quello che avevo fatto fino a quel punto. Avrei voluto trovare parole per spiegare loro le mie ragioni. Ma in quella stanza, sola con il mio avvocato e gli agenti, non bisognava spiegare i fatti, bisognava convincerli che io non ero una criminale, ma non trovavo gli argomenti giusti. Loro intanto incalzavano con le domande: come hai fatto la visura catastale per individuare la particella del terreno? Mostraci i documenti protocollati al comune delle tue richieste di accesso ai dati. Chi ti ha denunciato questi fatti? Visto che sei tanto brava, se ti mostriamo un posto sapresti poi individuarlo su una cartina catastale?
«Domande per me assurde: a che serviva portare i documenti che mostravano che io avevo chiesto di conoscere la particella catastale del terreno, se sapevo con assoluta certezza che lì sotto c’erano rifiuti tossici? Perché tenevano me sotto interrogatorio, invece di andare dai carabinieri, che avevano già umiliato il signor Raffaele al momento della sua denuncia? E intanto mi minacciavano di arresto per falsa testimonianza. Non avevo argomenti, né prove; la rabbia e la paura mi offuscavano la ragione. Mi sentivo piccola e impotente, così mi lasciai andare in un pianto liberatorio. Tra i singhiozzi tentai di raccontare la mia storia, la rabbia che provavo dentro, i tentativi che, con mille difficoltà, cercavamo di mettere in campo per difendere il nostro territorio. All’istante i loro volti cambiarono e dissero: “Potevi dircelo prima”.
«I poliziotti avevano creduto che anch’io potessi far parte del sistema che aveva permesso di smaltire illegalmente rifiuti in quel terreno e che adesso, insieme al proprietario, stessi cercando di estorcere una bonifica, a spese dello Stato, permettendogli di continuare a speculare su quel pezzo di terra.
«Qualche mese dopo, il 1° giugno dello stesso anno, al telegiornale passarono le immagini della discarica denunciata e finalmente scoperta in tutti i suoi orrori. Il procuratore di Nola, il dottor Federico Bisceglia, aveva dato seguito alle indagini e aveva permesso di effettuare gli scavi attraverso un carotaggio. La discarica, coperta da uno strato di terreno vegetale e da erbacce, era profonda sette metri, nei quali erano stati scaricati, a contatto diretto con la terra, rifiuti di vario genere, anche pericolosi. Intorno era stato costruito un muro. Negli anni successivi all’intombamento, vista la comodità del muro di cinta, qualcuno aveva scelto quel posto come ovile. Attraverso i carotaggi, vennero allo scoperto le sostanze che avevano sprigionato i miasmi sentiti da Raffaele dieci anni prima. Nonostante la scoperta e l’intervento della magistratura, i rifiuti ancora oggi sono lì. Nessuno li ha rimossi.

Malata d’ambiente

Anche Nunzia ha pagato il contatto con questi veleni. Nel 2001, a ventitré anni, la sua vita si è quasi fermata a causa di una malattia rara, di cui nessuno riuscì a individuare con precisione le cause. Depressione, genetica, inquinamento, rabbia: tante possibilità, nessuna certezza. «Ho dovuto rallentare gli studi e smettere con l’impegno politico. Ho passato tre anni in giro per ospedali a Avellino, Napoli e Bologna. Ho subito tre interventi chirurgici, ed ero legata a una flebo. Lunghe cure di cortisone, antibiotici, immunodepressori. Sono stata dichiarata invalida civile all’80 per cento per tutti i segni, i problemi e le infezioni subite in seguito agli interventi.
Dopo aver superato la fase più critica, la rabbia ha lasciato il posto alla ragione. Lucidamente, ho scelto il mio ruolo in questa terra: essere una spina nel fianco dei responsabili. Per me, ma anche per il codice penale, chi non effettua i controlli è colpevole quanto chi ha prodotto il disastro di questa terra. Mi rendo conto di ciò che rischio continuando a vivere qui, ma ho scelto di restare, voglio combattere.»
Nunzia ha aperto un blog dedicato esclusivamente a quanto accade in questi territori. Un diario per nulla personale, dove trovano spazio le denunce, le foto, i video, le proteste, le contraddizioni, ma anche le proposte per uscire dall’emergenza e risolvere il problema dei rifiuti in Campania.
«Il blog mi fa sentire meno sola, voglio che si sappia quello che accade nella mia terra. Dal balcone di casa vedevo dense colonne di fumo nero, alte, che lasciavano lunghi aloni nel cielo. Così cominciai a uscire con la macchina fotografica e la maschera antigas. Seguendo le colonne di fumo arrivavo direttamente alle discariche legali e illegali, e agli impianti di Cdr (Combustibile derivato dai rifiuti), dove si produce combustibile derivato dai rifiuti. Fotografavo questi roghi, ma poi delle foto non sapevo che farmene e allora ho pensato di postarle in un blog. Così mi sento più sicura. Un diario sul web serve a non rimanere isolata e a rischiare di meno, indagare in silenzio può essere pericoloso. Invece se scrivi e rendi pubbliche le cose che stai studiando è più complicato colpirti e farti tacere.
«Il lavoro del comitato non si è fermato solo a denunciare i luoghi già distrutti e compromessi dalle ecomafie. Abbiamo scoperto che alle Conferenze dei servizi – che si riuniscono per autorizzare nuovi insediamenti produttivi sul territorio e coinvolgono comune, provincia, regione, Asl e Arpac, oltre il gruppo imprenditoriale direttamente interessato – possono partecipare anche associazioni ambientaliste. Ma ogni amministrazione preferisce essere cauta evitando di esporsi troppo, lasciando che siano altri enti a dare pareri netti.
«Abbiamo imparato con la pratica cosa significa “concertazione”. Abbiamo partecipato dal di dentro, e abbiamo seguito l’iter di un’azienda che, proprio su un terreno agricolo di Marigliano, voleva insediare un opificio per il trattamento di rifiuti liquidi anche pericolosi.
«Nessun ente locale si voleva assumere la responsabilità di una chiara presa di posizione, perché aprire un’attività che impiega decine di persone è visto comunque come una risorsa per il territorio, anche nel caso di vistose incompatibilità ambientali. Ma grazie alla nostra presenza, il comune, la provincia e l’Asl hanno ratificato un secco “no”, nonostante i dirigenti della regione avessero tentato più volte di portare a casa un risultato positivo per l’azienda. Abbiamo vinto anche il ricorso al Tar. Per noi è stata la dimostrazione di come la presenza di associazioni, comitati e persone sensibili alle Conferenze dei servizi possano fare in modo che le istituzioni emettano pareri chiari senza nascondersi dietro ambiguità, semplicemente applicando la legge.»

Il polo industriale nato sui rifiuti

Su un’area al confine tra Marigliano, Nola e Acerra c’è il polo industriale di Boscofangone, dove sorge uno degli stabilimenti dell’Alenia, l’industria che progetta e realizza velivoli militari e civili.
A gennaio del 2008 dieci operai si sentirono male durante l’orario di lavoro. Accusavano problemi respiratori e disturbi dell’apparato digerente. Furono così trasportati all’ospedale di Nola. I medici avevano richiesto il ricovero per poter studiare e monitorare i sintomi, ma gli operai preferirono tornare al lavoro.
Sono anni ormai che in corrispondenza di bruschi cambi di temperature, dai terreni circostanti il polo industriale si sprigionano strane fumarole e miasmi mefitici. In quei terreni sono state scaricate e seppellite dai trafficanti di rifiuti scorie industriali di vario tipo. Quando questi cumuli cominciano a fumare emettono odori acri che generano lacrimazione, nausea, vomito. Gli operai hanno sempre denunciato la presenza dei rifiuti tossici abbandonati, che però non sono mai stati rimossi.
In quest’area si trova anche l’Asi (Area sviluppo industriale) di Nola. Qui i segni degli scarichi sono evidenti: in diversi lotti di terra non ancora edificati, i trafficanti di rifiuti hanno scaricato materiali industriali. Alcune aree sono ancora sotto sequestro, come per esempio una striscia di terra, a ridosso di un’azienda, coperta da un telo nero impermeabile. «Probabilmente ogni opera pubblica costruita in quest’area nasconde qualcosa di pericoloso» spiega Nunzia mentre, sotto le ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Sommario
  5. Introduzione
  6. 1: Il triangolo della morte
  7. 2: Il regno dei Casalesi
  8. 3: La bonifica: chi dovrebbe fare cosa
  9. 4: Eppur si muore