INTRODUZIONE
QUARANT’ANNI DI ERRORI
L’inizio italiano: 1967-1972
Nel 1967 una notizia di cronaca aveva richiamato l’attenzione sul «barcone del Tevere», un relitto stabilmente ancorato sulla riva del fiume che serviva come ritrovo a persone che d’estate cercavano un po’ di refrigerio contro la calura della città ascoltando musica e bevendo birra. Quella notte vi aveva fatto irruzione la polizia che aveva sequestrato droga e posto in stato di fermo alcuni che ne erano visibilmente consumatori.
La droga di tanto in tanto era citata dai giornali, ma fino ad allora il consumo riportava a qualche personaggio dell’«alta società» o a qualche rampollo di famiglia-bene. In quell’occasione a destare apprensione era il fatto che a drogarsi erano ragazzi «comuni» e in parecchi: un party a base di droga.
Fu la prima volta che si sentì anche il nome della nuova droga: marijuana.
A dire il vero, di droga di massa si era già parlato, ma il riferimento erano gli Stati Uniti, un Paese in cui si consumavano droghe e musica rock, spesso in un’abbinata che sembrava obbligatoria.
Gli Stati Uniti in quel periodo rappresentavano il laboratorio di una società che stava cambiando rapidamente costumi in una vera e propria metamorfosi.
Nella cronaca, del barcone sul Tevere si persero presto le tracce, come se si avvertisse il bisogno di cancellare un problema che sapeva di vizio e di degenerazione, che non doveva influenzare le nuove generazioni di italiani in subbuglio; e basterebbe aver presente cosa successe subito dopo nel Sessantotto per dare una precisa connotazione alla contestazione.
Bisogna ricordare che in Italia vigeva una legge che si occupava di droga e che era stata frettolosamente promulgata nel 1954 (la legge 1041) per aderire a un consiglio delle Nazioni Unite relativo al traffico di sostanze illecite. La legge affermava il principio del «comunque detenga»: chiunque detenesse e per qualsiasi motivo della droga compiva un reato che era punito con una carcerazione da tre a otto anni e con una pena pecuniaria, che allora era in milioni di lire, molto «salata». Il termine «droga» veniva chiarito e precisato in maniera molto empirica attraverso una tabella che elencava tutte le sostanze proibite. C’erano l’oppio e i suoi derivati, tra cui eroina e morfina, che in passato anche in Italia avevano segnato un abuso vasto, in particolare tra i medici; c’erano i derivati delle foglie di coca, la cocaina, e quelli che si ottenevano dalla canapa indiana, tra cui la marijuana.
Si sapeva di qualche consumatore isolato di questa o quella sostanza, ma mai fino alla notte del «barcone», si era avuta la consapevolezza chiara che anche nel nostro Paese se ne faceva un uso collettivo, in luoghi in cui ci si radunava per consumarla insieme, in una sorta di rito di massa. E fu proprio la dimensione il fatto nuovo emerso da quella cronaca di notti romane.
Come si è accennato, si cercò di non dare risalto alla questione, ma ad alcuni non sfuggì la circostanza che il barcone era popolato di giovanissimi e che essere in possesso di droghe – e non è possibile consumarle senza detenerle – comportava, in base alla logica della legge, di essere arrestati e incarcerati. Una realtà nuova rispetto alle notizie abituali che riportavano semmai di un consumatore non giovane, ma appunto un uomo «maturo». Inutile dire che per alcuni quel fatto non era altro che il segnale di un fenomeno che si stava diffondendo rapidamente; e la cosa portò a guardare all’America con maggiore attenzione di quanto non accadeva di solito, con la curiosità, derivante anche dal «gusto del proibito», per un Paese in cui si sperimentavano tutte le virtù e i vizi della terra.
Nel campo di sperimentazione, che si trovava in pieno deserto bianco, svettava una torre di lancio che serviva proprio per abituare progressivamente gli animali al brusco aumento della velocità che avrebbero dovuto sopportare.
Sembrerà strano tenere degli animali da foresta nel deserto caldo del New Mexico, ma era l’unica maniera per impedire che fuggissero e che dunque costituissero una comunità libera, anche se per impedirlo bastava che l’area del campo fosse circondata da un anello d’acqua, considerato che sono animali che non nuotano per mancanza di tessuto adiposo sottocutaneo e quindi per un elevato peso specifico che li trascinerebbe sott’acqua facendoli annegare.
Io ero stato chiamato per un progetto che riguardava le anfetamine, e in particolare alcune anfetamine modificate che avevamo sintetizzate nei laboratori dell’Istituto di Farmacologia dell’Università di Milano dove in quel tempo lavoravo; molecole che avevano alcune funzioni specifiche rispetto all’anfetamina comune e che dovevamo provare sugli scimpanzé per vedere se potevano aiutare a risolvere un grande problema che il centro di Alamogordo aveva.
Va precisato che allora le anfetamine non rientravano nelle tabelle delle droghe e si potevano facilmente reperire nelle farmacie presentando la ricetta del medico come accade per i medicinali comuni.
Ma ritorniamo al problema degli scimpanzé da inviare nello spazio. Questi nel corso della missione dovevano compiere alcune operazioni importantissime: dovevano riconoscere certi stimoli inviati dal centro e rispondere compiendo alcune operazioni che consistevano nello schiacciare un bottone o una serie di bottoni secondo una certa sequenza. A seguito di queste risposte si sarebbe pilotata la navicella, si sarebbero apportate correzioni e attivate procedure scientifiche di studio e di allunaggio. Gli scimpanzé erano bravissimi a dare risposte corrette e dunque coerenti agli stimoli, e anche a compiere una sequenza di operazioni complesse, ma non sembravano in grado di superare una serie di operazioni che prevedesse più di sette, al massimo otto accensioni, e queste erano troppo poche. Sembrava che tale limite potesse diventare il grande ostacolo, e per questo si cercavano sostanze che potessero aiutare le capacità mentali, l’attenzione, il superamento della stanchezza così da giungere almeno a dieci operazioni che pareva la tappa necessaria.
Giunto ad Alamogordo, il mio compito fu di fare amicizia con due scimpanzé, Paul e George, così da acquistare la loro fiducia e tentare di iniettare attraverso puntura lombare queste nostre anfetamine e poi studiarne le capacità e la modificazione.
Come è noto, il piano con gli scimpanzé venne abbandonato proprio per questo limite, oltre a un altro che si legava agli occhi e alla facilità con cui erano colpiti da gravissime congiuntiviti nell’ambiente artificiale in cui dovevano vivere, e questo fastidioso disturbo li rendeva distratti e nervosi. Si sa anche che proprio per questo sulla luna giunse per prima una cagnetta, Laika, a bordo di una navetta russa e così gli Stati Uniti persero la prima partita.
Ma torniamo alla droga. In quel periodo io parlavo solo di sostanze di abuso; negli incontri di lavoro il tema era proprio questo poiché si stavano provando tutte le sostanze possibili capaci di ampliare le funzioni mentali e qui divenni consapevole dell’azione di ogni tipo di stimolante, e anche della marijuana, che mi riportò al «barcone del Tevere».
La città più vicina a quel luogo di ricerca, nel pieno deserto bianco, era San Antonio, nel Texas. Il fine settimana la raggiungevo in auto godendomi la bellezza delle montagne di talco e del deserto, e talvolta su un aereo della Nasa; andavo nei luoghi della droga, le discoteche. A parlarne ora sembra una cosa banale, ma allora non lo era, anzi mi sorprendeva vedere masse di giovani che si muovevano a ritmo di musica, per lo più rock, e pieni di droga. È in quelle notti che mi sono reso conto di cosa fosse la droga di massa e dei suoi effetti distruttivi. Insomma, dimenticavo per un po’ Paul e George e osservavo quei giovani che sembravano divertirsi muovendo il proprio corpo, sperimentando le metamorfosi della loro mente, senza toccare minimamente quello delle ragazze seminude che si agitavano nella pista in una penombra misteriosa o con luci che sembravano impazzite per le variazioni di colore e per il lampeggiare che rivelava e poi nascondeva un mondo nuovo, all’apparenza agitato e folle.
Insomma, le droghe potevano cambiare gli scimpanzé, ma di sicuro cambiavano i giovani, e dunque rappresentavano un evento sociale di grandi proporzioni, e la droga già solo per questo diventava altro rispetto al consumo del singolo o di piccoli clan di ricchi viziosi.
Avevo deciso di trascorrere alcune ore al Department of Psychiatry e fui attratto da un centro di emergenza per le tossicodipendenze, che era uno dei primi a essere stati attivati a New York. Era situato al piano terra e qui arrivavano tutti i drogati che venivano raccolti in città in pericolo di vita o per overdose di qualche sostanza oppure in crisi di astinenza o comunque per carenze acute legate all’azione delle sostanze abusate. Talvolta si trattava di farmaci, ma assunti in dosi massicce e senza indicazione medica, e queste due modalità erano tali da trasformare un farmaco in un veleno.
Ho visto l’inferno poiché là arrivavano ragazzi in uno stato di agitazione furiosa oppure in coma. Molti morivano mentre i medici si prodigavano per mantenerli in vita e prestavano loro le prime cure, che prevedevano l’uso di antidoti dopo aver accertato, attraverso la diagnosi, la sostanza che aveva causato quella condizione terminale.
Fui colpito da quella maschera della droga, da quell’effetto che sembrava condurre solo alla morte. Stavo con gli occhi spalancati a vedere quelle scene e a chiedermi il perché quei ragazzi cercassero di giungere al nichilismo estremo partendo dall’idea di sperimentare il piacere e uno stato di esistenza più gradevole di quello da cui partivano.
Allora era il tempo in cui dominava l’eroina, ma imparai subito che chi usa sostanze chimiche per modificarsi usa di tutto, si inietta qualsiasi cosa o la assume come se volesse cancellare la sua immagine, la percezione che ha di sé. Capii che non era tanto il vizio, quanto la tragedia della morte che veniva rappresentata in quel comportamento. Vidi molti ragazzi morire e di alcuni ricordo ancora gli occhi, sbarrati e terrorizzati, chiedere di vivere anche se avevano deciso di morire, magari inconsapevolmente.
Rimasi al Cornell fino alla fine del 1970, poi tornai in Italia, arricchito dalle esperienze di laboratorio e con una nuova pagina da aggiungere al mio curriculum dopo il periodo trascorso ad Alamogordo e quello a Cambridge in Inghilterra; ma soprattutto ritornai dall’inferno della droga le cui immagini si erano fatte indelebili nella mia mente.
Non potei stare con le mani in mano perché ero certo che quel clima sarebbe giunto anche in Italia se non si fosse fatto qualcosa.
Diedi inizio a una fase, la prima, in cui come un don Chisciotte a dorso di un ronzino cercai di fare guerra alla droga, fino a trasformarmi in un predicatore e in una coscienza che cercava di risvegliare l’attenzione nei confronti di un fenomeno che, ne ero sicuro, presto avrebbe attraversato l’oceano.
Del resto avevo saputo che il barcone era stato dimenticato, ma che i fenomeni di consumo di droghe in gruppo e della discoteca come luogo di consumo, come cattedrale della «comunione», si erano ripetuti e continuavano anche se in maniera clandestina e segreta.
Non c’era un’emergenza, la dimensione del fenomeno non era ancora al livello di guardia, ma proprio per questo era tempo di prepararsi a prevenire.
La parola prevenzione stava entrando nell’àmbito medico e indicava la strategia di anticipare i danni con la consapevolezza che è più difficile correggerli che impedire che si stabiliscano. E a me parve che quello fosse proprio il momento di agire in questo senso. Mi diedi da fare per convincere le istituzioni a occuparsi di droghe, ma la risposta fu sempre negativa con la motivazione che era pericoloso parlarne poiché poteva attivare la curiosità e quindi indurre i giovani ad accostarsi alle droghe proprio grazie a interventi che, pensati per prevenire, finivano o potevano finire per promuoverne il consumo.
La risposta mi sembrava assurda, anche perché si accompagnava sempre all’affermazione che si dovevano colpire, punendoli, i consumatori o chi comunque detenesse la droga. La paura della pena avrebbe contenuto il rischio e la voglia di emulare situazioni di altri Paesi; e mi si ricordava che gli Stati Uniti erano un mondo diverso, con una cultura che non era comparabile con quella italiana che si fondava sui sani princìpi della civiltà greca e romana e non sull’empirismo pragmatico dell’America.
Detestavo questi sapienti e cominciai a odiare la stupidità al potere. Non cedetti, anche se tutto ciò che potevo fare si legava alla mia persona e alle mie capacità, a un operare isolato che era come volere svuotare l’oceano con il cucchiaio di cui si serviva sant’...