Consigli per un paese normale
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Consigli per un paese normale

  1. 306 pagine
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Consigli per un paese normale

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Piccole grandi idee per costruire un'Italia migliore. L'ultima grande lezione di un maestro del giornalismo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858605714

Sesta parte
La memoria

In un Paese normale la memoria
non è una vendetta

Anna Maria Canacci, la sorella di una delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine (1944), ha scritto al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, perché conceda la grazia a Erich Priebke che partecipò alla rappresaglia per l’attentato di via Rasella a Roma. Una bomba di dodici chili di tritolo aveva ucciso trentadue militari nazisti e i feriti erano stati più di sessanta. Immediata la ritorsione: dieci italiani per ogni caduto. «Qualcosa» aveva ordinato Hitler «che faccia tremare il mondo». È vero, come è stato detto, che «il sangue della storia asciuga in fretta» ed è anche vero che abbiamo fatto scappare Herbert Kappler, il superiore di Priebke, nascosto dentro una valigia, e concesso a Walter Reder (l’ufficiale che ordinò la strage di Marzabotto: circa 1500 defunti) di andare a morire nella sua Vienna.
Erich Priebke, ufficiale delle Ss, condannato all’ergastolo dal tribunale militare di Roma nel 1996, agli arresti domiciliari nella capitale, ospite di Paolo Giachini (con il quale firma la sua autobiografia Vae victis), è già stato considerato colpevole dalla coscienza del mondo. Ha chiesto la grazia. Fa novantuno anni il 29 luglio 2004 e, con la morte, ha scritto un poeta tedesco, tutte le fiamme di collera si spengono. E non inventiamo pretesti giuridici; che senso ha tenere in Italia un vecchio stordito che ammette: «Ne ho fucilati due, mi dispiace». Due vite: che cosa sono? Che cosa valgono? E non capisce perché tante polemiche, e ripete il solito slogan che è vero per ogni tedesco: Disziplin, che vuol dire obbedienza, senza discutere.
Confida poi ai parlamentari che vanno a trovarlo: «Noi a Roma stavamo molto bene. Non c’era rancore per nessuno». Figuriamoci: lui aveva pure una bellissima amante, l’attrice Laura Nucci, il cui fascino aveva suggerito a un critico l’aggettivo: «Rapinosissima». C’è davvero la normalità del male, la crudeltà accettata come regola. Dopo l’attentato a fatica mettono insieme un elenco di Totenkandidaten, di degni di morte, e poi per sbaglio aggiungono cinque nomi: 335. Tocca al colonnello Kappler, amante delle rose, dei vasi etruschi e della fotografia, sbrigare la pratica, e ci mette tutto l’impegno: sceglie il luogo, le cave Ardeatine, fissa i modi e i tempi: ogni esecuzione un minuto, e cinque prigionieri alla volta. «Non voglio parlarne» mi disse Kappler, che incontrai nel penitenziario di Gaeta. «C’è un distacco nel mio intimo. È un fatto che ha segnato la mia vita. Non auguro al nemico più odiato di trovarsi in quelle circostanze nella mia situazione.»
Incontrai anche il generale delle Ss Karl Wolff, di cui Giovanni Dolfin, il segretario di Mussolini, diceva: «È il vero ministro dell’Interno. Bello, alto, biondo, ha successo con le donne, e non è un fanatico dell’ideologia». Quando gli parlai aveva già ottantatré anni, e qualcuno lo aveva passato nelle prigioni della sua patria con l’accusa di avere avuto a che fare col trasporto degli ebrei alle camere a gas. Viveva a Prien am Chiemsee, su un laghetto bavarese, in una tranquilla villa. Gli chiesi come aveva vissuto la vicenda delle Fosse Ardeatine. Raccontò: «Sono arrivato a Roma e ho saputo che si intendeva punire l’attentato fucilando delle persone, con un rapporto di uno a dieci, ma che a Roma non si trovava un’unità capace di portare a termine un’esecuzione di massa. Per questo compito, l’unità di altoatesini da me appena formata era composta da militari troppo giovani e con molti scrupoli religiosi. L’esercito, rendendosi conto che dopo la guerra ci sarebbe stata un’inchiesta, voleva tenersene fuori. Di conseguenza Kappler, che era addetto di polizia nella nostra ambasciata, ha ricevuto l’ordine dal generale Maeltzer di provvedere. Al mio arrivo non si poteva fare più nulla».
Scrive Priebke: «Il sogno di rivedere la mia dolce moglie Alice nella Patagonia argentina, prima di morire, diventa sempre più lontano». Lei è molto malata. I Priebke a Bariloche sono una famiglia numerosa: oltre ad Alice, ci sono i due figli, quattro nipoti, una pronipote. Da un mese si è aggiunta una vita in più: una nipotina. Ma sì, rimandiamolo a casa.

Cosa succede oggi
Nel giugno del 2007 il magistrato militare di sorveglianza ha firmato un permesso per l’ex Ss all’ergastolo. Priebke, che era agli arresti domiciliari a Roma, potrà uscire ogni giorno per prendere servizio nello studio del suo avvocato, Paolo Giachini, in via Panisperna. Una sentenza definita «indecente» dalla comunità ebraica della capitale. Il 23 novembre 2007 il permesso di uscire di casa per lavorare gli viene revocato dalla prima sezione penale della Cassazione accogliendo il ricorso del procuratore militare di Roma Antonino Intelisano.

In un Paese normale l’unità nazionale
è il frutto di una Storia comune

GIANNELLA: Cinquant’anni fa Trieste tornò italiana. Tu, Enzo, che cosa ricordi di quell’autunno del 1954? Dov’eri, mentre il 5 ottobre l’ambasciatore Manlio Brosio firmava a Londra, per l’Italia, il memorandum d’intesa italo-jugoslavo, che fu seguito dall’ingresso nel capoluogo giuliano dei fanti, dei carabinieri e dei bersaglieri?
BIAGI: Di quei giorni potrei dirti della festa commossa e delle lacrime di gioia che accolsero i soldati italiani, alle 5,20 del piovoso 26 ottobre. O delle ragazze che salivano sui camion dei militari, li abbracciavano, li baciavano, li accarezzavano, cantavano, ridevano. Mescolati ai militari italiani c’erano tanti soldati americani, che se le sarebbero portate a casa, molte di quelle ragazze che avevano conosciuto l’orrore del dopoguerra in una città, come scrisse l’inviato speciale Giorgio Bocca, «che aveva avuto l’amaro privilegio di trovarsi in prima linea».
Però ti confesso che, mentre ti parlo, nella mia mente affiora una colonna sonora: io ero a Milano, allora lavoravo nella redazione di «Epoca», e alla radio Nilla Pizzi cantava:
Vola, colomba bianca vola
diglielo tu
che tornerò.
Dille che non sarà più sola
e che mai più
la lascerò.
Era la canzone che aveva vinto nel 1952 il Festival di Sanremo: era dedicata a Trieste, la città per la quale era stata fatta la Prima guerra mondiale, e che era stata schiacciata in epoca successiva prima dal tallone nazista (del quale Trieste conserva la tragica Risiera di San Sabba, l’unico esempio di lager delle Ss in Italia) e poi da quello di Tito, il «Duce rosso» con il quale era schierato Togliatti. Particolare che spiega il perché i comunisti negavano le foibe e vedevano nei compagni jugoslavi dei sinceri antifascisti.
Fu una terribile prova per una città bella che è sempre stata un crocevia di culture e un condensato di diversi gruppi: oltre agli italiani, tedeschi, sloveni, altri slavi, ebrei, greci, armeni e gente che arrivava dalle varie terre soggette a Vienna, e convivevano con tolleranza.
G.: Sei tornato più volte, in seguito, a Trieste.
B.: Certo, e con commozione, pensando che era stata la causa della guerra di mio padre. Ho calpestato i ciottoli di quella che una volta si chiamava piazza Grande. Sul molo sbarcarono, nel 1918, i bersaglieri; di fronte c’è il municipio, con la torre dell’orologio, che ricorda un poco il Louvre. Poi tanti edifici di grande dignità, tanti bianchi palazzi, come quello che fu edificato verso la fine dell’Ottocento dal Lloyd Austriaco, di stile rinascimentale, o la prefettura, con un fregio di mosaici veneziani per decorazione. Sono tornato e ho avuto modo di apprezzare la sua grande umanità, a cominciare dallo scrittore Claudio Magris. Che è una persona seria, oltre che famosa e brava. Perché i triestini sono gente seria, tutto quello che viene da Trieste è molto serio: prendiamo, per esempio, il polo scientifico, che brilla nella costellazione della ricerca mondiale. O la letteratura, che più ha risentito della città crogiuolo. Umberto Saba, Scipio Slataper, Gianni Stuparic… Nel castello di Luino fu ospite anche Rilke, che vi scrisse le celebri Elegie; in via XX Settembre abitava Ettore Schmitz, più noto come Italo Svevo, e in via Bramante arrivò, in un lontano autunno, alla Berlitz School, un giovane insegnante di inglese: James Joyce. Questo dimostra che qualsiasi tentativo di fare di un tema di nazionalismo becero è da buttare a mare. È ora, invece, che questo luogo simbolo delle ferite del Ventesimo secolo approfitti dell’apertura dell’Unione europea a Est. Dei dati recenti, mi ha colpito il record di anzianità che ha Trieste. Un triste record.
Auguro a Trieste, ritrovato e rinnovato porto d’Europa, una benefica scossa, nuove grandi opere per entrare nel nuovo scenario mercantile continentale e attrarre nuovi capitali e nuove giovani vite.

Cosa succede oggi
A febbraio 2010 la popolazione di Trieste (in totale 208.764 abitanti) contava più di un terzo, il 35 per cento, oltre i sessant’anni d’età. In particolare: 14.631 maschi e femmine tra i sessanta e i sessantaquattro anni (7,1 per cento); 14.339 tra i sessantacinque e i sessantanove anni (6,8 per cento); 13.839 tra i settanta e i settantaquattro anni (6,63 per cento); 11.083 tra i settantacinque e i settantanove anni (5,31 per cento); 8752 tra gli ottanta e ottantaquattro anni (4,19 per cento); 6713 tra gli ottantacinque e ottantanove anni (3,22 per cento); 1796 tra i novanta e novantaquattro anni (0,86 per cento); 800 tra i novantacinque e novantanove anni (0,38 per cento); 119 tra i cento e centoquattro anni (0,06 per cento); e, infine, due maschi e cinque femmine tra i centocinque e centonove anni. (Fonte: Osservatorio Programmazione Statistica del Comune di Trieste, diretto da Paolo Marass.)

In un Paese normale il successo e l’autenticità
viaggiano insieme

Quando andai a trovarla era a letto febbricitante. La coperta era invasa da fogli di giornale segnati di rosso: le recensioni del suo ultimo film. I critici dicevano che era stata «grande», «grandissima», come se la riscoprissero in quel momento. Il volto era pallido, segnato, di una donna sofferente: nel 1945 quegli occhi severi raccontarono il dramma di una grande città, Roma, nel terrore dell’occupazione nazista e annunciarono la scoperta del Neorealismo. «Non so nemmeno se sono un’attrice, una grande attrice o una grande artista» mi disse con indifferenza. «Non so nemmeno se sono capace di recitare. Ho dentro di me tante figure, tante donne, duemila donne. Ho solo bisogno di incontrarle. Devono essere vere, ecco tutto. Voglio dei personaggi autentici. Tennessee Williams, che ha scritto una trama per me, lo sa. Anche le sue esperienze sono state molto dure, e mi capisce.»
Anna Magnani se n’è andata nel ’73. Sembra ieri. Pareva una creatura semplice, dominata dalla natura, senza complicazioni e invece, lei stessa lo ammetteva, era molto complicata. Un giornalista americano l’aveva definita «la tigre» e giudicata aggressiva, di variabile umore, intollerante. Non si piaceva. Mi disse: «Se vuole essere originale scriva che io sono tranquilla, che non litigo con i registi che rispetto: lo chieda a Jean Renoir o a Luchino Visconti, che non è poi di carattere dolce. Io non chiedo di meglio che di starmene buona».
Aveva dovuto conquistare il suo posto. Lo stesso marito, il regista Goffredo Alessandrini, le riconosceva scarso talento; molti la consideravano limitata al rango di grande generica, le attribuivano risorse dialettali. Una volta s’offrì come interprete a De Sica.
«È un vero peccato, Vittorio» disse «che io e te non si faccia qualcosa insieme. Io sento quello che vuoi.»
«Sono io» rispose De Sica «che non sento il romanesco.»
Anna ne fu addolorata. Sul camino del suo salotto c’era, tra tappi di spumante che ricordavano forse qualche ora lieta, la statuetta dorata dell’Oscar; quando gliela consegnarono il suo nome fu posto accanto a quello di Eleonora Duse.
Il suo temperamento, le sue vicende l’avevano resa guardinga, chiusa, magari diffidente. Luca, il figlio, le disse un giorno: «Mamma, ma perché fai sempre finta di essere un’altra persona?». Forse era un modo per difendersi. Disse a un’amica: «Io sono fatta così. Tutta istinto». Le sue interpretazioni lo confermano.
Quando Roberto Rossellini incontrò Ingrid Bergman, l’inviato di un giornale francese scrisse che «il dolore di Anna fu degno di Sofocle, la sua gelosia di Racine». Ai cronisti che l’assediavano diede risposte misurate e tristi: «È più importante l’arte o l’amore?» le chiedevano. E Anna: «Una cosa non esclude l’altra». «Ma l’amore» insistevano crudeli «non vale forse di più?» E Anna, arrendendosi: «È proprio l’unica cosa che conta».
«Al momento giusto mi ritirerò» disse una volta. È uno spettacolo triste vedere un’artista invecchiata che si ostina a calcare le scene. Corrado Alvaro scrisse che la Magnani ci aveva dato «un ritratto esemplare di donna italiana» e «il senso della vita intima del nostro Paese». In quegli occhi di volta in volta ironici, sprezzanti o disperati si sono riflesse le immagini più sincere della nostra vita, delle cose che furono e delle molte che sono cambiate. La paralisi infantile che aveva colpito il figlio aveva avvilito i sogni di questa donna sola e infelice. Disse alla giornalista Egle Monti: «Vorrei non aver fatto niente, vorrei ricominciare tutto da capo purché mio figlio avesse le gambe».
Nella sua biblioteca notai un libro, Il dizionario domestico, ma in quelle pagine Anna non aveva trovato le parole capaci di aiutarla a scoprire il segreto della sola gioia che le sarebbe stata cara: la gioia che tocca alle donne semplici, a quelle donne che lei aveva tante volte portato sullo schermo, cariche di figli e di sporte, pronte all’urlo e all’abbraccio, liete d’essere vive, di vivere giornate comuni.

Cosa succede oggi
Dal 24 al 27 novembre 2008 a Guidonia (Roma), in occasione del centenario della nascita di Anna Magnani, si è tenuta la mostra «Bellissima», interamente dedicata alla grande attrice. Il materiale della mostra è stato messo a disposizione dall’Associazione Teatro Antico, organizzatori dell’evento Girocorto Festival IV edizione. Nello stesso anno, per i tipi della Edizioni Interculturali di Roma, è stato edito il volume Ciao Anna dedicato all’indimenticabile Nannarella. Il libro, scritto a quattro mani da Matilde Hochkofler e dal figlio di Anna, Luca, cerca, in una settantina di pagine, di inquadrare una figura dall’esplosiva vitalità che ha illuminato la scena internazionale.

In un Paese normale si è belle quando si vuole

GIANNELLA: Caro Enzo, in questi giorni ricorre l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Eleonora Duse, un’attrice che ha emozionato le platee di mezzo mondo. Molti italiani non hanno l’età per ricordarla. Ecco, a questi come la racconteresti?
BIAGI: La racconterei come un film, con al centro la storia d’amore con Gabriele D’Annunzio. L’incontro tra l’attrice e il Vate «era già scritto nelle stelle perché la Duse era dannunziana ancor prima di conoscere D’Annunzio», diceva Montanelli a proposito della coppia che più di ogni altra accese l’immaginazione a cavallo tra l’800 e il ’900.
Nelle scene iniziali del film metterei il loro primo incontro, con D’Annunzio che va diritto: «Salve, o grande amatrice». La signora del teatro si lascia intrappolare: «Ho quarant’anni e amo». Lei non è attraente, è magra, ha la pelle olivastra, ma sa trasformarsi: «Io sono bella quando voglio». Quando si conoscono, Gabriele ha trentatré anni, una moglie e tre figli, con in più un’amante dalla quale ha avuto una bambina; Eleonora ha sette anni in più, e un tenero legame con Arrigo Boito, poeta, compositore, critico drammatico e musicale. Scoppia «la passione devastatrice» e la Duse confessa: «Lo detesto, ma lo adoro». Quella conquista le ridà vita: è stanca e delusa. Eppure già da tempo era una «primadonna». Sul palcoscenico s’era mossa bene fin da adolescente. Figlia d’arte, una sera aveva dovuto sostituire la madre che non stava in piedi. I suoi genitori sono poveri comici, che vanno in giro per il Veneto e la Lombardia. Lei è andata a scuola un po’ qui e un po’ là, ma legge molto e cerca la compagnia degli intellettuali. È stata Cosetta, nei Miserabili; Giulietta all’Arena di Verona, poi la Signora delle Camelie e, di triste attualità, la Principessa di Bagdad. Ha fatto personaggi romantici, come la Francesca da Rimini nell’omonima tragedia di Silvio Pellico.
Torniamo a D’Annunzio, che le donò una grande passione anche se non contribuì granché alla sua fortuna artistica. L’Immaginifico le fa perdere la testa, la tradisce, l...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Introduzione: La bussola civile
  4. Prime parte: I diritti
  5. Seconda parte: La giustizia
  6. Terza parte: L’informazione
  7. Quarta parte: Il merito
  8. Quinta parte: I modelli
  9. Sesta parte: La memoria
  10. Settima parte: L’educazione
  11. Epilogo
  12. Ancora un momento, prego
  13. Indice