Martin Eden
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Martin Eden

  1. 460 pagine
  2. Italian
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Martin Eden

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Martin Eden è un giovane marinaio che durante una rissa difende il giovane Arthur Morse, rampollo di una ricca famiglia. Fra i due nasce l'amicizia e Martin viene accolto in casa Morse; qui conosce Ruth, la sorella di Arthur, di cui si innamora al primo sguardo. Ruth per lui è più di un'ossessione amorosa, è il simbolo della società colta ed elegante verso la quale aspira a elevarsi. Società che Martin raggiungerà, con grande dedizione e superando tutti gli ostacoli, coronando il sogno di diventare scrittore. Ma, come scoprirà a sue spese, non sempre realizzare i propri sogni coincide con il raggiungimento della felicità. Martin Eden è il romanzo di maggior respiro di London, spesso letto come un'autobiografia romanzata. Le umili origini, il successo letterario e l'ascesa sociale, l'amore infelice per una donna ricca: sono solo alcuni degli elementi che accomunano l'autore al suo personaggio e che permettono di ritrovare in queste pagine la confessione sincera e disillusa del suo senso di fallimento.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858611500
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
MARTIN EDEN
Ch’io viva gli anni miei con febbre ardente! Ch’io m’inebri di sogni e che del sacro spirto non vegga quest’asil cadente disfarsi in polve, vuoto simulacro.
I
Il primo aprì la porta con una chiave piatta ed entrò, seguito da un giovane che si levò il berretto con fare impacciato. Il giovane indossava rozzi panni che odoravano forte di mare ed era palesemente fuori posto nell’atrio spazioso in cui si trovava. Non sapeva che fare del berretto e se lo stava cacciando nella tasca della giubba, quando l’altro glielo levò di mano. Il gesto fu calmo e naturale e il giovanotto impacciato lo apprezzò. “Capisce” pensò; “mi porterà sino in fondo proprio come si deve.”
Si mosse alle calcagna dell’altro con un dondolo delle spalle e con le gambe involontariamente tese, come se i pavimenti piani si alzassero e sprofondassero con l’ondeggiare del mare. Le ampie stanze erano troppo anguste per la sua andatura cullante ed egli era atterrito all’idea che le sue larghe spalle andassero a cozzare contro l’intelaiatura delle porte, o che spazzassero i soprammobili dalla bassa mensola del camino. Si ritraeva impaurito di qua e di là fra i vari oggetti, moltiplicando i rischi che in realtà esistevano solo nella sua immaginazione. Fra un piano a coda e un tavolo centrale coperto di alte pile di libri, c’era abbastanza spazio per far passare una mezza dozzina di persone a spalla a spalla, e ciò malgrado egli tentò il passaggio con trepidazione. Le braccia pesanti gli penzolavano lungo i fianchi. Non sapeva che farsene, di quelle braccia e di quelle mani, e quando, alla sua mente eccitata, parve che un braccio fosse lì lì per sfiorare i libri sul tavolo, fece uno scarto indietro come un cavallo imbizzarrito, mancando per un pelo lo sgabello del pianoforte. Osservò l’andatura senza impaccio dell’altro innanzi a lui, e per la prima volta si accorse che la propria andatura era diversa da quella degli altri uomini. Provò una passeggera fitta di vergogna per il suo passo tanto sgraziato. Il sudore gli sprizzò in perline minute attraverso la pelle della fronte ed egli si fermò un momento e si terse il viso abbronzato col fazzoletto.
«Fermati un po’, Arthur, ragazzo mio» disse, cercando di mascherare l’ansia con una facezia. «Questo è un po’ troppo tutto in una volta, per il sottoscritto. Fammi ripigliar coraggio. Lo sai che non ci volevo venire e mi pare che neanche la tua famiglia smani dalla voglia di vedermi.»
«Non fa nulla» fu la rassicurante risposta. «Tu non devi aver timore di noi. Siamo gente alla buona. To’, c’è una lettera per me!»
Tornò verso il tavolo, strappò la busta e cominciò a leggere, dando così all’estraneo il tempo di rimettersi. E l’estraneo comprese e apprezzò. Possedeva la dote della simpatia, della comprensione; e, sotto la sua apparenza allarmata, quel processo di simpatia si andava svolgendo. Si asciugò la fronte e volse in giro lo sguardo, con viso contenuto, sebbene avesse negli occhi la stessa espressione che gli animali selvatici lasciano trasparire quando temono la trappola. Era circondato dall’ignoto, apprensivo di quanto potesse accadere, ignaro di quello che dovesse fare, cosciente della propria andatura e dei propri modi impacciati, timoroso di poter avere impediti del pari ogni facoltà e ogni attributo. La sua sensibilità era acuta, la sua timidezza era estrema e l’occhiata divertita che l’altro gli lanciò di soppiatto di sopra al margine della lettera gli bruciò dentro come una pugnalata. Vide l’occhiata, ma non dette segno di essersene accorto, perché, fra le cose che aveva imparato, c’era anche la disciplina. E poi, quella pugnalata aveva ferito il suo orgoglio. Maledì se stesso per essere venuto e, al tempo stesso, decise che, dal momento che era venuto, sarebbe andato sino in fondo, qualsiasi cosa capitasse. I tratti del viso gli si indurirono e nei suoi occhi spuntò una luce bellicosa. Si guardò intorno con maggior disinvoltura, osservando acutamente e registrando nel cervello ogni particolare del bel salotto. Aveva gli occhi distanti fra loro e nulla entro il suo campo visivo gli sfuggiva; e, via via che gli occhi sorbivano la bellezza che era loro dinanzi, la luce combattiva si smorzava e il suo posto veniva preso da un caldo splendore. Egli era sensibile alla bellezza e lì c’era di che ridestare la sua sensibilità.
Un quadro a olio attrasse e fissò la sua attenzione. Grossi cavalloni muggivano e si frangevano contro uno scoglio sporgente sul mare; basse nubi temporalesche coprivano il cielo; e, oltre la linea della risacca, una goletta pilota, dalla velatura ridotta, inclinata sul fianco tanto che ogni particolare del ponte era visibile, si ergeva contro un tramonto tempestoso. C’era bellezza in quel quadro, e la bellezza lo attraeva irresistibilmente. Dimenticò la sua goffa andatura e andò più vicino al quadro... vicinissimo. La bellezza scomparve dalla tela. La faccia del giovane espresse la propria perplessità. Fissò con occhi spalancati quello che appariva come un imbratto impasticciato di colori, poi fece un passo indietro. Immediatamente, tutta la bellezza balenò di nuovo sulla tela. “Un quadro a trucco” fu il suo pensiero, nell’atto di rinunziare a capire, sebbene in mezzo alle molteplici impressioni ricevute trovasse il tempo di provare una punta di indignazione per il fatto che tanta bellezza fosse stata sacrificata a un trucco. Non sapeva nulla di pittura. Era stato allevato fra stampe a colori e oleografie, che erano sempre nette e precise, sia da vicino che da lontano. Aveva visto, è vero, quadri a olio nelle vetrine dei negozi, ma il cristallo delle vetrine aveva sempre impedito ai suoi occhi avidi di avvicinarsi troppo.
Lanciò un’occhiata all’amico che leggeva la lettera e vide i libri sul tavolo. Nei suoi occhi apparvero nostalgia e avidità, come l’avidità appare negli occhi dell’affamato alla vista del cibo. Un passo impulsivo, accompagnato da un solo dondolio a destra e a sinistra delle spalle, lo portò vicino al tavolo, dove incominciò a mettere affettuosamente mano ai libri. Guardò i titoli e i nomi degli autori, lesse frammenti del testo, carezzando i volumi con gli occhi e con le mani, e riconobbe un libro che aveva letto. Gli altri erano libri sconosciuti e autori ignoti. S’imbatté in un volume di Swinburne e cominciò a leggere attentamente, dimentico di dove si trovava, col viso raggiante. Due volte chiuse il libro sull’indice per guardare il nome dell’autore. Swinburne! Se ne sarebbe ricordato di quel nome. Sapeva vedere, quello! e certo aveva ben dovuto assaporare il colore e la luce sfolgorante! Ma chi era Swinburne? Era morto da un centinaio d’anni o giù di lì, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo e scriveva tuttavia? Tornò a guardare il frontespizio. Sì, aveva scritto altri libri. Bene, il mattino dopo, prima di ogni altra cosa, sarebbe andato alla biblioteca e avrebbe cercato di procurarsi un po’ di quella roba di Swinburne. Tornò al testo e ci si sprofondò. Non si accorse che una giovane era entrata nella stanza. La prima cosa che notò fu la voce di Arthur che diceva:
«Ruth, questo è il signor Eden.»
Richiuse il libro sul dito e, prima di voltarsi, provò un brivido di piacere alla nuova impressione che gli veniva, non dalla fanciulla, ma dalle parole del fratello. Sotto quel suo corpo muscoloso, egli era un ammasso di sensibilità vibrante. Al più lieve urto del mondo esterno sulla sua coscienza, i suoi pensieri, le sue simpatie, le sue emozioni balzavano su e guizzavano come fiamme lambenti. Era straordinariamente ricettivo e impressionabile e, allo stesso tempo, la sua immaginazione, sempre tesa, era continuamente intenta a creare somiglianze o a stabilire differenze. Ciò che lo aveva fatto fremere di piacere... lui che era stato chiamato «Eden» o «Martin Eden», o semplicemente «Martin», tutta la vita, era stato quel «signor Eden». “Signore!” pensò tra sé; ciò significava un bel passo avanti. Fu come se, in quell’istante, la sua mente si fosse mutata in una vasta camera oscura, ed egli vide, disposte in ordine nella sua coscienza, un’infinità di quadri della sua vita passata, raffiguranti depositi di carbone e castelli di prua, accampamenti e spiagge, prigioni e taverne, lazzaretti e vie malfamate; e il filo che li collegava era il ricordo del modo in cui era stato interpellato in quei luoghi disparati.
Poi si volse e vide la fanciulla. Scorgendola, la fantasmagoria del suo cervello svanì. Era una creatura pallida, eterea, con grandi occhi azzurri spirituali e una gran copia di capelli d’oro. Della sua foggia di vestire non capì nulla, se non che era meravigliosa quanto lei. La paragonò a un pallido fiore d’oro su uno stelo sottile. Anzi, era uno spirito, una divinità, una dea; tale sovrumana bellezza non era di questa terra. O forse i libri avevano ragione e nelle alte sfere della vita ce n’erano parecchie come lei. Avrebbe potuto benissimo esser cantata da quel tale Swinburne. Forse Swinburne ne aveva in mente una come lei quando aveva dipinto quella ragazza, Isotta, in quel libro là sul tavolo. Tutto questo ammasso di visioni, di sensazioni e di pensieri gli si presentò alla mente in un lampo. Non vi furono pause nella realtà in cui egli si muoveva. Vide la mano di lei tendersi verso la sua e lei guardarlo dritto negli occhi, mentre gli stringeva la mano con franchezza, come un uomo. Le donne che aveva conosciuto lui non stringevano la mano a quel modo. Anzi, per lo più, non stringevano la mano affatto. Un diluvio di associazioni, di visioni dei vari modi in cui aveva fatto la conoscenza di tante donne, gli si rovesciò sulla mente e minacciò di sommergergliela. Ma le scacciò e guardò la fanciulla. Non aveva mai veduto una donna simile. Le donne che aveva conosciuto! Immediatamente, accanto a lei, a destra e a sinistra, si allinearono le donne che aveva conosciuto. Per un istante eterno egli fu in piedi in mezzo a una galleria di ritratti, dove ella occupava il posto centrale, mentre intorno a lei erano dipinte molte altre donne; e tutte dovevano venir misurate e pesate con uno sguardo fugace, mentre ella era l’unità di peso e di misura. Vide le facce smunte e malaticce delle ragazze delle fabbriche e le ragazze leziose e chiassose del quartiere meridionale di Market. C’erano donne delle fattorie e brune fumatrici di sigarette del vecchio Messico. Queste furono poi scacciate dal sopraggiungere di donne giapponesi, simili a bambole, che camminavano a passettini minuti su zoccoli di legno; da eurasiane dai lineamenti delicati, segnati dalla degenerazione; da formose donne delle isole dei mari del Sud, inghirlandate di fiori e brune di pelle. E tutte quante vennero cancellate da un orribile e grottesco sciame da incubo... losche ed equivoche creature dei marciapiedi di Whitechapel, megere dei bordelli rigurgitanti di gin, e tutto il corteo di arpie del vasto inferno, luride e sboccate che, in mostruosa forma femminile, si avventano sui marinai; i rifiuti del porto, la schiuma e la melma dell’inferno umano.
«Vuole accomodarsi, signor Eden?» diceva la fanciulla. «Non vedevo l’ora di fare la sua conoscenza, sin da quando Arthur ci raccontò... È stato coraggioso da parte sua...»
Egli agitò la mano in un gesto di protesta e borbottò che non era stato proprio niente quello che aveva fatto, e che chiunque al posto suo avrebbe fatto lo stesso. Ella osservò che la mano che si muoveva era coperta di abrasioni fresche in via di guarigione...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. Martin Eden
  8. Sommario