AVVERTENZA
In quale occasione siano stati scritti i capitoli II, VII e VIII è indicato nel testo. I capitoli I, III, IV, IX sono conferenze tenute in Italia e una (cap. IX) a Lione. In altre circostanze sono stati composti i due restanti capitoli.
Da più parti, anche in queste pagine, si cammina attorno all’altura a cui da tempo tentano di volgersi i miei scritti – e che non è, essa, un semplice tentativo di tenersi in alto. È indicata dalla seconda parola del titolo. Questo libro si aggiunge ai precedenti perché crede di mostrare altri percorsi lungo i quali, come la cima tra i pini, l’altura si intravede.
Emanuele Severino
30 giugno 2006
I
IMMORTALITÀ E DESTINO
L’«illusione dell’immortalità»: un tema su cui la filosofia ha una sorta di prelazione. La religione lo affronta con la fede; la scienza con una logica ipotetico-probabilistica: esse si muovono in un ambito diverso e lontano da quello dove si fa innanzi l’avventura più grande dell’uomo, quella dove il popolo greco, entrando nella filosofia, pensa il senso più radicale della «verità» – la verità, intesa come l’assolutamente e il definitivamente non smentibile.
Il discorso sulla morte ha dunque timbri e toni del tutto diversi se a pronunciarlo non è la fede o la scienza, ma la filosofia. Esso coinvolge la «teologia», intesa nel suo significato originario, cioè greco, dove l’andare del lógos verso il dio, theós, cioè l’andarvi con verità, significa per il viandante andare verso la propria vera salvezza. La verità, per i Greci, non è un’erudizione (polymathía, dice Eraclito) intorno a questioni sapienziali, filosofiche e teologiche. La verità appartiene alla volontà di salvezza – alla volontà che si sprigiona dopo che tutta la poesia e parte della religione dei Greci hanno affermato il carattere effimero dell’uomo.
L’uomo greco vuole la verità perché vuole salvarsi con verità dalla morte, emissaria di tutti i dolori. Si rende conto che per questa salvezza il mito non basta più: non può bastare né la vita eterna di Dioniso, né, quando verrà alla luce, quella di Cristo. La salvezza dalla morte deve essere ormai vera salvezza, dove il pensiero vero afferma l’esistenza del vero dio, cioè dell’Essere che è sempre salvo dalla morte. È nella verità che il dio vero deve anticipare in sé e in sé conservare, proteggendolo, tutto ciò che all’uomo sta a cuore di se stesso e del proprio mondo e che tuttavia sorge a un certo punto del tempo e poco dopo svanisce. Nel Libro I della Metafisica Aristotele dice appunto che i primi pensatori affermarono un «Essere che è sempre salvo». Dal contesto appare che tale «Essere» (phy´sis) è sempre salvo dal non essere, dal nulla. La filosofia evoca l’estremo rimedio della verità perché innanzitutto evoca il pericolo estremo del nulla. Come per prima pensa il senso assoluto della verità, così per prima pensa il senso assoluto del nulla, e che dunque la morte è andare nell’assolutamente nulla.
Il senso assoluto del nulla e la morte come assoluto annientamento sono ignoti prima dei Greci. La morte non è pertanto vissuta come annientamento (e nemmeno è pensato il dio vero della verità greca). Prima dei Greci il senso della morte non è legato al nulla proprio perché prima dei Greci è assente il senso radicale dell’opposizione dell’essere e del nulla. Quando nel primo versetto del Genesi si vuole scorgere la creazione del mondo dal nulla, si opera una violenza su un testo a cui è ancora estranea quella comprensione ontologica delle cose che si fa innanzi solo con la filosofia greca (supponendo che, prima dei Greci, si possa parlare di una «filosofia»). Il pensiero dell’opposizione infinita tra l’essere e il nulla viene alla luce, nel popolo greco, insieme al pensiero che ci si possa salvare dall’annientamento, in cui la morte consiste, solo con la vera salvezza – quella che appare e si produce con l’apparire della verità. Nella verità si mostra il vero Essere che è sempre salvo dal nulla e in cui l’uomo trova la salvezza di ciò che più gli sta a cuore.
Ma a un certo momento questa grandiosa intuizione del mondo e dell’uomo crolla. Si mostra incapace di mantenere le proprie promesse. Essa domina l’intera tradizione dell’Occidente. Ne domina non solo i pensieri, ma anche le opere. La sentenza di Karl Marx che sinora la filosofia ha contemplato il mondo e che ora si tratta di trasformarlo va rovesciata: dicendo che sinora la filosofia – sia quella della tradizione, sia quella del nostro tempo, che porta la tradizione al tramonto – ha trasformato il mondo, ma che rimane ancora da comprenderlo. Nella tradizione dell’Occidente la filosofia ha trasformato il mondo perché i pensieri e le opere sono cresciuti all’interno del senso che i Greci hanno assegnato alla verità; nel nostro tempo la filosofia continua a trasformare il mondo perché ha preparato il terreno in cui la tecnica può procedere senza più alcun limite alla dominazione delle cose. La filosofia non è un epifenomeno o una sovrastruttura dell’economia, della storia, della società, dell’inconscio, del cervello, della materia e del corpo, del linguaggio.
Ma intanto va rilevato che se la tradizione filosofica è destinata al tramonto, esso non riguarda l’evocazione dell’opposizione infinita dell’essere e del nulla e pertanto non riguarda l’evocazione del divenire del mondo – l’evocazione dove il divenire è inteso come oscillazione degli enti tra l’essere e il nulla. Il tramonto riguarda la verità e il dio vero che vogliono tenersi fermi al di sopra del divenire che tutto travolge. Ed è proprio sul fondamento della fede nel senso greco del divenire che il pensiero filosofico del nostro tempo vede l’impossibilità che un immutabile (del pensiero o dell’essere) sovrasti il divenire senza rimanerne travolto.
Tuttavia è al di sotto della propria superficie che il pensiero filosofico del nostro tempo vede quella impossibilità; è nel proprio sottosuolo che esso riesce a scorgere, nel tramonto degli immutabili, un processo inevitabile. Alla propria superficie – cioè nella coscienza che tale pensiero ha per lo più di se stesso – appare spesso come una semplice volontà scettica, di cui è dubbia la capacità di resistere alle forme concettuali della tradizione.
Scendendo nel suo sottosuolo essenziale, si tratterebbe invece di comprendere che ogni immutabile e ogni eterno – ogni verità assoluta e ogni vero dio – rendono impossibile proprio quel divenire dalla cui minaccia essi intendono salvare – e che per l’intera civiltà dell’Occidente è l’evidenza assolutamente indiscutibile a partire dalla quale si sviluppano ogni sapere e ogni opera – e dunque anche il sapere e l’operare meta-fisico che, appunto, intende salvare l’uomo andando «al di là» (metá) del divenire (phy´sis) per incontrare l’«Essere che è sempre salvo» dal nulla (e che dunque è phy´sis in un senso più originario della phy´sis intesa come divenire).
Per uscire dal vuoto del nulla e per ritornarvi, le cose divenienti del mondo, infatti, non possono venire a trovarsi in uno spazio già tutto pieno perché riempito dalla sostanza immutabile della verità e del divino. L’immutabilità della verità e del divino è infatti la legge di tutto: non solo delle cose esistenti, cioè del «pieno», ma anche di quelle inesistenti, che costituiscono il «vuoto» del futuro e del passato, cioè il nulla del non-ancora e del non-più. In questo modo la legge di tutto riempie ogni spazio vuoto. Ma il vuoto del nulla è indispensabile al divenire, cioè all’evidenza suprema della creatività, che è soprattutto creatività umana; dunque non può esserci alcun immutabile che con la sua presenza abbia, contro le proprie intenzioni, riempito tale vuoto. «Che cosa mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?!» – dice Zarathustra – «Dunque non vi sono dèi», non vi è – sono ancora parole di Zarathustra – alcun «Pieno», «Immoto», «Imperituro». L’uomo è evidentemente creatore; dunque richiede quel vuoto, reso impossibile dal Pieno assoluto, senza di cui la creazione umana sarebbe impossibile.
Solo sul fondamento del sottosuolo essenziale del pensiero del nostro tempo – un sottosuolo in cui gli stessi pensatori di questo tempo sono quasi sempre incapaci di scendere – è possibile l’«onnipotenza della tecnica». Se nel pensiero e nell’essere non esiste alcun immutabile – e poiché sul fondamento della fede nel senso greco-occidentale del divenire non può esistere alcun immutabile – allora l’agire dell’uomo non può avere alcun limite assoluto. Come legge di tutto ciò che esiste, la verità e il vero dio immutabili sono infatti il limite oltre il quale nessun agire può spingersi; e poiché il sottosuolo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo vede che l’esistenza di quella legge è impossibile, appare che l’agire dell’uomo, e dunque e innanzitutto quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata dalla scienza moderna, non possono essere arginati da alcun limite assoluto e incontrovertibile. Ogni limite (o legge) esistente è soltanto fattuale, storico, provvisorio, contingente.
In tal modo, la potenza della tecnica si estende in linea di principio su tutto; è «onnipotenza»; può e deve estendere all’infinito il suo dominio sulle cose, cioè la sua capacità di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi – la sua capacità di allontanare la morte. La filosofia del nostro tempo sancisce e benedice questa dominazione onnipotente; ne è il fondamento e la legittimazione.
Queste considerazioni – che richiamano per cenni quanto nei miei scritti è stato analiticamente sviluppato – consentono di rilevare l’inadeguatezza della concezione tecnico-scientifica della tecnica. La tecnica destinata alla dominazione onnipotente è infatti l’unificazione dell’apparato scientifico-tecnologico e dell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ridotta all’immagine che essa ha oggi di se stessa – ridotta cioè a quella filosofia inadeguata in cui tale immagine consiste (e che è una delle tante forme della superficie della filosofia contemporanea) – la tecnica non è in grado di sottrarsi alla volontà della tradizione dell’Occidente di servirsi di essa come di un semplice mezzo per la realizzazione dei valori immutabili che tale tradizione persegue.
Ma è inadeguata anche ogni critica che in molti campi della cultura contemporanea viene rivolta alla tecnica. Ossia tale critica può essere adeguata – cioè vincente – rispetto alla inadeguata concezione tecnico-scientifica della tecnica, ma non rispetto alla dimensione dove la tecnica va ascoltando sempre più la voce del sottosuolo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sul fondamento della fede nel senso greco del divenire, la tecnica, nel suo significato concreto e autentico, determinato da quell’ascolto, è destinata al dominio e all’«onnipotenza» che non si lascia ridurre a mezzo, ma all’opposto riduce le voci del passato a mezzo per...