Dio crede in te
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Dio crede in te

Perché vale la pena di prenderlo sul serio

  1. 266 pagine
  2. Italian
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Dio crede in te

Perché vale la pena di prenderlo sul serio

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Al di la delle polemiche che coinvolgono la Chiesa, lo Stato e i loro rapporti, ciò su cui vale davvero la pena rifl ettere è la sempre maggiore richiesta di spiritualità e lo spazio, in continua crescita, che la religione occupa nella nostra società. Nonostante la forza di queste tendenze le domande che si presentano a chi indaga i fondamenti della propria fede sono davvero tante. Lo stesso vale per chi si accosta alla religione da una posizione più scettica e dubitante. La fede ha motivazioni oggettive o è un atto "cieco e assoluto"? Come è possibile conciliare la fi ducia nella creazione del mondo con gli insegnamenti delle scoperte scientifi che? Ha ancora senso, oggi, parlare di immortalità dell'anima? E quale valore attribuire, poi, a un'istituzione come la Chiesa? Questo libro è il risultato di un confronto avvincente tra uno dei più importanti teologi italiani e un autorevole vaticanista. Il lettore vi troverà una discussione libera da ogni costrizione, che aff ronta senza censure tutte le questioni spinose nella vita di credenti e non credenti. Ne emerge un quadro complesso, ma anche ricco di speranza, in cui si comprende perché sia Dio per primo ad aver creduto nell'uomo, creandolo e ponendolo al vertice dell'universo, e rendendolo così libero di scegliere se ricambiare il suo amore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858618820
CAPITOLO 1
Dio vuole proprio te
SAVERIO GAETA Negli ultimi tempi numerosi libri, trasmissioni televisive, dibattiti e convegni hanno riproposto con forza il tema di Dio all’attenzione di un’opinione pubblica che – a giudicare dal vivace interesse con cui ha accolto tutte queste iniziative – non si è tirata indietro nemmeno dinanzi alle provocazioni, più o meno in buona fede, di chi ha messo in discussione le fondamenta del cristianesimo e talvolta della religione tout court.
Lei, monsignor Piero Coda, è il presidente dell’Associazione teologica italiana, dunque uno dei massimi esperti di ciò che il mondo intellettuale cattolico ha prodotto e continua a elaborare nell’ambito della riflessione su Dio e sulle ragioni della fede. Nel contempo, è uno degli uomini di Chiesa maggiormente impegnati nel dialogo con le altre fedi, ma anche con i più autorevoli esponenti della scienza e della filosofia odierna, con quel mondo laico che le riconosce una grande capacità di attenzione alle argomentazioni di chi si trova «sull’altra sponda».
Per sgombrare il campo da ogni equivoco, e anche per stimolarla in qualche modo ad aprirsi fino in fondo, vorrei però partire da un interrogativo in apparenza scontato, ma in realtà fondamentale. Lei è proprio convinto che valga ancora la pena di interrogarsi su Dio? Quali sono le sue motivazioni?
PIERO CODA Non soltanto ne sono convinto a livello soggettivo, ma ritengo che la domanda su Dio sia tenacemente, anzi inestirpabilmente, radicata – in modo più o meno consapevole – nel cuore e nella mente di ogni persona, come del resto dimostra anche quella attenzione da parte dell’opinione pubblica che lei stesso riscontrava.
I motivi sono essenzialmente due. Il primo è di carattere squisitamente personale. Se le donne e gli uomini d’oggi, come quelli di ieri e di sempre, non continuassero a interrogarsi intorno a questa realtà che interpella l’identità umana, la loro personalità risulterebbe tarpata nella sua espressione, nel suo cammino, nel suo destino. Il profondo e doloroso disagio esistenziale che a livello individuale constatiamo nel nostro tempo, e che tocca tante persone, deriva in definitiva dalla mancata risposta alla domanda sul senso ultimo della vita.
Il secondo motivo è di carattere collettivo, anzi oserei dire addirittura planetario. La nostra società – sia intesa come il piccolo ambito nel quale ci troviamo a vivere, sia guardata in modo ampio e universale – ha perduto tanti punti di riferimento morali, culturali, religiosi che l’hanno sostenuta nel passato e si trova disarmata di fronte alle acute sollecitazioni che derivano dal progresso tecnologico, dall’ingegneria genetica, ma anche dalla convivenza tra i popoli e in definitiva dall’orizzonte per la prima volta decisamente globale della storia umana. Senza scavare nel senso ultimo del nostro esistere, rispettando la libertà e le tradizioni di ciascuno, non è possibile fronteggiare adeguatamente queste enormi sfide.
Sono perciò convinto che oggi sia necessario riproporsi ancor più radicalmente, in maniera genuina e onesta, con apertura di spirito e senza pregiudizi, la questione di Dio. È la problematica basilare per la sopravvivenza e il futuro dell’esistenza umana, sia personale che collettiva. Poiché da essa, in definitiva, dipende la questione stessa dell’uomo.
Filosofi, poeti, scienziati si sono da sempre interrogati sull’esistenza o meno di Dio. Ritiene che sia questa la sfida più vitale alla quale ogni uomo deve rispondere?
Certamente! Secondo la definizione biblica della persona come immagine e somiglianza di Dio, l’essere e l’esistere dell’uomo e della donna consistono nella relazione con Dio. Anche il rapporto che ciascuno ha con se stesso, col mondo, con l’intero creato è attraversato dalla relazione con Dio.
Ma occorre comprendere queste affermazioni nel modo giusto, per non interpretarle come una critica senza appello rivolta agli uomini e alle donne del nostro tempo che, con sincerità e spesso con sofferenza, non riescono a credere in Dio. Il Concilio Vaticano II ha più volte sottolineato che l’uomo il quale nella propria coscienza, attraverso l’esercizio della libertà, si indirizza al bene e al vero senza giungere al riconoscimento dell’esistenza e della presenza di Dio nella storia, è comunque in rapporto con Dio e ne riceve il dono della grazia e della comunione con lui.
Anche se la relazione con Dio – per tutta una serie di cause: culturali, psicologiche, sociali, morali – non viene riconosciuta e affermata esplicitamente, Dio è sempre presente all’uomo, poiché quello che in ultima analisi caratterizza la persona è la sua disponibilità e volontà ad aprirsi alla verità e all’amore, che in definitiva sono irradiazioni dell’esistenza stessa di Dio.
Ma, a suo parere, c’è in tutti la sete di un assoluto che dia risposta al cuore dell’uomo, o piuttosto la moderna realtà ha in qualche modo tarpato questo desiderio di infinito?
Il desiderio – un termine classico, il cui significato coinvolge l’integralità dell’essere umano – di conoscere Dio è presente in chiunque, anche oggi. Il cuore dell’uomo è fatto per Dio: in esso risuonano quelle vibrazioni profonde che lo sintonizzano verso qualcosa, o meglio Qualcuno, che, pur avendo un volto misterioso e un’identità tutta da scoprire, è raggiungibile se ci si incammina con sincerità lungo una strada nascosta, difficile anche, ma che conduce senz’altro alla meta. Ieri come oggi è vero quanto scriveva sant’Agostino: il cuore dell’uomo è inquieto fin quando non riposa in Dio.
E questo vale anche per chi – nell’età moderna – nega la realtà della trascendenza e del mistero. In tal caso, infatti, il desiderio di Dio viene proiettato su valori che, pur essendo storici, vengono caricati di significato assoluto: oggi, per esempio, la scienza o la libertà, così come in un recente passato alcune correnti socio-politiche che si presumeva potessero cambiare definitivamente il mondo. Ma in questa assolutizzazione si nasconde un pericolo tragico: ciò che viene caricato illusoriamente di un tale spessore è in definitiva distruttivo per l’uomo, quando questi finisce con l’accorgersi della sua relatività e addirittura inconsistenza, a prescindere dal riferimento a Dio.
Nell’ormai tramontante tempo della modernità, l’enorme sviluppo delle potenzialità umane in ogni ambito della scienza e della tecnica ha attirato l’attenzione in una direzione semplicemente terrena, facendo obliare l’orizzonte ultimo di senso nel quale si spalanca il rapporto col mistero di Dio. Anche se, contemporaneamente, con la crisi delle ideologie e di fronte agli scenari inquietanti che si aprono in virtù di una tecnologia non illuminata dal senso ultimo del vero e del bene, si sono infranti tanti preconcetti e il cuore dell’uomo torna a ricercare spazi in cui il Cielo si faccia nuovamente visibile.
In effetti una caratteristica che in ogni epoca e civiltà ha contraddistinto l’uomo è stata l’interrogarsi sull’esistenza di un potere esterno e superiore a lui…
La domanda sull’esistenza e sull’essenza di Dio racchiude, sintetizza e porta alla massima espressività tutte le domande dell’uomo. Un mistico indiano del 1500, Kabir, esprime così la sete di Dio dell’uomo: «A chi lo confiderò, Signore, se non a te? Io ho ricevuto una ferita dolorosa. Il pugnale della separazione ha trafitto la mia anima. Notte e giorno mi tormenta. Chi può conoscere il dolore che io soffro? Non vi è medico più grande di te, né ammalato più grande di me. La sofferenza mi possiede tutto. Come potrò sopravvivere separato da te? Passo i giorni e le notti ad attenderti».
Accenti analoghi, con parole e in forme diverse, riecheggiano in tanti salmi dell’Antico Testamento e negli innumerevoli testi dei cercatori di Dio di ogni religione e cultura.
La questione di Dio è dunque esistenziale, prima che teoretica, nel senso che tocca la realtà più profonda dell’esistenza dell’uomo e, con modalità diverse, è costante in tutto il percorso di ciascuna vita umana. Potremmo addirittura azzardare che la persona umana «è» questa domanda di Dio, poiché l’uomo è il perenne interrogativo sulla propria origine e sul proprio destino.
Anche la storia delle religioni e delle civiltà documenta – a ogni latitudine geografica e culturale – la presenza di una dottrina e di un culto intorno a Dio o almeno al Divino, quella che il grande studioso Mircea Eliade ha definito «la quasi-universalità della credenza in un Essere divino celeste, creatore dell’universo e garante della fecondità della terra». Questa credenza – che si esprime in molteplici e variegati simboli, miti e riti – risponde al bisogno di senso globale dell’uomo: del suo esistere, del convivere sociale, dell’ambiente cosmico in cui è inserito.
In essa possiamo riscontrare una struttura verticale, con il mondo diviso in due sfere, una «in alto» e l’altra «in basso»: quella del sacro e quella del profano. Tra le due vi è però una comunicazione in entrambi i sensi: dall’alto, il sacro irrompe verso il basso, nel profano, attraverso delle manifestazioni di sé (le cosiddette «ierofanie») con cui si impadronisce di un oggetto del nostro mondo facendone un simbolo della sua presenza; dal basso, il profano (l’uomo) cerca di penetrare nella sfera del sacro, s’ingegna a salire in alto con la preghiera, il rito, soprattutto con l’offerta e il sacrificio delle proprie cose e persino di se stesso.
Accanto e strettamente articolata con questa struttura verticale ce n’è una orizzontale, rappresentata dall’insieme delle credenze e dei riti religiosi che vengono a costituire il collante, la forza intima di coagulo religioso ed etico della convivenza tra gli uomini. In tal senso, l’esperienza religiosa svolge una funzione sociale decisiva, anche se ambivalente, come notava il filosofo Henri Bergson: talora diventa il fattore di stabilità, di conservazione, di immutabilità del vivere collettivo, quasi la più alta garanzia dello status quo; tal’altra si manifesta come il fattore del più dirompente dinamismo profetico e rivoluzionario che sconvolge un dato ordine socio-culturale e lo spinge verso un assetto nuovo. Ed è proprio in questa seconda direzione che si esprime il soffio di vita promettente e creativo che pervade l’autentica esperienza religiosa.
Nei circa seimila anni da quando l’uomo ha iniziato a comunicare anche per iscritto, non v’è lingua nella quale non appaia un vocabolo per designare il concetto di questa potenza sovrumana. E questo marcia di pari passo con la comprensione che l’uomo ha di se stesso a livello della conoscenza razionale e della responsabilità etica.
L’esperienza fondamentale che facciamo come persone è quella di sperimentare – nella trama della nostra vita quotidiana – un’apertura all’infinito che abita e indirizza il nostro essere più profondo. Quando ci autodefiniamo come realtà dotate di intelligenza, vogliamo esprimere il dato di fatto che la nostra conoscenza dischiude un orizzonte che è inesauribile. Certamente sono tante le cose che non conosciamo, tante le zone della realtà che ci restano oscure. Ma dentro di noi c’è l’anelito a una comunione piena con tutto ciò che è. Nella tradizione del pensiero occidentale, da Aristotele a san Tommaso d’Aquino, si dice che l’anima umana, attraverso la conoscenza, diventa in certo modo «tutte le cose». Con questa formula si vuole intendere che nella nostra intelligenza siamo capaci di accogliere tutte le realtà con le quali veniamo a contatto e di farle nostre, vivendo in una profonda comunione con esse.
Ciascuno di noi percepisce il proprio infinito desiderio di amore e di unità, capace di abbracciare l’universo e Qualcuno più grande dell’universo. Tale apertura, che segna indelebilmente la libertà, l’intelligenza e il desiderio della persona, è il sigillo del fatto che essa è creata da Dio come l’essere fatto per conoscerlo, riconoscerlo ed entrare in comunione con lui. Proprio questo caratterizza l’essere umano rispetto a tutte le altre creature del mondo visibile. Questa esperienza, che è il punto di partenza di ogni grande pensiero filosofico, è ciò che viene espresso con una formula semplicissima, ma di straordinaria potenza e incisività, all’inizio della Bibbia, là dove la Genesi narra che la persona è creata «a immagine e somiglianza di Dio».
Soltanto dell’uomo e della donna si dice questo, a significare che la loro creazione ha avuto Dio stesso quale modello, e quindi che essi sono specchio vero del Divino nel mondo. Secondo quanto afferma la tradizione ebraico-cristiana, la persona è dunque forgiata dalla libertà e dall’intelligenza essendo quell’essere che si trova «di fronte a Dio» – l’immagine sta appunto di fronte a colui del quale è figura – ed è quindi chiamata a entrare in relazione con lui, a udire la sua parola, a rispondere e a donarsi a lui.
Pensando alla storia dell’universo, che ormai le scienze ci insegnano a leggere come una realtà dinamica, immagino il momento nel quale per la prima volta si è accesa la scintilla della coscienza umana. Mi piace pensare alla sorpresa che l’uomo ha provato nel percepire in sé la capacità di trascendere l’universo entro il quale vive, per mettersi in contatto con chi è all’origine di tutto. E mi piace pensare a Dio stesso che – pur avendo previsto nel suo disegno di luce e di amore questa creatura fatta per entrare in comunione con lui – certamente deve aver provato un’indicibile sorpresa nel momento in cui per la prima volta ha ricevuto, nell’universo da lui creato, la risposta libera e intelligente della persona umana.
Lei ha detto di parlare di Dio e della fede «per esperienza». A che cosa si riferisce? E se invece questa esperienza manca, che cosa permette ugualmente di percepire che Dio è una domanda per il cuore dell’uomo?
È vero, occorre una precisazione. Parlare di esperienza nella cultura d’oggi ha perlopiù un significato riduttivo: poiché si ritiene dato di esperienza soltanto ciò che è tangibile o verificabile tramite esperimento. Essa è invece qualche cosa di molto più ricco, profondo e universale. Un esempio: quando parliamo di esperienza estetica ci riferiamo al giudizio che diamo su un’opera d’arte, e questo certamente non avviene in base a criteri di oggettività empirica o scientifica!
L’esperienza di Dio si pone su un altro livello ancora: in essa mi trovo di fronte a un orizzonte infinito di verità e di bene verso il quale posso aprirmi. Ma c’è anche un movimento in direzione opposta, che viene prima e suscita il secondo movimento: quello di Dio che viene a visitarmi. Si tratta di un fatto riscontrabile e testimoniato nella storia dell’umanità. O devo forse ritenere frutto d’illusione e d’inganno tutte le esperienze di Dio che mi sono narrate e tramandate dai documenti che attestano la storia religiosa dell’umanità?
Come cristiano, per esempio, mi inserisco vitalmente in una lunga tradizione che mi fa compagno di una storia cominciata nella notte dei secoli. Così la mia esperienza di Dio s’inserisce in quello scatto nuovo impresso nella storia religiosa dell’umanità dalla chiamata che Dio ha rivolto ad Abramo e con la quale ha preso avvio il cammino di Israele: quando Dio viene conosciuto come il garante e il liberatore dell’uomo, a livello personale e sociale.
Essa passa poi, e per la fede cristiana culmina, in ciò che Gesù ha testimoniato del suo rapporto singolare con Dio e la Chiesa mi trasmette. La esprimo, questa esperienza di Dio, per esempio quando prego il Padre nostro, ogni giorno e più volte al giorno: è una preghiera che entra nelle pieghe profonde del mio essere e lo plasma, facendomi vivere da figlio. Così scopro, nella dimensione dell’amore, il volto di Dio che è Padre da Gesù annunciato. Un Dio che – come dice il titolo del nostro libro – crede in me e in ciascuna delle sue creature, poiché ci ha creati e ci vuole figli posti alla sua altezza, offrendoci la pienezza della vita che ospita in sé.
La grande sfida che la cultura è chiamata oggi ad affrontare è dunque quella di liberarsi di un riduzionismo che ha relegato la questione religiosa nella sfera del soggettivo, dell’emotività, del sentimento. L’ambito religioso è invece anche qualcosa di oggettivo, seppure di una oggettività – ribadisco – che ha un altro timbro rispetto all’ambito di ciò che è sottoposto all’esperienza verificabile scientificamente.
Anche chi non vive un’esplicita vita religiosa porta in sé domande che oltrepassano quanto è verificabile e toccano l’orizzonte dei significati e delle attese che investono il senso ultimo dell’esistenza. L’uomo è un essere che per definizione s’interroga ed è proiettato a valicare i limiti di ciò che lo circonda. Ogni persona reca in sé una ferita che lo spinge a ricercare quel rapporto definitivo, assoluto, che lo colmi di luce e di amore.
In fondo, già parlare di mistero – non soltanto in prospettiva religiosa, anche in una prospettiva laica – è lasciare aperto lo spazio a Dio: perché si manifesta così la coscienza di un orizzonte che avvolge e determina l’esistenza. Anche se, essendo un orizzonte al di là di tutto, non lo si può padroneggiare.
In questo «fare esperienza» di Dio c’è anche un contributo che deriva dalla dimensione mistica?
La mistica è un’esperienza profonda e singolare di Dio che troviamo, in varie forme ed espressioni, in tutte le tradizioni religiose. Ciò che i mistici narrano del Divino non sono nozioni teoriche o speculazioni intellettuali, bensì vere e proprie esperienze segnate da un timbro peculiare di forza e di evidenza: i loro racconti nascono infatti da un incontro vivo e vissuto con Dio, il quale si mostra in un modo che si può definire addirittura tangibile, per i sensi dell’anima, a colui che lo ricerca appassionatamente e gli si apre senza condizioni.
Nella mistica che fiorisce sul tronco delle grandi religioni orientali – taoismo, induismo, buddhismo – viene sottolineata l’impossibilità di descrivere il Divino con parole umane, perché chi lo ha conosciuto direttamente non può avere distinta coscienza di quanto ha vissuto: infatti, come per esempio narra Plotino nelle Enneadi, nell’unione mistica viene superata, a livello di consapevolezza, la distinzione stessa fra il Divino e la persona che ne fa esperienza.
Le religioni monoteiste innestano su questo sfondo la realtà della testimonianza tramite una parola che, pur nel riconoscimento dell’impossibilità di trasmettere la ricchezza sovrabbondante di ciò che il mistico ha sperimentato, riesce comunque a comunicare la densità dello stupore e la carica di trasformazione dell’incontro vissuto. E ciò poiché è Dio stesso ch...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5