Italia segreta
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Italia segreta

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Italia segreta

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Sotto le nostre case e le nostre strade esiste un universo sotterraneo, che è al contempo fondamento fisico delle nostre città e radice culturale della nostra storia. Un'Italia segreta, vagheggiata, mitizzata, spesso temuta e quasi sempre sconosciuta. In una versione assolutamente reale del Viaggio al centro della Terra di Verne, Mario Tozzi ci accompagna negli inferi del Bel Paese, mostrandoci una realtà che conosciamo poco e male, fatta di catacombe, cunicoli, acquedotti e antiche città. Dalle viscere del Vesuvio alle profondità occulte di Torino, Bologna e Roma; dai cunicoli arabi di Palermo alla civiltà sommersa degli etruschi, passando per quella città unica - Matera - in cui la gente ha abitato per centinaia di secoli anche il sottosuolo. Perché la storia degli uomini è sempre stata legata a quella della Terra, e la conformazione sotterranea del nostro pianeta ha condizionato lo sviluppo tanto delle civiltà antiche quanto di quelle moderne. Con la competenza dello studioso e la capacità di fondere storia e scienza in una narrazione sempre coinvolgente, l'autore racconta un mondo rovesciato, spesso più affascinante di quello che abbiamo costruito in superficie.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858607107
Categoria
Geography
Logo Italia segreta.

In questo libro

E d’altra parte la sapete una cosa? Io sono convinto che nostro fratello che vive nel sottosuolo lo si debba tenere alla cavezza. Sì, perché per quanto egli sia capace di restarsene lì zitto nel suo sottosuolo, foss’anche per quarant’anni, il giorno che poi viene fuori non ce la fa proprio a trattenersi, e si mette a parlare, parlare, parlare...
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo
C’è un’Italia segreta sotto le nostre case e sotto le nostre strade, un luogo di misteri che è, nello stesso tempo, fondamento fisico delle nostre città e radice culturale della nostra storia. È una stratificazione fittissima, creata dal lavoro geologico del pianeta Terra, dagli animali che qui hanno vissuto, e poi dai nostri antenati più prossimi. Il sottosuolo dell’Italia è una straordinaria commistione di rocce, suoli, humus, acque e sali, ma è anche il prodotto del lavoro di uomini e donne, impostato sulle conseguenze di vulcani e terremoti. Quasi nessuno lo conosce direttamente, eppure molti ne favoleggiano, altri ne sono attratti e i più ne hanno una atavica paura. Spesso gli uomini immaginano il sottosuolo della propria città come un contenitore misterioso di leggende e miti, popolato di simboli e paure, oltre che di cunicoli e fognature. Coccodrilli inselvatichiti – perlopiù albini e ciechi (neanche fossimo nelle fogne di New York) – serpenti e malfattori in fuga, trovano sempre ospitalità in un dedalo di viuzze e caverne sotterranee nascoste alla vista. Per questo motivo, i sotterranei sono anche luoghi dove il Potere ha spesso agito indisturbato, dalla Roma imperiale alla Prima Repubblica. D’altro canto, lo stato del sottosuolo di città come Palermo o Napoli è responsabile di molte fra le decine di migliaia di buche e cavità che si aprono ogni anno nelle strade. Persone, automobili e intere ali di palazzi scompaiono, spesso drammaticamente, inghiottiti da un mondo sotterraneo sempre più simile a una immensa groviera. In questo libro mi sono chiesto cosa ci attrae del sottosuolo e perché, ma anche le ragioni di quell’atavica paura. E per rispondere a tali domande ho intrapreso una specie di giro sotterraneo d’Italia. Sono, effettivamente, stato in tutti i posti che ho descritto e ne ho ricavato l’impressione di un mondo rovesciato, molte volte più affascinante di quello che ci abbiamo costruito sopra.
All’inizio non pensavo potesse esserci granché di misterioso nel sottosuolo, per esempio, di Roma, e – pur volendo lasciare uno spazio alla suggestione dei miti e delle catacombe – la geologia dell’Urbe la conoscevo bene, persino nei dettagli. Alla fine del mio tour, invece, mi sono dovuto ricredere: c’è ancora tantissimo da esplorare, capire, apprendere in quel mondo ipogeo scavato e frequentato da migliaia di anni. Stesso ragionamento vale per Napoli. Ma è nelle viscere di Palermo e di Gravina di Puglia, a Bologna e a Trieste, per non parlare di Cagliari e Torino, che ho cambiato definitivamente idea: come disse qualcuno, ci sono molte lacune nella nostra ignoranza, e nessuna affermazione è più vera se si tiene conto di quanto poco conosciamo il nostro sottosuolo. Ma in fondo è comprensibile che sia così: non tutti vogliono saperne di più del luogo in cui, inevitabilmente, finiremo.

Leggende del tufo, la Napoli sotterranea

Di come si accudiscono le anime pezzentelle nel segreto del tufo e di come si possa «scolare» nel sottosuolo e biancheggiare poi in bella mostra come divinità. Di una città gialla e antipodale fatta di cave, cisterne, cunicoli e rifugi antiaerei dove ci si accoppiava sotto il fragore delle bombe. Delle acque sotterranee e delle voragini, delle fogne monumentali e degli spiritelli dei pozzi.
La peste sottoterra
Se fossi stato colpito dalla peste che nel 1656 funestò la città di Napoli, sarei probabilmente morto per strada. E – se non avessi avuto parenti o mezzi – qualcuno mi avrebbe raccolto e scaricato in una delle tante cave di tufo che rimanevano aperte, anche nelle zone centrali della città, perché le vittime furono tali e tante da saturare tutte le chiese e le cripte disponibili. Depositato su uno degli «scolatoi» laterali, appena all’ingresso della cava più importante, i muscoli e la carne si sarebbero «sciolti» lentamente e io sarei «scolato» inesorabilmente nel sottosuolo. Questo perché a Napoli il sistema di inumazione era praticato in apposite celle chiamate «cantarelle», nicchie a forma di sedie con un vaso sottostante. Il cadavere veniva messo a sedere, con la testa inserita in una fessura scavata nel tufo, fino a quando tutti gli umori erano scolati e il corpo, rinsecchito, poteva essere appeso nel cimitero sottoterra. Dall’intera operazione, detta di «sculatura», nasce peraltro la tremenda maledizione in vernacolo «puozze sculà», cioè possa morire liquefacendoti lentamente.
Per scendere al cimitero degli appestati si deve penetrare nel fondo del rione Sanità, alla fine di una via che neppure i tassisti napoletani conoscono bene, una strada che ribatte esattamente il percorso di un antico corso d’acqua scomparso, il Vallone dei Gerolomini, che drenava le acque piovane della zona collinare del Vomero. Cimitero delle Fontanelle si chiama, per via delle numerose sorgenti che un tempo punteggiavano l’area, alimentate dalla grande falda sotterranea delle colline della città. Accanto al più grande e noto degli ossari storici cittadini sono dislocate altre cave che fino al secolo scorso fornivano i materiali di costruzione di tutta la città, e oggi sopportano una diversa destinazione: garage, ricoveri per mercanzie e depositi di materiali edili, addirittura luoghi per essiccare stoccafisso e baccalà. Il cimitero delle Fontanelle è l’ultima cava, quella più vicina al vallone, forse la più nascosta e protetta.
L’ingresso è come una navata di chiesa, con volte trapezoidali alte più di 15 metri. Mentre la luce dall’esterno si attenua man mano che si avanza, possiamo scorgere l’incredibile successione di teschi bianchi appoggiati su un muretto di tibie, ulne, femori e altre ossa lunghe per uno spessore di quasi un metro. Gli antichi scolatoi sono ricoperti dalle ossa di almeno 40.000 corpi, ma si ipotizza che fossero alcuni milioni gli uomini, le donne e i bambini seppelliti qui: ogni scavo effettuato al di sotto del piano di calpestio ha rivelato ossa, ossa e ancora ossa, per altri 15 metri circa di profondità, poi riempiti da terreni di risulta e materiali di ogni genere.
Ma a chi appartenevano quei corpi, e perché sono finiti qui? Si trattava di povera gente che non poteva permettersi una sepoltura, non aveva parenti e moriva per epidemie, carestie o in modo violento, e ogni tanto per colpa del Vesuvio. Ma vi arrivarono persino gli scheletri delle «terresante», le sepolture delle chiese bonificate da Napoleone. La pietà popolare li depositava nelle cavità sotterranee non solo alle Fontanelle, ma anche nelle catacombe di San Gennaro e in quelle di Santa Maria del Purgatorio ad Arco. Il cimitero delle Fontanelle fu utilizzato la prima volta come sepolcreto proprio nel 1656, poi durante la carestia del 1764 e ancora altre volte, almeno fino all’Editto di risistemazione dei resti mortali del 1837, arrivato quando il camposanto delle Fontanelle era ormai stracolmo di scheletri e cadaveri.
Abbandonati in vita, quei resti non rimanevano però soli, una volta divenuti scheletri: ancora oggi, le pareti in tufo del cimitero non contengono soltanto ossa bene ordinate, ma anche una serie impressionante di edicole e teche votive in marmo o in legno (ho visto perfino una cassetta per la frutta fungere da reliquiario) con dentro da uno a sei teschi. Chi vedeva apparire in sogno le anime dei defunti (o voleva apparissero) scendeva nel cimitero delle Fontanelle a scegliere un teschio da adottare e cui affidare i propri voti. I teschi si rivelavano presto miracolosi, ma se per caso non lo fossero stati, se ne poteva sempre affiancare un altro nella teca, pur senza scacciare il primo, e così via fino a che gli auspici venissero finalmente realizzati. I favori corrisposti in sogno potevano essere talmente grandi (per esempio una buona vincita al lotto, un consiglio per uscire da situazioni difficili) da far assurgere a una specie di santità locale il teschio scelto. All’interno dei crani fiorivano così migliaia di bigliettini, fiori, fotografie, disegni e altre richieste o ringraziamenti alle «cap’e muort». «Anima bella, venitemi in sogno» recita uno di questi bigliettini «e fatemi sapere come vi chiamate. Fatemi la cortesia di farmi uscire la mia serie della cartella nazionale, fatemi questa grazia.» Ma c’era anche chi chiedeva notizie del figlio inviato in guerre lontane o di altri cari scomparsi.
Le ossa e i teschi sono ricoperti di polvere, a causa dello sfaldarsi del tufo e del passaggio di uomini. Tutti tranne uno: il teschio cosiddetto del Capitano, che rimarrebbe inspiegabilmente lucido nonostante il tempo che passa. Il biancheggiare nell’oscurità della pietra consentiva di vedere il segnale del responso: una luce vivace segnalava un esito positivo, al contrario di quando restava opaco. A causa della grande umidità presente all’interno della cava, l’accensione di candele e ceri poteva provocare evidenti fenomeni di condensazione proprio sulle ossa e in particolare sui teschi. Il popolo napoletano riteneva addirittura che quei teschi sudassero miracolosamente, come a manifestare che avevano comunque preso in considerazione i suoi desiderata.
L’intera cava delle Fontanelle si estende per quasi 5000 mq a una profondità variabile da qualche metro a una decina di metri, ed è completamente scavata nel cosiddetto Tufo Giallo Napoletano, una formazione geologica che deriva dal consolidamento e dalla cementazione delle ceneri eruttate dai Campi Flegrei circa 12.000 anni fa. A quel tempo una clamorosa esplosione (parecchie volte più potente di una nucleare, sebbene il paragone non sia proprio calzante) sventrò la zona a nord della futura Napoli, alimentata da oltre 50 km cubici di magma (in confronto, la famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. emise «solo» 3 km cubici). Le ceneri di quella spaventosa eruzione sono poi ricadute su 350 kmq, modificando per sempre il paesaggio e, nel contempo, fornendo agli uomini, che lì si sarebbero insediati, una straordinaria quantità di materiale da costruzione di facile reperimento. Materiale che doveva però essere cavato, e dove, per maggiore convenienza, se non da sotto i piedi? All’inizio si cavava con cura, lasciando grandi pilastri di roccia a sostenere le volte, ma già nel XIV secolo la città risultava abbondantemente sforacchiata, favorendo, così, l’apertura improvvisa e drammatica di voragini. Per questo si è dovuto intervenire, come alle Fontanelle, dove le enormi navate e l’esiguità dei grandi pilastri di tufo hanno subìto innovativi interventi di consolidamento attraverso chiavi, tiranti e piastre d’acciaio, opportunamente mascherati per non farli notare. Alcuni pilastri hanno dovuto essere cinti da grandi bretelle d’acciaio che ne rendessero duratura l’opera di sostegno, soprattutto a seguito del terremoto irpino del 1980, che aveva aperto alcune fratture e fatto crollare schegge di roccia. Per non parlare delle infiltrazioni di acqua, soprattutto di acque luride non ancora adeguatamente convogliate, che interessavano le volte del camposanto rendendo necessari drenaggi e rinforzi. Grazie a questi interventi, il cimitero delle Fontanelle è stato da poco riaperto al pubblico. È così possibile «sentire» quel mix di vulcano e di sacro tipicamente napoletano che, da San Gennaro al presepe di San Gregorio Armeno, è una costante della città antica.
Tutta la città di Napoli costruita fino alla Seconda guerra mondiale è stata edificata con materiale estratto direttamente dal territorio del Comune stesso. Come a dire che Napoli non esisterebbe affatto se non ci fosse stato il Tufo Giallo e che i napoletani non vanno ricordati soltanto per mandolini e tarantelle, ma soprattutto per attrezzi da scavo e sistemi meccanici di risalita: un popolo di cavatori, prima ancora che pizzaioli. E l’eccellenza di tali maestranze è tutt’oggi riconosciuta. Il Tufo Giallo è il fondamento fisico e culturale della città, ha guidato l’ubicazione delle case e delle opere fino all’avvento del calcestruzzo. L’intera Napoli è costruita con lo stesso materiale del sottosuolo, quello che i geologi chiamano piroclastite, a sostituire l’antico termine tufo che, però, resta nel linguaggio comune: una roccia in cui la frazione sottile predominante è costituita principalmente da ceneri, grandi al massimo come granelli di sabbia. Quando lo prendi in mano il tufo è di un caratteristico colore giallo paglierino e risulta tanto tenero da poter essere graffiato con le unghie: come è possibile che costituisca lo scheletro della città? In realtà si tratta di una roccia eccezionalmente leggera, per la quale i carichi di fondazione sono straordinariamente bassi, come a dire che non si raggiungono mai valori di rottura e i cedimenti sono scarsi. Il Tufo Giallo è poi facilmente lavorabile e si riduce in conci regolari (una volta molto importanti per costruire), è poco faticoso da trasportare, anche a mano, e infine rende un’ottima presa con le malte cementizie.
L’opera di estrazione non si è in pratica mai interrotta dai tempi del mitico popolo dei Cimmeri e risuona nelle leggende. Gli antichi ipotizzavano, addirittura, che si potesse attraversare l’intera Campania sottoterra. Nella realtà era un lavoro faticoso e terrificante: bisognava arrampicarsi lungo una serie di caratteristici fori che salivano fino alle volte, spesso in contropendenza (grippiate). E c’erano diversi tipi di cave, a cielo aperto o in sotterraneo, con aperture al di sotto del piano di calpestio o sul fronte, cave in fossa o «a baviglione» (che si aprivano allargando i pozzi di aerazione), le cui tracce si leggono ancora perfettamente nel centro cittadino, anche quando la cavità viene totalmente obliterata dagli edifici: è il caso di quei palazzi che hanno accessi da strade diverse, magari uno al piano terra e l’altro all’ultimo piano, a testimonianza dell’appoggio ad antichi fronti di cava su livelli differenti.
Insieme alle ceneri, i Campi Flegrei eruttavano anche pomici che poi si depositavano in banchi, schiacciati a forma di mandorla, che potevano arrivare a un paio di metri di spessore e venivano anch’esse intensamente cavate per realizzare solai particolarmente leggeri (già lo facevano i Romani, per esempio, nel caso della grande volta del Pantheon, che non si sarebbe potuta autosostentare con altri materiali più pesanti). Le pomici erano un problema perché, già poco coerenti, una volta scavate, rischiavano di sfaldarsi a ogni pioggia più abbondante del solito.
Muoviamoci ora verso l’uscita: altre due grandi navate scandiscono lo spazio del camposanto delle Fontanelle, in cui si aprono anche diverse cavità e pertugi che hanno quasi sempre ospitato cadaveri. Sebbene fosse al di fuori del perimetro dell’antica città greca, è probabile che il sito fosse già un cimitero, vista l’usanza dei Greci delle colonie di seppellire i propri morti accanto ai corsi d’acqua. Il culto delle anime dei morti è perciò sempre stata una consuetudine per i napoletani, ma quello delle anime «pezzentelle» (cioè povere e dimenticate) ha una sua leggerezza che lo rende unico, forse incline al paganesimo – che non è sicuro sia stato stroncato definitivamente dalla Curia nel 1969 – ma contrassegnato da una pietas difficile da trovare altrove. Anche le anime «abbandonate» si servivano dei sogni per trasmettere il loro desiderio di preghiere e offerte che potevano alleviare le pene del Purgatorio. L’usanza popolare di prendersi cura di questi crani senza nome, e trattarli come fossero parenti, era praticata con devozione, anche se legata al possibile vantaggio di una vincita al lotto. Così si conferiva una grande importanza spirituale a persone sconosciute, e dimenticate in vita, assimilandole di fatto agli antichi Lari familiari dei Romani, numi tutelari che guidavano le vicende quotidiane. Come scriveva il principe Antonio De Curtis, la morte, a Napoli, è sempre una «livella».
Rifugiarsi nelle cisterne
Alla fine del 1943 i napoletani ascoltavano con terrore l’ennesimo suono della sirena antiaerea mentre si dirigevano, rassegnati, al rifugio sotterraneo più vicino e – assiepati con centinaia (qualche volta migliaia) di persone – attendevano la fine dell’allarme. Con meno terrore, però, di quanto poteva accadere in situazioni analoghe in altre città d’Europa. Il sottosuolo di Napoli è una specie di ventre accogliente e sicuro, fatto di antiche ceneri vulcaniche consolidate, e sebbene cariato da decine di chilometri di cunicoli reggeva benissimo all’impatto dei bombardamenti. Di più: al di sotto della città odierna e del suo traffico impossibile, si estende un’incredibile città sotterranea, silenziosa e misteriosa, cui si accede dal cuore popolare di San Gennaro ai Tribunali, ancora in gran parte da svelare.
L’intero labirinto di cisterne e cunicoli è stato percorso per secoli con una certa continuità, almeno fino al 1940, quando una squadra di fognatori ne riportò addirittura una mappa allo scopo di individuare le cavità che potevano fungere da rifugi contro i bombardamenti. Lo stesso ufficiale Norman Lewis (autore di Napoli ’44) scrive di averli attraversati in lungo e in largo, nel 1944, alla ricerca di tedeschi superstiti. Vale la pena ripercorrere la discesa all’antico acquedotto Bolla, il vero acquedotto di Napoli, che ha costituito in pratica l’unica fonte sicura di approvvigionamento per almeno dieci secoli. La scalinata, realizzata proprio per favorire l’accesso al rifugio antiaereo, è la stessa che oggi ci permette di scendere nella Napoli sotterranea. Erano moltissimi i rami secondari di un tragitto che attraversa ancora il cuore della città e forniva acqua ai napoletani non, come avviene ai nostri giorni, direttamente alle tubature (come peraltro faceva l’altro acquedotto, quello augusteo), ma mediante anfore e recipienti di vario genere che venivano calati sul pelo libero dell’acqua, sia dal cortile dei palazzi sia direttamente dall’interno degli appartamenti. Un acquedotto in qualche modo primitivo, ma estremamente efficiente, anche se esposto perennemente al rischio di inquinamento, visto che correva quasi allo stesso livello della rete fognaria: una perdita o una rottura interessava immediata...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Italia segreta
  5. Indice