La dittatura europea
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La dittatura europea

  1. 202 pagine
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La dittatura europea

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L'Unione Europea, proposta più di cinquant'anni fa come un grande passo verso il futuro, nel 2007 ci è stata imposta come un processo giusto e inesorabile. Oggi, i risultati sono davanti agli occhi di tutti, eppure in molti faticano a vederli, perché ormai la macchina degli interessi politici ed economici che l'ha messa in moto a censurato le coscienze anche degli italiani, che accettano l'Unione come un dato di fatto, e con essa la perdita dell'identità nazionale, così come diversi diritti personali. In questo personalissimo e forte pamphlet, Ida Magli, tra le prime e più autorevoli oppositrici dell'Unione, risale all'origine di questo disastro, andando a cercare, nella teoria dei suoi incontri, principali colpevoli, senza sconti a nessuno, dalla cattiva politica alla Chiesa, dagli intellettuali pavidi ai banchieri pronti a imporre su tutti la loro legge. Il risultato è la storia di come un progetto nato solo sulle carte geografiche ha contribuito a renderci più poveri, meno sicuri, e certamente meno liberi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858613313
Argomento
Storia

1. Salvare l’Italia dall’Europa

Il lungo itinerario di una battaglia perduta

Il Pentalogo di Maastricht

Mi sono battuta con tutte le mie forze affinché qualcuno impedisse l’omicidio-suicidio di una delle civiltà più belle che l’umanità abbia prodotto senza riuscirvi. Ma quello che mi angosciava maggiormente era l’impossibilità di capire perché questo destino di morte sembrasse a tutti, salvo che a me, un evento ineluttabile, al quale era giusto adeguarsi sforzandosi di collaborarvi.
Maastricht era stato firmato nel 1992.1 Un Trattato il cui testo sembra scritto da esseri alieni i quali, in base ai loro concretissimi interessi di denaro e solo denaro, impongono a popoli altamente civili, con la sicurezza dittatoriale di chi non sa quello che dice e quello che fa, di centrare la propria vita, il proprio futuro, sulle regole del «mercato», assurto a infallibile divinità. O meglio, sulla libertà di un mercato che, unico personaggio nel teatro di Maastricht, non soltanto non ha bisogno di regole, ma addirittura garantisce il suo più giusto funzionamento esclusivamente se gode di un’assoluta libertà.
La sua libertà, perciò, al di sopra di quella degli uomini, contro quella degli uomini, è la nostra prigione. Le «virtù» degli adepti del nuovo Dio si misurano nelle cifre dei loro bilanci, in un Pentalogo, chiamato «Parametri» (o criteri di convergenza), che fissa quali debbano essere e mantenersi per sempre i rapporti fra i cinque dati nei quali è racchiusa la vita dell’umanità.
Li riporto qui nella convinzione che la grandissima maggioranza degli Italiani e degli altri milioni di cittadini europei obbligati ad attenervisi, non li conosca affatto; e non li conosca perché nessuno ha voluto farglieli conoscere:
L’inflazione non deve superare di più dell’1,5 per cento quella dei tre Stati più «virtuosi»; 2) il tasso d’interesse a lungo termine non può essere più di due punti sopra la media dei tre Stati suddetti; 3) negli ultimi due anni bisogna aver rispettato i margini di fluttuazione dei cambi all’interno del sistema monetario europeo e non aver mai svalutato la propria moneta rispetto a quella degli altri Paesi membri; 4) il deficit annuale delle amministrazioni pubbliche non può eccedere il 3 per cento del Pil; 5) il debito pubblico complessivo non può essere superiore al 60 per cento del Pil.
Il «per sempre» di Maastricht, messo a sigillo di un Trattato fra Stati, cosa mai avvenuta prima perché la saggezza delle diplomazie è stata sempre solita lasciare uno spiraglio ai cambiamenti, dobbiamo tenerlo ben fisso nella memoria perché lo ritroveremo continuamente nel nostro itinerario. L’edificazione dell’Unione Europea e in prospettiva di tutto il mondo, non conosce il divenire della storia, non prevede necessità di cambiamenti perché si fonda sulla certezza che non possa esistere nulla di più perfetto. Era caduto purtroppo nella trappola di un’assoluta sicurezza ante litteram perfino un uomo dall’intelligenza geniale come Immanuel Kant, laddove il suo Progetto filosofico per la pace perpetua («perpetua» appunto)2 è fondato, come vedremo, su un fattore indispensabile, o meglio un fattore che Kant afferma essere indispensabile: il governo repubblicano, la democrazia. L’idea che non si possa – con il passare del tempo, con la riflessione sulla storia e sull’esperienza della storia che per gli uomini è l’unica vera fonte di apprendimento – inventare un sistema di governo diverso, migliore di quello repubblicano, è uno dei maggiori difetti del progetto kantiano. Ma, più che questo difetto particolare, ciò che spaventa nell’opera di Kant è l’abdicazione – da parte di uno dei maggiori filosofi dell’Occidente, il filosofo illuminista per eccellenza – al principio scientifico del «dubbio» che è preposto a ogni forma di conoscenza; l’aver dimenticato che una «ipotesi» è per definizione sempre suscettibile di una diversa e maggiore approssimazione alla verità.
È scaturita da questa certezza una forma di «sacralità» della democrazia che ha portato, come sempre quando il potere viene trasferito nell’ambito del Sacro, alle spaventose «certezze» del comunismo sovietico, uno dei migliori esempi di «dittatura democratica»; ma anche a forme di sacralizzazione del potere dei banchieri nell’Ue e a processi di paralisi e di involuzione parlamentare in quasi tutti i Paesi a governo democratico, dovuti proprio alla grottesca assolutizzazione «magica» della democraticità.
Ne troviamo innumerevoli esempi anche a casa nostra. Uno dei più evidenti consiste nell’ossequio al testo della Costituzione, come se non fosse stato scritto da comuni mortali, per giunta accecati dalle ideologie imperanti alla fine della guerra: il marxismo e l’europeismo. La bandiera di Marx sventola infatti nella ridicola solennità dell’affermazione che «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro», come se il lavoro fosse una divinità a sé stante, e non fossero gli uomini a lavorare. La frode europeista invece è nascosta in quell’articolo 11 che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Come sia stato possibile far scaturire da questo articolo l’eliminazione della proprietà del territorio della Nazione (Schengen), la perdita della sovranità monetaria e della moneta, l’obbligo di una nuova cittadinanza, di una nuova bandiera, di una nuova Costituzione, nessuno potrà mai spiegarlo. A questa evidente frode è stata aggiunta, poi, un’altra consapevole volontà fraudolenta: aver inserito l’unificazione europea nella politica estera, di cui fa parte l’articolo 11, affinché gli italiani fossero costretti a subire la perdita dell’indipendenza senza poter esprimere il proprio parere. La democraticissima Costituzione italiana, infatti, vieta il parere dei cittadini nei due unici veri campi di esercizio del potere: il sistema fiscale e il rapporto con l’estero. Ma capiremo meglio questo punto verso la fine della nostra ricerca, quando scopriremo che l’unificazione europea è stata voluta soprattutto dai «banchieri» e che l’articolo 11 è stato suggerito da un «banchiere», governatore della Banca d’Italia e membro dell’Assemblea Costituente, Luigi Einaudi, premiato poi con la prima presidenza della Repubblica italiana.
Un altro esempio ancora più grottesco si trova nel sistema di «scelta» dei parlamentari: non devono saper fare nulla dato che, una volta eletti, sanno fare tutto. Calciatori, canzonettiste, modelle, casalinghe, mogli di, amanti di, vedove di, figli di, giornalisti, conduttori televisivi… il panorama delle competenze di coloro che ci governano sembra quello del mondo alla rovescia. Ma è stata questa generalizzata incompetenza dei politici che ha permesso, o almeno ha reso più facile, a banchieri, economisti, esperti finanziari, di impadronirsi delle vere funzioni di governo, imponendone le regole a tutti. Maastricht nasce anche per questa totale delega da parte dei politici ai tecnici dell’economia, di ogni responsabilità nei confronti dei Popoli.
Come noteremo più volte lungo il nostro itinerario, l’Unione Europea rispecchia a ogni passo della sua costruzione questo «peccato originale»: mancano i popoli. E mancano perché chi gioca in Borsa, chi si occupa soltanto di denaro, e del modo di accrescerlo, neppure si ricorda che esistono gli uomini, anzi gli sarebbe d’impaccio ricordarlo. Il Trattato di Maastricht lo rivela continuamente. È per questo, perché è privo di qualsiasi riflesso d’umanità, che nessuno ha avuto il desiderio o la forza di leggerlo. Ma purtroppo questa è stata la sua fortuna: è andato avanti senza ostacoli perché, non avendolo letto, nessuno ha avuto neanche la voglia, la competenza per contestarlo.
Io, però, l’ho letto. La prima parte della mia battaglia contro l’unificazione europea è nata dall’orrore che ha suscitato in me; dalla constatazione che coloro che l’avevano pensato e sottoscritto erano dei despoti assoluti, quali ancora non erano mai apparsi nella storia, proprio perché non avevano alcun bisogno di riferirsi agli uomini per dettare il proprio disegno e le regole per realizzarlo. Non ne avevano bisogno al punto tale che le loro armi consistevano in multe in denaro per chi avesse disobbedito. Tutto il resto non aveva né senso né valore: la patria, la lingua, la musica, la poesia, la religione, le emozioni, gli affetti, tutto quello che riguarda gli uomini in quanto uomini, che dà espressione e significato al loro vivere in un determinato luogo, in un determinato gruppo, al loro contemplare un determinato paesaggio, al loro amare, soffrire, godere, creare, veniva ignorato.
Era mostruoso. Non potevo tacere. Dopo aver fatto tutti i tentativi che mi erano possibili per convincere qualcuno fra i giornalisti, i politici, i colleghi d’università, gli industriali, i medici che conoscevo, a organizzare un movimento anti-Maastricht senza riuscirvi, ho deciso di scrivere un libro.

Contro l’Europa

Era il 1997. Contro l’Europa3 era una dichiarazione di guerra senza equivoci e, pubblicato, anche qui senza timori, da una delle maggiori case editrici italiane, suscitava interesse proprio per la sua singolarità. Parlare male dell’Europa era qualcosa d’impensabile, praticamente una bestemmia. Né si poteva dire che tutti fossero a favore, perché questo avrebbe significato comunque ammettere che fosse possibile esprimere un giudizio. L’Europa – la si chiamava e la si chiama così, personalizzata, proprio perché deve essere percepita come fuori di noi, potente e sovrana su di noi – era presentata dai governanti come una divinità, la Dea Fortuna per eccellenza, la «Salvezza», con tutto quello che il concetto di salvezza porta con sé nell’immaginazione umana, tanto più in quella di un’Europa plasmata sul messianismo biblico e cristiano. L’Europa era la ricchezza, la felicità: insomma «tutto».
Prodi era andato al governo gridando agli Italiani come un novello Salvatore: «Io vi porterò in Europa!». Che fossero state necessarie per questo pellegrinaggio alla Terra Santa Europea macroscopiche svalutazioni della lira, la vendita a prezzi stracciati dei maggiori beni dello Stato4 e perfino una tassa apposita, la «tassa per l’Europa», non aveva incrinato la comune convinzione che dall’appartenenza all’Europa sarebbe disceso finalmente per gli Italiani il più giusto, il più onesto sistema di governo.
Il contesto, infatti, era quello di un’assoluta sacralità: le stelle di cui è cosparsa la bandiera dell’Unione sembravano la giusta rappresentazione dell’unica, vera stella splendente nell’empireo mondiale, quella dell’Europa. In che senso era una stella? Nessuno lo spiegava: era così e basta; troppo evidente per dover aggiungere nemmeno una parola.
Come mai, però, gli Stati più noti della storia, o meglio gli «Stati» per definizione, quelli che avevano riempito praticamente tutto il mondo, prima e dopo la scoperta dell’America, con le loro imprese di conquista, suggellandole sempre con il proprio nome, all’improvviso rinunciavano alla loro identità? Non erano forse giunti a duplicare se stessi nelle Nuove terre, immedesimandosi al punto da battezzarle come New England, New Jersey, New Orleans?… Anche i santi, i re, le regine, erano stati trasferiti con il loro nome in ogni luogo dove gli europei avevano messo piede, così che praticamente le Nuove terre rappresentavano soltanto una felice estensione e una copia di quelle originarie; la loro identità era la stessa di quella lontana ma presentissima dei conquistatori. San Francisco, Santo Domingo, Louisiana, Virginia… nomi, nomi, nomi. La sicurezza con la quale venivano impressi i propri sentimenti, la propria fede, i propri sogni nei luoghi scoperti come se fossero stati creati nel momento stesso della scoperta, non era dovuta soltanto all’umano desiderio di proiettare il proprio Io; era invece e soprattutto l’espressione di una assoluta certezza, quella di portare con sé il massimo bene, la «civiltà» per definizione: britannica, portoghese o spagnola, ma «civiltà» in assoluto.
Come mai, dunque, questi Stati a un tratto rinunciavano al proprio nome, alla propria identità, per immergersi nel mare indistinto di una mai esistita «europeità»? Perché? Perché? Da qualsiasi parte mi rivolgessi, più studiavo il progetto di unificazione europea, più i «perché» si accumulavano senza che riuscissi a trovare una risposta.

L’addomesticamento delle Scienze umane

Di per sé questo progetto è uno schiaffo alle Scienze umane. L’etnologia, la linguistica, la sociologia, la psicologia vengono ignorate totalmente, come se non fossero mai esistite. Ma soprattutto si tira un pugno in faccia agli antropologi. Una scienza, l’Antropologia culturale, che per due secoli ha affascinato l’Occidente aprendo gli occhi a tutti, anche ai più resistenti degli storici, sul vissuto culturale di ogni gruppo umano, sulla realtà di questo vissuto culturale come sistema significativo, un «tutto» concluso in se stesso. Chi non si era innamorato di Lévi-Strauss, di Margaret Mead, di Boas, di Kroeber, di Malinowski? All’improvviso questi nomi spariscono, questa scienza viene negata, con l’instaurazione di un disegno politico opposto. Opposto quasi punto a punto, come se la traccia lasciata dall’Antropologia fosse servita per indicare agli architetti dell’unificazione europea quali fossero i raccordi più fragili, dove collocare gli edifici antisismici.
In silenzio, ma in forma chiarissima, è come se fosse stato detto: cari antropologi, avete affermato che ogni popolo si forma appropriandosi di un territorio, che vive di una propria «cultura», che ogni lingua è il prodotto e insieme lo specchio di questa storia culturale, che gli individui appartenenti a un popolo si somigliano in funzione di una personalità di base comune, che ogni tratto di una cultura è interdipendente con tutti gli altri così da costituire una «forma», un «modello», persistente al di là della vita dei singoli individui. Ebbene, nulla di quanto avete detto è vero. Anzi, è talmente vero il contrario che non è valsa neanche la pena di discuterne: abbiamo agito e basta. Per fortuna abbiamo dalla nostra parte i marxisti che hanno ben volentieri occupato le cattedre di antropologia e questo ci ha permesso di non eliminarle formalmente; anzi, saranno loro a teorizzare quanto sia falso il concetto di «identità», a smentire gli studi dei Médecins-Philosophes, di tutti quei padri dell’Enciclopédie dei quali ci siamo così riccamente nutriti fino a oggi. Cabanis, Rousseau, Voltaire, Montesquieu, Helvétius, Condorcet? È da loro che hanno mosso i primi passi le moderne Scienze umane, sono loro che hanno promosso gli studi sui «selvaggi», perfino predisponendo le schede-guida per raccogliere i dati etnologici «sul campo», lo sappiamo bene. Noi, però, abbiamo fatto in modo che a poco a poco non venissero più citati consegnandoli al «ministero della Verità»5 affinché fossero cancellate e riscritte le pagine che ne parlavano. Sarà sufficiente abituarsi a trascurarne il nome nei libri di storia, far decadere le Scienze umane a discipline di seconda categoria. Abbiamo già tanto facilmente cancellato in questo modo i Romani, sebbene la lingua latina sia stata usata in Europa fino a poco tempo fa, la Chiesa cattolica la usi ancora e i loro monumenti siano sotto gli occhi di tutti… cancelleremo anche gli Illuministi e gli antropologi.
Riflettendo a tutto questo, mi è sembrato di poter concludere che le cose siano andate proprio così, che sia stato pensato e messo in atto il tipo di disegno di cui abbiamo intravisto in questa breve sintesi i connotati. I politici si sono limitati a dare l’ordine e come in ogni buona dittatura, tutti hanno obbedito.
Ma hanno veramente dato l’ordine? Come facciamo a esserne sicuri? Non ci sono prove. Eppure da un giorno all’altro giornalisti, politici, insegnanti, sacerdoti, hanno cominciato tutti, con assoluta disinvoltura, a dire il contrario di ciò che avevano affermato fino al giorno prima e nessuno ha protestato.

Il ministero della Verità

Avevo notato da qualche tempo che erano apparsi qua e là, in perfetta sincronia, negli articoli dei giornali, nelle trasmissioni televisive, nei discorsi dei politici, collocati al giusto posto, né troppo di frequente né troppo di rado, termini particolari, aggettivi funzionali a determinate idee, a volte perfino una nuova e assolutamente falsa definizione di un avvenimento storico. A un certo punto la frequenza di questi fenomeni è aumentata, come pure il campo di diffusione, e sono stata per forza costretta a credere che fosse stato dato un ordine.
Faccio un esempio, fra i mille possibili: da un giorno all’altro le due guerre mondiali del Novecento sono state trasformate concettualmente e definite: «Un’unica guerra civile». Una falsificazione della storia così clamorosa non ha però suscitato né una reazione di sorpresa, né un dibattito, né una protesta. Chi l’ha deciso? Non lo sappiamo. Ma soprattutto: chi l’ha pensato? Certamente non colui che lo dice o che lo scrive. Non si inventa un’idea del genere se non si ha uno scopo, e un progetto di rielaborazione della storia finalizzato a tale scopo. Di questo, perciò, possiamo essere sicuri: esiste un centro-laboratorio dove intellettuali, storici, linguisti, psicologi, lavorano a trasformare il significato della storia. È quel «ministero della Verità» raccontato da Orwell che, riscrivendo i giornali e i libri di storia, realizza il mirabile detto del partito, del Socing: «Chi controlla il passato controlla il futuro». Gli architetti dell’unificazione europea l’hanno messo in atto alla perfezione: riscrivono la storia non soltanto a favore dei potenti di oggi, cosa questa che tutti i vincitori hanno sempre fatto, ma in funzione dei concetti fondamentali sui quali deve trovare la propria logica il progetto di unificazione. Di qui, dunque, l’invenzione della «guerra civile»: tragica, orrenda frode nei confronti della «patria» e di tutti coloro che sono morti per la patria. Sappiamo però a che cosa serve: ad affermare in modo inequivocabile che i popoli d’Europa sono «fratelli», un’unica Nazione, un unico Stato e, di conseguenza, la guerra fra loro è una guerra «civile».
A questo, del resto, è adibita la scuola di Stato: a preparare dei docili insegnanti e dei docili allievi della democrazia. E dell’Unione Europea. Quanto è stato flagellato Mussolini perché nelle scuole di Stato si formavano i giovani fascisti! Ma in che cosa sono diverse le nostre scuole dove si distribuiscono gratuitamente libr...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Sommario
  5. Premessa
  6. 1. Salvare l'Italia dall'Europa: Il lungo itinerario di una battaglia perduta
  7. 2. Il Tradimento
  8. 3. L'Invenzione dell'Europa
  9. 4. L'Impero dei Banchieri
  10. Bibliografia