Figlie dell'Islam
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Figlie dell'Islam

La rivoluzione pacifista delle donne musulmane

  1. 348 pagine
  2. Italian
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Figlie dell'Islam

La rivoluzione pacifista delle donne musulmane

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Shabara è nata in Inghilterra da una famiglia pakistana, si sente "inglese al cento per cento" e il velo islamico lo mette solo quando va in moschea. Sua cugina Tiyaba lo tiene sempre: le hanno detto che nel giorno del giudizio il diavolo urinerà sulle teste delle donne che non lo portano. Asmaa ha una cicatrice che non guarirà mai: a quattro anni, la mammana del suo villaggio egiziano le ha reciso il clitoride con un rasoio. La madre di Husnia si è sposata a nove anni ma a quattordici sua fi glia, oggi docente universitaria nello Yemen, è riuscita a rifi utare il marito scelto per lei. M., psicoanalista, e altre quarantasette donne dell'alta borghesia saudita si sono messe al volante per protestare contro la legge che vieta loro di guidare; hanno percorso poche centinaia di metri prima di essere arrestate. Khadija, fuggita dall'Algeria della guerra civile, ha scatenato polemiche indossando l'hijab per condurre il tg su Al Jazeera. Proprio perché non voleva uscire senza velo, Hayrunisa, l'attuale fi rst lady turca, da giovane è stata costretta a rinunciare all'università: nel suo Paese il copricapo islamico è proibito nelle istituzioni pubbliche. A Tangeri, Meriam scrive la tesi di dottorato sulla condizione delle prostitute e per le sue ricerche ha vissuto un mese con loro; l'hanno sgridata perché non rispettava il digiuno del Ramadan. Sono solo alcune delle voci che Lilli Gruber ha ascoltato nel corso del suo viaggio nel mondo islamico, alla scoperta di un universo femminile che si batte con straordinario vigore per il riconoscimento dei propri diritti in una realtà maschilista e retrograda. È una lotta che non conta solo per il destino delle donne: dalla loro battaglia rivoluzionaria dipende l'avvento della democrazia e della modernità nei Paesi islamici, unico rimedio contro i mali opposti e intrecciati dell'estremismo e del dispotismo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858607886
Categoria
Sociology

CAPITOLO 1

IL DIAVOLO E IL VELO

«M I CHIAMO JASMINE.» Mi trovo nell’Ufficio islamico di assistenza del quartiere di Balsall Heath, alla periferia di Birmingham. Qui convergono donne in cerca di consigli e aiuto su tutti gli aspetti della vita: la salute, il lavoro, la famiglia. Jasmine, snella ed elegante, indossa jeans attillati e una maglia che le disegna il busto slanciato. Il suo bel viso dalla pelle olivastra e dai grandi occhi scuri è incorniciato da un foulard di un azzurro intenso.
È inglese e la sua famiglia è di origine pakistana. Ha appena compiuto trentasei anni. Quando ne aveva diciotto, il padre le presentò un ragazzo, un cugino, annunciandole che sarebbe diventato suo marito. Era la prima volta che lo vedeva. «Non gli avevo mai parlato.» Non seppe rifiutare.
Iniziò così il suo calvario. Il marito, molto conservatore, le impose subito di indossare il niqab, il lungo velo nero che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando scoperti solo gli occhi. Ovviamente le proibì di continuare gli studi e di cercarsi un lavoro. La coppia non ha mai avuto figli, come se il corpo di Jasmine si rifiutasse di portare in grembo il frutto di quell’unione tanto detestata. Usciva raramente, e non aveva nessuno con cui condividere il suo inferno, durato quindici anni. Fino a quando lei ha deciso che non poteva più sopportare una vita troppo simile alla morte.
Tre anni fa, Jasmine è tornata dalla sua famiglia e ha supplicato il padre di chiedere il divorzio e di riprenderla in casa. «All’inizio lui ha rifiutato» ricorda la giovane donna, e i suoi grandi occhi si velano di lacrime. «Per lui era impensabile.» Ma era troppo disperata. «Mi ha vista piangere tutti i giorni per due anni» dice, e la sua voce non tradisce nessuna traccia di collera. Alla fine il padre capisce e accetta: verrà «divorziata» come è stata «sposata» e potrà anche riprendere gli studi. Oggi Jasmine è consulente per l’orientamento professionale e il suo destino è cambiato: «Sto imparando di nuovo a vivere» sospira. Purtroppo dopo il divorzio il padre si è ammalato. «Solo sul letto di morte mi ha chiesto perdono. Perdono per avermi costretta a sposare un uomo che non amavo.»
La storia di Jasmine non è un caso isolato. In Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Italia e in altri Paesi del Vecchio Continente, i racconti di soprusi e violenze accompagnano regolarmente il dibattito sulla compatibilità tra Islam e democrazia e sull’integrazione dei musulmani europei. E viene naturale porsi una domanda venata di indignazione: come è possibile che in società moderne, liberali, ricche, le giovani donne siano vittime di pratiche tanto retrograde? Che subiscano in questo modo la legge degli uomini? In nome di quale superiorità o di quale fatalità storica? La religione, le tradizioni: tutto viene invocato per spiegare, e addirittura giustificare, usanze inaccettabili. «Ciascuno si porta dietro la propria cultura, che sia nato qui o in Pakistan» mi dice Jasmine, come a voler scusare il genitore.
Ovviamente non è così semplice. In Europa la presenza di forti comunità musulmane costituisce un problema complesso dalle molte variabili economiche e sociali. È anche una sfida politica, esasperata dalle emergenze dei clandestini e dalle controverse trattative sull’ingresso della Turchia nell’Unione. Tendono a prevalere toni emotivi fino all’isteria quando si toccano temi come la lotta al terrorismo o la difesa delle libertà individuali. Basta pensare alle furiose polemiche scatenate ovunque dai molti dibattiti sull’hijab, il velo che copre solo il capo, e sull’abbigliamento delle musulmane.
Per il mio viaggio nell’universo delle donne nell’Islam, la Gran Bretagna è un punto di partenza quasi obbligato. Questo Paese tollerante ha rappresentato per molto tempo un porto per tutte le fedi e per tutte le sensibilità bandite da altri orizzonti. Gli oppositori politici del mondo arabo, in particolare di credo islamico, vi hanno trovato un rifugio e una piattaforma da cui continuare la loro azione. E non è certo un caso che un quartiere di Londra, a maggioranza musulmana, sia stato battezzato «Londonstan».
Terra di accoglienza e luogo di coabitazione, il Regno Unito sembra essere stato capace di integrare pacificamente le sue diverse etnie. O quantomeno godeva di questa reputazione, fino al 7 luglio 2005. Quel giorno una serie di attentati a Londra ha fatto 52 vittime: per gli inglesi ormai il 7/7 è un giorno nero, come per gli americani il 9/11. Scoprire che dei giovani, seguaci del Profeta ma perfettamente assimilati nella società liberale e cosmopolita della capitale, potevano trasformarsi in bombe umane è stato uno shock. La nazione ha dovuto affrontare un brusco risveglio. L’elemento scatenante della violenza terroristica, si è subito osservato, sono state le scelte politiche della squadra di Tony Blair: l’avventura americana in Iraq e lo scarso impegno sul fronte israelo-palestinese hanno alimentato la frustrazione e la collera di una comunità islamica che non può non sentirsi solidale con i suoi fratelli di fede.
Mio marito Jacques e io siamo atterrati all’aeroporto di Birmingham sotto un cielo basso e grigio. Pioverà per tutti e tre i giorni della nostra permanenza nel capoluogo delle West Midlands. Abbiamo sorvolato tipiche periferie di casette in mattoni a vista e dai tetti di ardesia, allineate a disegnare figure geometriche sul tappeto verde della campagna. Osservando dall’alto, niente tradisce la presenza di quella che rimarrà ancora per poco una minoranza musulmana e a fatica, durante l’atterraggio, sono riuscita a scorgere all’orizzonte il minareto e la cupola di una moschea.
Birmingham è stata, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la capitale della rivoluzione industriale. Si trovava nel cuore del «Paese nero», la regione inglese delle industrie pesanti, nate dall’unione dei settori minerari del ferro e del carbone. Da allora ha saputo riconvertirsi al terziario: qui si sono trasferiti in massa banche, compagnie di assicurazione e oltre 300 studi legali. Conta più di un milione di abitanti, di cui quasi un terzo di colore, non-white (non bianchi). Ospita un mosaico di culture: indiani, pakistani, bengalesi, ma anche africani e arabi. È l’immagine fedele di una nazione che ha accolto due milioni e mezzo di persone dopo che Londra si è liberata dell’Impero coloniale. Stando alle previsioni demografiche, Birmingham diventerà la prima città europea con una popolazione a maggioranza non-white.
Mentre ci porta in centro, il nostro tassista, Muhammad Zabar, ha voglia di chiacchierare. Originario di Islamabad, vive qui da trentacinque anni, frequenta la moschea solo di tanto in tanto e pensa che si possa vivere nel rispetto di una religione pur senza essere un fervente praticante. Non gli piacciono gli estremisti e secondo lui stanno arrivando anche qui.
A fine gennaio 2007 è stato arrestato un gruppo di giovani cittadini britannici di origine pakistana, con l’accusa di cospirazione terroristica. Secondo gli inquirenti, progettavano di rapire, torturare e decapitare un soldato musulmano dell’esercito della Corona, appena tornato dal servizio in Afghanistan. Avrebbero poi pubblicato su Internet un video con la registrazione dell’esecuzione per imitare, secondo la polizia, i jihadisti iracheni. Il 16 settembre 2004 infatti il sessantaduenne inglese Kenneth Bigley era stato rapito a Baghdad e la sua decapitazione, tre settimane dopo, era stata filmata e messa on-line.
Muhammad è scettico: «Qui i ragazzi parlano molto, ma parlano e basta. Passare all’azione è un’altra cosa».
Gli chiedo cosa pensa del velo: «Assurdo» mi risponde. «Quando una persona si copre, nasconde la propria identità. Se le donne vogliono portarlo, hanno il diritto di farlo, ma solo gli uomini insicuri pretendono che si coprano dalla testa ai piedi. Pensano: “Se mia moglie si vela nessuno la potrà guardare”. Ma chi impedirà alle donne di guardare?»
Nina Gill, la mia spumeggiante amica del Parlamento europeo, è una degli eletti laburisti di Birmingham. È una piccoletta dai capelli scuri, lo spirito vivace e la risata facile. Dopo la separazione dal marito cattolico di origine italiana sta crescendo un ragazzone che le dà parecchi grattacapi.
«Ha trovato una fidanzata musulmana che lo vuole a tutti i costi convertire. Come se non bastasse, si lascia coinvolgere troppo dalle prediche infuocate degli imam» si lamenta con me. «Li reclutano nelle università e loro si lasciano affascinare.»
Nina è di origine indiana e di etnia sikh, la sua famiglia proviene da Bangalore. È laica ma si interroga, come me, sulla necessità di avere oggi un approccio più aperto alla crescente dimensione religiosa delle nostre società. E per cercare qualche risposta, decidiamo di andare alla moschea.
Un minareto dalla punta verde svetta tra i villini di mattoni rossi a un incrocio del quartiere di Small Heath: un tocco di esotismo in un panorama che trasuda conformismo. L’elegante torre domina la moschea di Ghamkol Sharif e le due cupole di ardesia nera. Un grande striscione verde accoglie i credenti che affluiscono per la funzione del venerdì in uno dei più grandi luoghi di culto islamico europei. Jacques e io siamo in compagnia di Nina e di Mahmud Ahmed, membro del consiglio comunale della città. Cinquant’anni ben portati, elegante nel suo abito grigio, cravatta a righe e cappotto di cashmere blu, è l’immagine del pakistano perfettamente integrato. Arrivato in Gran Bretagna a quattordici anni, oggi è ingegnere, marito e padre di quattro figli, oltre che un membro attivo del Partito laburista di Tony Blair. Farà gentilmente da guida a Jacques, mentre noi seguiremo la predica dalla zona riservata alle donne.
Mi fermo sulla spianata antistante a osservare i fedeli, soli o con le famiglie. Prevalgono gli abiti tradizionali: lunghi vestiti per le signore, tutte con il capo coperto da un velo leggero, e per gli uomini pantaloni ampi, casacche che arrivano fino alle ginocchia, zucchetti bianchi in testa.
Una stretta scala conduce al primo piano, su un mezzanino dove pregano le donne mentre i maschi occupano il piano terra. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo per terra, in un frusciare di stoffe e in un brusio di frasi sussurrate. Siamo isolate da vetri scorrevoli, coperti da tende che scosterò appena per vedere cosa succede di sotto. Le mie compagne indossano tuniche e hijab colorati. Ci rifugiamo in una saletta per chiacchierare tranquillamente, mentre dagli altoparlanti rimbomba la voce dell’imam.
La figlia di Mahmud si è seduta accanto a me. Si chiama Shabara e ha ventisei anni. È avvocato e si definisce «inglese al cento per cento». Accanto a lei, c’è la cugina, Tiyaba: ha vent’anni e studia per diventare insegnante. Cominciamo a conversare a bassa voce, con le madri che ogni tanto intervengono in urdu, tradotte per me dalle figlie.
«In generale, non porto l’hijab» mi spiega Shabara «eccetto quando vengo qui. Un po’ come le donne cattoliche che si coprivano la testa per entrare in chiesa. Ma oggi» aggiunge «le ragazze sono sempre più convinte che per essere buone musulmane si debba per forza fare determinate cose, come indossare il foulard o rinunciare al profumo perché contiene alcol. Io non ho di questi problemi. So di poter seguire la mia religione anche senza osservare tutti questi precetti.»
La giovane Tiyaba, ammantata in un velo nero, mi sembra un po’ più confusa: «Ho iniziato a portare l’hijab a diciotto anni, perché volevo praticare meglio l’Islam». Con un po’ di esitazione, aggiunge: «Gli hadith» ovvero i discorsi attribuiti al Profeta «dicono che se le donne non lo indossano, il diavolo urinerà sulle loro teste il giorno del Giudizio». Sono sbalordita. E anche Shabara, che non riesce a trattenere una risata: «Com’è possibile che una ragazza come te creda a una simile sciocchezza?». Interviene la madre: «Lo hanno detto in televisione, che una donna era posseduta dal demonio perché non si copriva».
Per Shabara la soluzione è una sola: «Vede, è tutta una questione di educazione. Le donne devono studiare e interpretare il Corano per capire che il Profeta non voleva sottometterle, ma anzi promuoveva i loro diritti. Sono gli uomini che vogliono tenerci nell’ignoranza, perché pretendono di controllare tutto, noi comprese».
Tiyaba ammette che la scelta del velo non è stata spontanea, ma sollecitata da alcuni gruppi di fondamentalisti all’università. «Ci sono molti wahhabiti e noi non conosciamo il Corano abbastanza bene per poterli contrastare» confessa. «Organizzano seminari per spiegare la parola di Dio, ma ci danno la loro versione che è la più retrograda.» I wahhabiti sono il movimento islamico più conservatore: fedele alle tradizioni, dogmatico e a volte violento, è intransigente nella difesa di quella che ritiene la sola e unica lettura del testo sacro dell’Islam. E come in qualunque fondamentalismo, il controllo del corpo femminile è quasi un’ossessione. Chiedo allora alle due ragazze cosa sanno del femminismo occidentale e cosa pensano della libertà sessuale che ha rivendicato.
«Secondo il Corano la verginità è un obbligo non solo per le donne, ma anche per gli uomini» assicura Tiyaba. «Nella coppia prima viene l’impegno dei sentimenti e solo dopo quello sessuale.» Shabara mi dà una risposta più pragmatica: «La religione non deve imporre obblighi né giudizi, solo Dio sa cosa c’è nel tuo cuore».
Però tutte e due sono d’accordo nel condannare la poligamia, che in Gran Bretagna ovviamente è vietata. E d’altro canto in tutta Europa non troverei una sola donna disposta a difenderla, anche se viene presentata come una tradizione autorizzata dal Libro sacro: «Ma le ragioni sociali e culturali che la giustificavano nel VII secolo oggi non sussistono più» spiega Shabara.
Per un po’ ascoltiamo la celebrazione. Guardo attraverso uno spiraglio della tenda e mi chiedo quanti di questi uomini siano d’accordo con noi. Osservo le movenze dei fedeli che si sistemano sulla moquette rossa, dove all’inizio ognuno prega individualmente e compie le genuflessioni rituali secondo il proprio ritmo. Poi l’imam prende la parola, in un misto di inglese e urdu. «Parla dei compagni del Profeta» traduce per me Shabara «e del loro messaggio, del bisogno di solidarietà e di tolleranza.» Seduti a gambe incrociate, appoggiati alle pareti, sembrano ascoltare distrattamente, ma al culmine di questa giornata dedicata alla fede la scena cambia.
Gli uomini, finora sparpagliati, si raccolgono intorno al minbar, il pulpito, allineati spalla contro spalla, in file da 50. Sembra che serrino i ranghi, in un movimento che esprime l’unità della comunità intorno alle parole del capo. La loro ordinata disciplina contrasta in modo stridente con la confusione e l’esuberanza che i nostri luoghi comuni attribuiscono all’Oriente. Tutti i gesti vengono compiuti all’unisono e il pavimento vibra quando si inginocchiano in silenzio. Un rumore simile a un sordo, lontano rullo di tamburo.
Una città come Birmingham rispecchia tutti i temi caldi dell’immigrazione, che influenzano anche il dibattito sulla questione femminile: il terrorismo, inevitabile contesto di qualunque riflessione sull’Islam dopo l’11 settembre 2001; la guerra in Iraq, ferita aperta che nessuno sa rimarginare; l’autodifesa che spinge sia i cristiani sia i musulmani a richiudersi su se stessi; e infine la crescita demografica che aumenta la paura di un’islamizzazione del Vecchio Continente.
Ma l’Islam è una dimensione dell’Europa da cui non si può prescindere, sia che ci lasci indifferenti, che ci spaventi o che riusciamo ad accettarlo. Il processo di decolonizzazione, il bisogno di manodopera, la nostra ricchezza, le attrattive di sistemi politici più stabili, liberi e democratici, sono tutti motivi che continuano a portare verso l’Occidente generazioni di immigrati alla ricerca di una vita migliore. Così è nata l’America e così sta cambiando oggi l’Europa.
Parallelamente, neppure l’Islam può più prescindere dalla straordinaria esperienza democratica europea, in cui lo Stato di diritto – con tutti i suoi limiti, paradossi e contraddizioni – è un costante stimolo al cambiamento. È in questo che sbagliano i pessimisti e gli allarmisti, che agitano lo spauracchio del pericolo musulmano. Perché vedere nel dinamismo della religione di Maometto soltanto un pericolo, e non anche un’opportunità per riaffermare i concetti che hanno fatto la forza del modello europeo?
«I musulmani vogliono integrarsi nella società occidentale, ma sentono di essere considerati estremisti. In queste condizioni i giovani possono subire il fascino del fondamentalismo» esordisce, preoccupata, Salma Yaqoob. È stata indicata come una delle trenta donne più influenti del Regno Unito. È l’unica musulmana a sedere nel consiglio comunale di Birmingham. Eletta nel 2006 come capolista del partito Respect, che la annovera tra i fondatori, è l’esponente di punta della battaglia politica per un Islam europeo. L’ho vista per la prima volta in un dibattito sulla Bbc e mi avevano colpita, oltre al bel viso e all’elegante hijab, la sua dialettica e la sua autorevolezza. La sfida di Salma è inserire le rivendicazioni dei diritti delle donne e dei musulmani in un discorso più ambizioso di lotta contro le disuguaglianze economiche e sociali.
«Vogliamo ispirare un vero cambiamento, che porti più democrazia e più giustizia per tutti» mi dice.
Salma è inglese di origine pakistana, nata in una famiglia tradizionalista. In gioventù ha pensato di convertirsi al Cristianesimo, ma poi ha deciso che la Bibbia è meno attenta del Corano ai diritti femminili, e a diciotto anni ha cominciato a portare il velo. Quando la incontro indossa un foulard blu che mette in risalto i lineamenti fini e i suoi occhi neri sostengono senza esitazioni lo sguardo dell’interlocutore. A trentasei anni è madre di tre bambini e lavora come psicoterapeuta dell’adolescenza.
Nessuno le ha imposto di coprirsi il capo: «Sono stata io a prendere questa decisione. Ma se fossi vissuta in Arabia Saudita, credo che avrei fatto di tutto per non portarlo!» aggiunge, ridendo. «L’Islam permette di rifiutare, di accettare, di fare le proprie esperienze» continua. «La religione è un’arma che si può persino usare per sfidare l’autorità dei genitori. Al contrario di certe famiglie, infatti, non vieta alle ragazze di andare a scuola, di uscire di casa e di trovarsi un lavoro.»
La vita di Salma, come di molti altri della sua stessa fede,...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Introduzione - Mille e una donna
  4. Capitolo 1 - Il diavolo e il velo
  5. Capitolo 2 - Il martirio di Asmaa
  6. Capitolo 3 - Sotto la maschera dei faraoni
  7. Capitolo 4 - Il papa sunnita
  8. Capitolo 5 - Sesso e Islam
  9. Capitolo 6 - I misteriosi Fratelli musulmani
  10. Capitolo 7 - Kifaya!
  11. Capitolo 8 - La bambina che litigò con Dio
  12. Capitolo 9 - «Formidable Yemen!»
  13. Capitolo 10 - Saud e Wahhab
  14. Capitolo 11 - In fuga dai mutawwa
  15. Capitolo 12 - In nome del padre
  16. Capitolo 13 - Il Corano e il testosterone
  17. Capitolo 14 - «Le donne sono i fratelli degli uomini.»
  18. Capitolo 15 - Gedda, il soffio della libertà
  19. Capitolo 16 - Il profumo del potere
  20. Capitolo 17 - Medina haram!
  21. Capitolo 18 - Lipstick jihad
  22. Capitolo 19 - Una Mercedes piena di rose
  23. Capitolo 20 - I petali di Taif
  24. Capitolo 21 - Aramco city
  25. Capitolo 22 - Le perle del Golfo
  26. Capitolo 23 - Tra guerra e ayatollah2
  27. Capitolo 24 - Femminismo e Islam nella vecchia Bisanzio
  28. Capitolo 25 - La scandalosa first lady
  29. Capitolo 26 - Marocco a luci rosa
  30. Capitolo 27 - Un amore a Casablanca
  31. Conclusione - Addio all’harem
  32. Glossario
  33. Ringraziamenti
  34. Indice