Pretacci
eBook - ePub

Pretacci

Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede

  1. 305 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Pretacci

Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Quello di Candido Cannavò è un reportage dentro l'«altra» Chiesa. Quella estranea alla «ritualità pomposa e noiosa che non arriva al cuore della gente». È un lungo viaggio tra i preti che interpretano la diffusione della Parola in modo combattivo perchè «il Vangelo è combattimento, è sfi da agli stereotipi, ai luoghi comuni, alle convenienze». Alla paura. Preti come monsignor Giancarlo Bregantini, che nel ruolo di vescovo di Locri è stato il faro di quanti si battono contro la 'ndrangheta. Come don Gino Rigoldi, il cappellano del «Beccaria» che da tanti anni cerca di aiutare ragazzi venuti su un po' storti. Come padre Mario Golesano, che è andato nel quartiere di Brancaccio a cercare di riempire il vuoto lasciato da don Pino Puglisi, ammazzato da un sicario al quale regalò il suo ultimo sorriso. E don Andrea Gallo, «gran cardinale della Basilica del Marciapiede», convinto come Fabrizio De Andrè che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fi ori» e dunque deciso a portare il Vangelo tra i peccatori. Fino a don Oreste Benzi, che se n'è andato per un infarto nel novembre 2007 dopo avere speso tutte le sue notti a offrire una via d'uscita a migliaia di «Maddalene» che si vendevano nelle strade. Preti spesso scomodi. «Pretacci». Come il capostipite al quale un po' tutti dicono di richiamarsi: don Lorenzo Milani. Il parroco di Barbiana che incitava i pastori di anime a non aver timore di «star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo».

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Pretacci di Candido Cannavò in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teologia e religione e Religione. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
ISBN
9788858607657

XI
MONSIGNOR GIANCARLO MARIA BREGANTINI

(Locri – Gerace)

Alla stazione di Lamezia Terme, c’è un simpatico personaggio addetto alla clientela di Trenitalia. Si chiama Gennaro e mi accoglie con calore nel suo ufficio. Sono arrivato in volo da Milano, il mio treno per Locri parte fra quasi tre ore e lui, per rendermi dolce l’attesa, propone chiacchiere, dépliant di bellezze calabresi, aneddoti, e persino un’escursione al bar di fronte per una granita al limone. Offre lui, naturalmente, guai a tentare di bloccarlo. C’è con noi una giunonica ragazza di Siracusa che ha trascorso le vacanze a Tropea: sta per laurearsi in archeologia subacquea e intanto lavora in una libreria. Donna del Sud di una generazione tutta da scoprire. Gennaro ne è attratto al punto da farle perdere, tra una gentilezza e l’altra, il treno. Comunque quest’uomo che si sbraccia per i clienti, dando loro pronte informazioni, aiutandoli e confortandoli, appartiene a una Ferrovia dei sogni che, purtroppo, è lontanissima dalla nostra realtà. Lo guardo sinceramente ammirato per il suo fervore quasi missionario, sempre pieno di allegria.
Verso le cinque del pomeriggio, Gennaro mi desta da un leggero torpore e dice: «Le mostro il suo treno. È appena arrivato, gli danno una ripulita e via, si parte dal quinto binario». Io resto perplesso: su quel binario c’è solo un patetico vagone, vecchio e isolato. Il «missionario» intuisce: «È tutto là il suo treno, un vagone solo e temo anche senza aria condizionata. Parte da Lamezia alle 17,16 e arriva a Reggio in serata. A Locri, naturalmente, si ferma. Non si stupisca dell’unico vagone. È così da sempre. La linea non è elettrificata, il binario è unico, quel trenino è un diesel, va a nafta…». Controllo la data: siamo nella tarda estate del 2007.
Monsignor Giancarlo Bregantini, il vescovo-soldato strappato alla rinascita della Locride. (Foto Roberto Bruno/Grazia Neri)
Monsignor Giancarlo Bregantini, il vescovo-soldato strappato alla rinascita della Locride. (Foto Roberto Bruno/Grazia Neri)
Dieci minuti prima della partenza sono già a bordo. L’aria condizionata c’è, fortissima, ma solo in una sezione centrale del vagone, verso la quale Gennaro mi spinge quasi di forza. Nei piccoli settori di testa e di coda si crepa di caldo. Un po’ di ritardo non si nega a nessuno, ma ecco che due trilli di campanello annunciano l’inizio dell’avventura. È tutto così strano, così antico, sorprendente, originale che via via scopro di amare questo trenino che ha almeno quarant’anni di vita e si muove come un camion sull’unico binario che esiste – mi dice il conduttore, quasi con orgoglio – da quando esistono le ferrovie. Solo lui e pochi altri sanno guidare questo reperto della storia ferroviaria con tanta perizia. Il riscatto del Sud, l’Italia che avanza, le balle che sentiamo da tanti decenni sono più vecchie del treno che marcia con dignitosa stanchezza, tra una stazioncina e l’altra, verso la sua meta sempre lontana.
Ma ecco, come in una favola, il prodigio del tempo: la vita corre veloce, sorvola il vecchiume, la cialtroneria, gli inganni e approda in un Sud che esce dai suoi triti schemi. Nella gente che popola il vecchio trenino vedo un inno di modernità, un guizzo di futuro. E sfrontatamente, protetto dai miei capelli grigi, quasi bianchi, vendemmio grappoli di storie avvincenti: ragazzi calabresi che abbandonano il binario unico di un’esistenza pigra e fatalista, perseguono idee originali e, come la ragazza dell’archeologia subacquea, fuggono verso Roma, Milano, Torino e ogni tanto tornano a fare i conti con la loro terra. C’è una ragazza che sembra una bambina, ventitré anni, una laurea, sta specializzandosi in radiologia e lavora già in una clinica di Roma. Un signore accanto le strappa meravigliato una diagnosi e una terapia impeccabili sul suo tunnel carpale. C’è il laureato alla Bocconi, contattato già da parecchie aziende. C’è il giovanotto che studia ingegneria a Torino, ma giura: «Io non abbandonerò mai la mia terra». C’è il ricercatore scientifico che andrà a Filadelfia. E io navigo, tra gli scossoni del trenino, in questa umanità calabrese brillante, determinata, chiara nelle idee e nei programmi, dove trovi anche una brasiliana giovanissima che studia giurisprudenza, vive a Crotone, sposata, separata, con un figlio di quattro anni di cui mi mostra un campionario fotografico. Io dico: «È un Pelé bambino». E lei: «Amo Pelé, gloria eterna del Brasile, ma non voglio che mio figlio faccia il calciatore». Un caso raro, forse unico, di una brasiliana che rinnega il pallone.
Ubriaco di questa umanità così avvincente, quasi mi scordo che sto andando a Locri a trovare un vescovo di frontiera, arrivato dal Nord, un trentino di Calabria che sfida la terribile ’ndrangheta sottraendole braccia, menti e cuori giovanili. Ha creato seicento posti di lavoro nella tragica Locride che proprio il giorno prima di questo mio viaggio, nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2007, ha esportato da San Luca, dove i vivi campano come morti, sino a Duisburg, nella prospera Germania, una delle sue faide più spaventose. Sei morti: i tedeschi sono raggelati dallo stupore.
Sto andando a incontrare un uomo straordinario della Chiesa senza orpelli, un vescovo-soldato del Cristo che affronta il male e si sporca le vesti: monsignor Giancarlo Maria Bregantini. Poco prima di partire ho composto il numero della sede vescovile di Locri, cercando qualche segretario o diacono per confermare l’appuntamento. Mi ha risposto lui direttamente: «Buongiorno Cannavò, sono il vescovo». Un monsignore semplice, un prete da marciapiede, l’unica sua bardatura è la barba.
Un ragazzo del treno, che vive a Ciminà, in piena Locride, mi ha detto: «Con dieci uomini come lui, ci salveremmo. L’unica terapia efficace contro la mafia è il lavoro. Il vescovo che con le sue cooperative inventa un’attività imprenditoriale per conto del popolo è un esempio straordinario che colpisce il male all’origine. Quelli della ’ndrangheta ti avvicinano, ti offrono un bel motorino, ti mettono in mano qualche centinaio di euro e i giovani senza lavoro ci cascano non solo per soldi, ma anche perché si illudono di diventare importanti, di sposare una causa. È un dramma che scorre da una generazione all’altra. Devo ringraziare mio padre se non mi sono fatto adescare».
Il trenino è fermo da un pezzo, ma nessuno ci fa caso. Controllo il nome della stazione: Caulonia. Nel clima familiare che regna nel vagone posso tornare dal guidatore che è ormai mio amico a chiedere spiegazioni per curiosità innocente e un po’ pettegola, non certo per protestare. E lui ripete quello che avrà detto mille volte: «Dobbiamo incrociare un altro treno, che viaggia in ritardo sul nostro stesso binario. Cose di ogni giorno, normalità calabrese, caro signore». E rimango con lui sino a Locri a godermi il fanciullesco piacere di un trenino che somiglia a quelli che attraversano i parchi di divertimento carichi di bambini. «La prossima fermata è la sua.» Saluto, ringrazio, prendo le mie borse e, una volta messo piede a terra, una signora chiede: «Ma siamo proprio a Locri?». Il suo dubbio è anche il mio. Poi tutto si chiarisce: stanno facendo dei lavori e hanno eliminato tutti i cartelli che identificano la stazione. Locri è un anonimo atto di fiducia. In oltre sessant’anni di viaggi non mi era mai capitato. Centotrenta chilometri in quasi tre ore, ritardi compresi. Il Sud è anche questo.
Sulla piazzetta davanti alla stazione due uomini siedono al tavolino di un bar: «Scusate, dove si può trovare un taxi?». Uno allarga le braccia, l’altro mi indirizza verso una tabaccheria: «Forse le daranno un numero telefonico». Così è. Chiamo, mi risponde Carmelo: «Arrivo in cinque minuti». Ma i minuti diventano trenta «perché due auto si sono scontrate e poi, capirà, dopo quello che è successo, ci sono i posti di blocco». Ma finalmente sono a Locri, stanco e felice. E in serata incontrerò i ragazzi del movimento «Ammazzateci tutti», nato come un grido di ribellione giovanile dopo l’assassinio di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, nell’ottobre del 2005. Ci sarà anche Rosanna Scopelliti, figlia unica del famoso magistrato calabrese ucciso nell’agosto del 1991 mentre trascorreva le vacanze vicino a Campo Calabro. Doveva sostenere in Cassazione l’accusa nel «maxiprocesso» a Cosa Nostra e si era portato dietro le carte per studiarle meglio. Lo invitarono a togliere il disturbo sparandogli addosso. E per quel delitto si realizzò un’alleanza tra ’ndrangheta e Cosa Nostra. Fu Giovanni Falcone a fare questa diagnosi e aggiunse: «Il prossimo sarò io».
* * *
Ho appena il tempo per una doccia, nell’unico albergo «consigliato» della zona, tra Locri e Siderno, lungo la famigerata statale 106, di cui si parla come di una nemica in agguato per le tante vittime che ha fatto. I ragazzi sono già nella hall. Il leader di «Ammazzateci tutti» è Aldo Pecora, un giovanotto dai capelli folti e corvini, grandi occhi scuri, uno sguardo che ti avvolge, la Calabria stampata in faccia. Fu lui, all’indomani del delitto Fortugno, consumato nell’androne di Palazzo Nieddu in pieno centro di Locri, a guidare quel ribollente corteo, saturo di rabbia innocente, con migliaia di ragazzi accorsi da tutte le parti. E in testa lo striscione che fece il giro del mondo: «E adesso ammazzateci tutti». Da ogni parte d’Italia arrivavano messaggi, soprattutto dalle scuole: «Siamo tutti ragazzi di Locri». Aldo è animato dallo spirito di rottura dei giovani che credono nella loro causa e non hanno paura dell’utopia. Sogna un cambiamento radicale della cultura, adora naturalmente il vescovo Bregantini e non ha alcuna fiducia nella politica del nostro tempo, né di destra, né di sinistra. È interprete di una sfida senza schemi, magari un po’ confusa, come tutte le sfide di popolo, per giunta di un popolo giovane, possiede un’immensa capacità di coinvolgimento, immagina programmi a largo raggio, non conta su alcun finanziamento pubblico «perché non ci accucceremo mai sotto una parte politica: sarebbe un tradimento e anche la nostra fine».
Ma i soldi servono e l’autofinanziamento è un’impresa quasi impossibile, bisogna trovare gente che ci creda, che abbia fiducia: «A due anni dalla costituzione, il nostro movimento non ha ancora una sede, ma stiamo lavorando per averne tre: a Locri, a Polistena e a Reggio Calabria, dove abbiamo organizzato proprio pochi giorni fa un grande meeting coinvolgendo società civile, imprenditoria, magistrati antimafia, uomini di frontiera come Piero Grasso e don Luigi Ciotti, qualche esponente della politica. Ma la copertura mediatica è stata modesta. I tempi della grande emotività sono lontani. Due anni fa eravamo la grande novità del Sud: tutto il mondo parlava dei ragazzi di Calabria disposti a farsi ammazzare per il riscatto della loro terra. Ora ci voleva la strage di Duisburg perché giornali e televisioni si ricordassero di noi».
Il calore e l’entusiasmo di questo giovanotto mi conquistano e non oso inquinarli con il disincanto della mia esperienza. Sarei tentato di chiedergli cinicamente cosa resti di quella meravigliosa ondata dell’autunno 2005, ma evito la domanda diretta. Il movimento si è spaccato, una piccola parte ha trovato un generico patrocinio della politica e ha assunto una denominazione diversa: «Forever». Hanno sede presso Palazzo Nieddu e ottengono finanziamenti: realismo o forse opportunismo. La presidente Lucia Pelle è anche consigliere comunale. Aldo Pecora non li considera come concorrenti, tutt’altro, ma è fiero di rappresentare il filone primigenio del movimento. «Nessuno annacquerà mai lo spirito di “Ammazzateci tutti”: sarà sempre quello del primo giorno. Nel forum del nostro sito sono iscritti tuttora 3500 ragazzi di ogni parte d’Italia, i calabresi sono tra i 500 e i 600. Posso dire con orgoglio che abbiamo portato il nostro senso di rivalsa in campo nazionale: con l’odore e il dramma della Calabria, ma anche come un’idea giovanile di giustizia. Ci chiamano da tutte le parti per conferenze, dibattiti. Un po’ meno, purtroppo, in Calabria. Nella nostra terra ci sono due poli: il coraggio estremo da una parte e l’indifferenza dall’altra che, naturalmente, è parente della paura. Da un lato prèsidi meravigliosi che si uniscono alla nostra causa e ci aprono le porte dei loro istituti e dall’altro scuole impenetrabili, come se vivessero nella terra di nessuno. La ’ndrangheta è diventata una potenza mondiale, ma la sua base è qui nella Locride ed è proprio qui che bisogna stroncarla, toglierle il fiato e la linfa, convincendo i giovani che cambiare è possibile, che non sono condannati a vivere nell’incubo o a scegliere quasi per necessità la via della perdizione. Certo, alla base c’è il lavoro, deve esserci una prospettiva di vita onesta. In questo senso, il vescovo Bregantini sta facendo miracoli.»
E con i toni musicali di una storia bella, Aldo mi racconta della moglie di un uomo della ’ndrangheta condannato a due ergastoli che si presenta al vescovo con il figlio: «“Non voglio che questo ragazzo faccia la fine del padre. Per favore, se lo prenda lei.” Il monsignore s’illumina di speranza, vede una breccia in quello che sembrava un muro impenetrabile. E oggi quel ragazzo è capo di una cooperativa che coltiva piccoli frutti della terra bene accolti dal mercato, fa un lavoro onesto e si guadagna da vivere».
Aldo ha pensieri profondi e fantasiosi, ha mantenuto la sua grinta arricchendola con il bene della maturità. Ma se gli chiedi «quanti anni hai?», puoi anche svenire. Ventuno. Si laureerà in giurisprudenza a Roma, farà la scuola di specializzazione in Calabria e all’orizzonte un’idea, una soltanto, ma forte come un caposaldo della vita: «Voglio fare il magistrato». Ragazzi del Sud, una generazione che avanza.
Rosanna Scopelliti ha ventitré anni, sta per laurearsi in lettere a Roma. Ascolta Aldo con un affetto che mi sembra molto devoto. È sottile, dolcissima, di una bellezza che resta sospesa nell’immaginazione. Ma il sospetto di una femminilità amorevole, antica e gregaria, non ti sfiora nemmeno: le parole di Rosanna sono artigli contro il male che la vita le ha fatto, male ancora presente, ingigantito dal tempo, dal volume degli affari che il carnefice realizza nel mondo e invelenito da un’ingiustizia che non si estingue, perché gli assassini di suo padre sono stati archiviati come fantasmi: la Cassazione ha assolto tutti gli imputati del processo. Impossibile dimenticare.
«Il giorno che ammazzarono mio padre avevo sette anni, ma lui è presente in me, perché quando il lavoro di magistrato impegnato in grandi processi, compreso quello contro gli assassini di Aldo Moro, gli consentiva di stare con noi, era una presenza che riempiva la nostra casa di affetto, tenerezza, intelligenza, fiducia. Eravamo in vacanza quando gli spararono addosso. E ho odiato la Calabria. Ci hanno portate via per ragioni di sicurezza, ma in realtà mia madre e io siamo fuggite da questa terra che, tra l’altro, ha dimenticato mio padre. Non c’è una strada dedicata a lui, un busto, un’iniziativa pubblica, qualcosa che consegni alla memoria della gente il ricordo del suo sacrificio. Il classismo anche tra i martiri: i Falcone e Borsellino, dinanzi ai quali tutti ci inchiniamo, e i dimenticati. Lo ha denunciato anche il giudice Antonino Caponnetto, padre spirituale di molti eroici magistrati. Ma adesso, come vede, sono tornata grazie al movimento “Ammazzateci tutti” al quale ho aderito: loro mi hanno chiamata, coinvolta, conquistata. E io ho una ragione in più per lottare: mio padre. Combatto per me e per lui. Vivo a Roma, ma torno, sono presente, il movimento ha dato una ragione alla mia vita.» Aldo la guarda con occhi da innamorato. E io pure.
I due ragazzi mi portano fino a Siderno a mangiare un po’ di pesce su un’auto vecchia e scassata che immagino sia sorella del mitico trenino che mi ha condotto qui, ma è una giornata di cui non ho sprecato un solo momento. La stanchezza evapora. Continuo a sentirmi contento. Domani mi aspetta il vescovo Bregantini che – non v’inganni il modesto palazzo curiale – vive anche lui sul meraviglioso marciapiede che stiamo percorrendo insieme.
* * *
Arrivo alle 9 in punto, sul taxi di Carmelo, simpatico nonnino che mi ha salvato dalla solitudine alla stazione e che in pochi minuti riesce a raccontarmi la sua vita concludendo con una punta di orgoglio che il figlio, se Dio vuole, sta per diventare ingegnere.
Dietro il cancello della sede vescovile c’è già una coppia di anziani coniugi. Arrivano da Varese ogni anno e vanno a salutare questo monsignore ricco di fascino. La signora mi scruta con particolare interesse: «Immagino sia un prete anche lei…». Sarei quasi tentato di accontentarla, ma non reggerei alla finzione: meglio deluderla. Il vescovo viene personalmente a salutarci nell’anticamera, dove le pareti sono tappezzate di ritratti, compreso il suo, e dove regna sovrano un gentile segretario, Michele Trichilo. Sacerdote? Diacono? «No,» risponde «laico come lei.» Arrivano altre persone: coppie di suorine, uomini seri e silenziosi e una giovane donna, madre di due bambini, che viene da Saronno e conosce bene Simona Atzori, la ballerina-pittrice senza braccia protagonista del mio libro sui disabili, che vive da quelle parti. Da Saronno a Locri per conoscere un vescovo da trincea? «Be’, qui c’è anche un bel mare, i bambini giocano sulla sabbia.»
Monsignor Bregantini, che tutti chiamano Giancarlo, indossa la solita tunica nera. È un uomo semplice, sin troppo, ma c’è in lui un certo magnetismo che ti conquista piano piano, direi con garbo. Gli parlo di questo mio viaggio sulle tracce di uomini di Chiesa che, come Gesù Cristo, portano il Vangelo sul marciapiede della vita, fuori dalla stanca e a volte pomposa ritualità del Tempio. E lui cita subito il nome del suo ispiratore, padre di tutti i miei amati «pretacci»: don Milani, con il suo esempio, il suo sacrificio, la sua emarginazione, la sua distanza dalla burocrazia curiale. Gli dico che anche padre Zanotelli e don Santoro, pur appartenendo a generazioni diverse, si sono ispirati a don Milani. E aggiungo: «Mi sembra, però, che la Chiesa ufficiale lo abbia trattato male, confinandolo a Barbiana, un paesino toscano dove ha costruito la sua grandezza». «È vero,» risponde lui «ma anche se la Chiesa era lontana, don Milani le è rimasto fedele. C’è una sua frase eloquente: “Della Chiesa ho bisogno, io la amo perché non saprei dove confessarmi”. Vi si legge il diverbio contenuto in una grande storia di fede.»
La chiacchierata ci conduce presto in un mare di curiosità reciproche avvincenti quanto si vuole, ma in contrasto con quell’anticamera popolata da gente in attesa. Esperienze comuni s’incrociano: il carcere, il valore umano dei disabili, il mondo dello sport, l’incontro con papa Giovanni Paolo II. E la Locride sullo sfondo, dove lui è il generale di un’armata che si chiama «Irriducibile Speranza». Monsignor Giancarlo evita il dolce naufragio nel quale stiamo scivolando: «Fermiamoci qui, lei mi ha detto che oggi è libero: torni nel pomeriggio, saremo soli, avremo tutto il tempo necessario a disposizione. Dovrò ricevere soltanto un giornalista tedesco…».
E nel pomeriggio me lo ritrovo davanti rilassato, confidenziale, con le maniche della tunica rimboccate, come immagino fosse dopo il lavoro il giovane operaio Giancarlo Bregantini, cresciuto in una famiglia contadina della Val di Non, dove maturano mele turgide e famose e campioni di ciclismo come Aldo Moser e Gilberto Simoni. «Sì, operaio durante gli studi: prima a Porto Marghera, poi in una fonderia di Verona. Esperienze preziose che hanno fatto da base alla mia formazione. Ho imparato la vita, come fece Cristo a Nazaret prima di predicare. Presto mi trovai davanti a un bivio: o entri in seminario, o vai per un’altra strada. Scelsi il seminario, ma l’esperienza operaia mi rimase dentro, incancellabile.» Gli chiedo come accade che un aspirante prete delle valli trentine diventi calabrese a tutti gli effetti, uomo del Sud ormai consacrato da esperienze profonde nell’arco di oltre un trentennio. Ed ecco che ricompare lo spirito operaio. «Non ero ancora prete quando chi mi guidava negli studi ebbe l’intuizione: vai al Sud, vacci da giovane, con tutto il tuo entusiasmo. Il Sud come fabbrica. E io partii per il viaggio della mia vita. Mia madre Albina ha ottantasette anni. Anche lei è a Locri, vive quasi sempre con me: ha scelto il Sud e il figlio vescovo insieme. La prima estate – era il 1975 – la passai in provincia di Cosenza, poi arrivai a Crotone. Il Sud era ormai la scelta definitiva. Si era chiusa una porta, se ne apriva un’altra. Due anni di studio, di osservazione, di lavoro tra la gente, poi sempre...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Prefazione di Gian Antonio Stella
  4. Introduzione
  5. I. Don Gino Rigoldi
  6. II. Don Marcellino Brivio
  7. III. Don Andrea Gallo
  8. IV. Don Luigi Melesi
  9. V. Don Virginio Colmegna e don Massimo Mapelli
  10. VI. Don Fortunato Di Noto
  11. VII. Padre Mario Golesano
  12. VIII. Don Oreste Benzi
  13. IX. Don Alessandro Santoro
  14. X. Padre Alex Zanotelli
  15. XI. Monsignor Giancarlo Maria Bregantini
  16. XII. Don Luigi Merola
  17. XIII. Monsignor Pietro Sigurani
  18. XIV. Don Matteo Zuppi
  19. XV. Don Luigi Ciotti
  20. XVI. Don Luciano Scaccaglia
  21. XVII. Don Dante Clauser
  22. XVIII. Padre Giancarlo Bossi
  23. XIX. Don Albino Bizzotto
  24. XX. Padre Antonio Fallico
  25. Ringraziamenti
  26. Indice